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San Patrizio cancella il Nord e il Sud. Auguri verde Irlanda

di Mario Bernardi Guardi - 10/04/2007

 

Un marzo verde Irlanda. Il 17, la festa

del patrono, San Patrizio, il missionario

della Cristianità: e quella irlandese

è da sempre ardente, furiosa,appassionata.

Esagerata, se si vuole, come l’orgoglio

identitario. Ancora in sofferenza, per la faccenda

dell’Ulster. Perché l’isola deve essere

unita e repubblicana. Storia e memorie

vogliono l’Irlanda “una”: non un Nord e un

Sud.

Questo è il richiamo del sangue: una cosa

calda e rossa. Barbara. Mica acquetta. E tuttavia

il 31 c’è un’altra ricorrenza, che è un

pezzo palpitante di cuore. Settant’anni fa, la

nuova costituzione dice che “una” Irlanda

comunque è nata. Col segno antico dell’Eire,

dal gaelico Poblàcht Na h’ Éireann. Ed ecco

in questi giorni, benedicente Blair, nel castello

di Stormont, il tavolo della pace tra il vecchio

reverendo protestante Ian Paisley, leader

unionista, e Gerry Adams,

leader del Sinn Féin, 58

anni ben portati, giglio all’occhiello

a ricordo della Pasqua

di Sangue del 1916. La pace

sia con voi, con il governo che

farete, con noi, con l’Europa

unita, senza più guerre, senza

più guerriglie, a mani e animi

disarmati, con inglesi e irlandesi

che si sbaciucchiano? E

come si fa a continuare a sbranarsi

tra una patria cattolica

che da secoli lotta per essere

Nazione e Stato, e una patria

protestante che da secoli è

Nazione, Stato e Impero e

schiaccia sotto i piedi razze e

popoli “inferiori”; come si fa a

continuare a sbranarsi mentre

da tutte le parti si grida “Mamma

li Turchi, i Saraceni, gli

Arabi, l’Islam” e via con mezze

lune rosso sangue, e c’è

bisogno di far fronte comune,

magari un po’ mondialista,

magari un po’ meno nazionalista,

tanto una provvida Patria-

Contenitore c’è, con tutte le

stelle e le strisce al punto giusto,

e allora non si può più perder

tempo con rancori vecchi

di mille anni?

Beh, non si tratta di perder

tempo, ma, visto che si parla e

straparla di Terzo Millennio,

con conseguente opportunità di

superare tutti i furori, e di tutti

i tipi, che hanno insanguinato il

Vecchio Continente nel corso

della storia, ebbene, una riflessione

piccola piccola ma tosta

tosta possiamo farla. Prendendola

così com’è da Franco Cardini

che, nell’introduzione al

bel saggio di Manfredi Martelli

La lotta irlandese.Una storia

di libertà (Il Cerchio, pp. 263,

20), osserva: «Quel che più

scandalizza chi ripensi alla plurisecolare

storia dell’Irlanda e

dei suoi rapporti con la prepotente

vicina - e soprattutto al

drammatico secolo che va dall’emancipazione

formale dei

cattolici del 1829 all’accordo

anglo-irlandese del 1921 che

consentiva la costituzione dello

stato libero d’Irlanda - è che la

prepotenza e la ferocia della

repressione inglese abbia potuto

scatenarsi nella generale

indifferenza quasi costante dei

governi e delle opinioni pubbliche

dell’Europa e del mondo,

mentre d’altro canto politici

e intellettuali inglesi impartivano

al mondo stesso sussiegose

lezioni di libertà e di democrazia.

Del resto, l’Inghilterra

c’era abituata; durante le guerre

indiane e fino alla liberazione

dell’India aveva potuto

combattere per lunghi decenni

una delle guerre coloniali più

feroci e repressive che la storia

ricordi, e al tempo stesso non

aveva mai cessato di proclamare

se stessa modello civile; trovando

sempre chi, chiudendo

gli occhi nei confronti degli

esempi appunto irlandese e

indiano, le dava ragione».

Ora, serve a poco tirar fuori

dalle soffitte della politica polverose

suggestioni a base di

“perfida Albione” e di “Dio

stramaledica gli Inglesi”, ma

qualche domandina sul perché

gli Irlandesi siano stati considerati

- prima che li scoprisse

quella Gran Fabbrica

dell’“immaginario collettivo”

che è il cinema hollywoodiano

- “figli di un Dio (o di un’Europa)

minore” o qualcosa del

genere, forse è il caso di porsela.

