Il mito liberista del benessere
di Massimo Fini - 09/09/2005
Fonte: Massimo Fini
Il termine “pauperismo” nasce in Inghilterra agli inizi degli anni Trenta dell’Ottocento, un’ottantina di anni dopo il decollo, in quel Paese, della Rivoluzione industriale.
Ci si accorse allora di un fenomeno apparentemente inspiegabile che Alexis de Toqueville, uno dei padri dell’ideologia liberale (ma allora il liberalismo politico non coincideva, come oggi, con quello economico), nella sua “Memoria sul pauperismo”(1835) descrive così: «Allorché si percorrono le diverse regioni d’Europa, si resta impressionati da uno spettacolo veramente strano...
I Paesi reputati come i più miserabili sono quelli in cui in realtà si conta il minor numero di indigenti, mentre tra le nazioni che tutti ammirano per la loro opulenza, una parte della popolazione è costretta, per vivere, a ricorrere all’elemosina dell’altra».
Nell’Inghilterra del tempo, già largamente industrializzata, «un sesto degli abitanti vive a spese della pubblica carità». In Spagna e Portogallo, che sono invece appena all’inizio del processo di industrializzazione, c’è un indigente ogni 25 abitanti. Per la Francia, che si trova a metà strada, Tocqueville nota: «In Francia... c’è un povero ogni venti abitanti. Ma fra le varie parti del Regno le diversità sono immense. Il dipartimento del Nord, che nessuno nega sia il più ricco, il più popoloso e il più progredito sotto ogni profilo, conta quasi un sesto della sua popolazione al quale i soccorsi della carità risultano necessari.
Nella Creuse, il più povero e il meno industriale di tutti i nostri dipartimenti, ci si limita a un indigente ogni 58 abitanti». Ma se si retrocede ai tempi in cui la Rivoluzione industriale non era ancora partita, al Medioevo, si nota che in Europa i mendichi, cioè coloro che ricorrono all’elemosina, sono una parte marginalissima, circa l’1%, e che, in genere, è mendico chi vuol esserlo.
Questo impoverimento di una parte consistente della popolazione dei Paesi che si industrializzano viene spiegato, classicamente, con la necessità di quell’accumulazione di capitale indispensabile ad ogni decollo industriale. Il fatto è però che questo processo di impoverimento non conosce regressioni.
Negli Stati Uniti, il più ricco, il più potente Paese del mondo, ci sono 35 milioni di poveri (un sesto circa della popolazione, più o meno come nell’Inghilterra del primo take off industriale) che sono tali non in senso relativo, cioè rispetto agli standard americani, ma assoluto. E nei Paesi europei, che pur hanno potuto rapinare col colonialismo sistematico, che ebbe inizio proprio nell’Ottocento ed è proseguito per un secolo e mezzo, le materie prime e le risorse dei Paesi del Terzo Mondo, la povertà riguarda, mediamente, dal 12 al 15% della popolazione.
Non si può che dedurne che la povertà e la fame di massa sono un prodotto della Rivoluzione industriale, del modello di sviluppo economico e sociale che su essa si è innescato e, insomma, della “modernità”.
Prima della “modernità” si viveva di economie di sussistenza, cioè sostanzialmente di autoproduzione e di autoconsumo, per cui ogni famiglia aveva cibo per quanto gli era necessario, una casa e vestiti per coprirsi. Non aveva il superfluo (quello di cui noi oggi ci ingozziamo in Occidente), ma poiché il superfluo non esisteva non ne sentiva la mancanza.
«È l’offerta che crea la domanda», questa è la pazzesca legge di Say, su cui oggi si regge tutto il nostro ambaradan costretto a creare, produrre e offrire sempre nuovi beni e bisogni sempre più superflui, nello stesso tempo in cui rende inarrivabili a una buona parte della popolazione mondiale quelli essenziali. E la globalizzazione, vale a dire l’integrazione economica mondiale sul modello occidentale, non fa che accelerare e incrementare questo processo di pauperismo universale. A questo punto la domanda che ci si dovrebbe porre è: ha senso continuare su questa strada imboccata a metà del XVIII secolo, e quale?
Mi sembrerebbe una domanda razionale. Ma l’Occidente, che si ritiene il depositario della ragione, a questa domanda non dà risposte. Anzi sta cercando, con tutta la brutalità di cui è capace, di esportare la propria catastrofe, economica, sociale, esistenziale, morale, anche a quelle popolazioni che, per una qualche ventura, ne erano rimaste fuori.