Per aprirsi - giustamente - al

futuro, rispettando - altrettanto

giustamente - il passato. E

rispettare significa pensare,

leggere, scrivere. Significa

scoprire perché questa orgogliosa

e sbrindellata Irlanda si

è vista per tanto tempo relegata

al ruolo di una Cenerentola che

deve occuparsi solo di spazzatura

e di fame disperata, di

carestie, di cenere e del sangue

e delle ceneri dei propri morti,

come se a questo l’avesse condannata

la Storia, alleata dei

Britanni, tanto bravi bambini a

casa propria, quanto granitiche

carogne a casa d’altri.

A questo proposito, Manfredi

Martelli ci offre una bella

provvista di notizie. Ad esempio,

a proposito della carestia

che «martoriò l’isola dal 1845

al 1849 con proporzioni decisamente

bibliche». Intendiamoci,

la Gran Bretagna - che

tranquillamente spadroneggiava

su quei miserabili papisti

che rompevano le scatole con

parolacce come dignità,identità

e libertà - «non aveva nessuna

responsabilità nella genesi della

catastrofe», ma «ne accumulò

di gravissime nella gestione

della crisi». Infatti, «l’imperante

ed ortodossa dottrina economica

liberale spinse Londra a

non operare interventi di rilievo

per alleviare le sofferenze

dell’Irlanda che nominalmente

pure costituiva una parte del

Regno Unito, lasciando che la

falce della morte compisse l’inesorabile

suo lavoro».

Il che significò mezzo milione

di morti ed una emigrazione di

massa verso gli USA. Nel frattempo

l’autorevole Times commentava:

«Il celto se ne va, se

ne va sul serio. Un celto cattolico

sarà presto altrettanto raro

in Irlanda quanto un pellerossa

sulle rive di Manhattan. Dio

sia lodato».

Indubbiamente, il Dio dei maggiori:

i civilissimi anglosassoni

protestanti. Per i già menzionati

“figli di un dio minore” (e

magari anche un po’ di puttana),

cattolici e selvaggi, ben

vengano carestia e morte in

sororale sodalizio avvinte.

Mentre l’augusto “british”

Thomas Carlyle (e quasi verrebbe

la voglia di togliergli il

saluto: peccato che abbia scritto

un bel saggio antidemocratico

come “Gli eroi”) commentava:

«L’Irlanda è il topo che

se ne sta sulla strada dell’elefante

britannico. Che cosa deve

fare l’elefante? Schiacciarlo,

per Dio, schiacciarlo!».

Date, eventi, personaggi (si

ragiona anche dei rapporti tra

irredentismo irlandese e regime

fascista, e fanno ovviamente

la loro comparsa il generale

O’ Duffy e le sue fascistizzanti

Camicie Azzurre), aneddoti,

frasi famose e famigerate:

Martelli nel suo saggio ricostruisce

“venture e sventure” di

una nazione religiosa e guerriera

con una prosa limpida e

scorrevole.

Oggettiva, certo, ma non asettica:

l’impegno alla verità,

anzi, dà alimento e vigore allo

sdegno. E noi allora non possiamo

fare a meno di lasciar

libero l’immaginario.

Lì ci sono dentro le emozioni e

siccome abbiamo in uggia i

retori dell’antiretorica, ve le

squaderniamo. Con tanti fantasmi

nel castello di Stortmont: i

patrioti ammazzati a Dublino

nella Pasqua di sangue del

1916 e William Butler Yeats

che, celebrandoli, scrisse «è

nata una terribile bellezza»; e

gli altri patrioti ammazzati a

Londonderry, nell’Irlanda del

Nord, il 24 marzo 1972 (è un

marzo verde Irlanda, questo,

l’abbiamo detto) e Bobby

Sands che, il 5 maggio del

1981, a ventisette anni (gli ultimi

nove trascorsi in carcere),

muore nell’ospedale di Long

Kesh.

Al sessantaseiesimo giorno di

sciopero della fame. Nella sua

raccolta Prison Poems, l’ultimo

verso di Weeping winds è

una preghiera: «Oh, il Signore

di tutto aliti l’alito della libertà...

».