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Dâr Fûr (I)

di Miguel Martinez - 11/04/2007

 

Quando il sole arde forte sull'Egitto e fa salire verso il cielo l'odore onnipresente dei rifiuti, i giovani - ragazzi spesso di una straordinaria ma sprecata autodisciplina, curiosità e intelligenza - si trovano a milioni nei caffè, con un'unica certezza: ma fish mustaqbal, "non c'è futuro". E hanno, ovviamente, ragione.

Esiste però una magra consolazione: tutti sanno che c'è un Egitto degli egiziani, un posto ancora più caldo, devastato, afflitto dalla miseria e ancora più privo di qualunque speranza.

E' il Sudan, un paese messo così male che i suoi giovani sognano di emigrare in Egitto, stendere un tappeto per strada e vendere peperoncini ai passanti.

Con una discutibile metafora, gli abitanti dell'arido Sudan sarebbero "animali della giungla", assicurano gli egiziani, che dicono che laggiù, laggiù, l'unico treno, sul suo unico binario, viaggia così in ritardo che spesso si sa solo in che settimana passerà.

Parto da qui per un ragionamento molto generale: c'è sempre tempo dopo per cogliere tutte le eccezioni alla regola, ma prima dobbiamo cogliere la regola, che è esattamente ciò che i media non ci presentano.

Sentiamo spesso dire che in certe parti della Campania, "non c'è lo Stato".

Eppure tutta la forma c'è: sindaci, politici potenti, elezioni, tribunali, posti di polizia, ospedali... ciò che manca è la sostanza del cosiddetto "Stato di diritto".

E non certamente per colpa dei fondamentalisti cattolici, ma per un arricchimento perverso e violento che si erge sulla miseria generale.

E questo, a sua volta, è dovuto al sistema capitalistico che ha i propri centri splendidamente funzionanti a spese delle sue periferie devastate.

L'Egitto sta alla periferia napoletana, come la periferia napoletana sta alla Toscana.

E il Sudan, come quasi tutta l'Africa cosiddetta nera, sta all'Egitto, come l'Egitto sta alla periferia napoletana.

L'80% della popolazione vive di agricoltura di sussistenza, e la parte urbanizzata della popolazione non se la passa certamente molto meglio; mentre tutto il paese vive da dieci anni sotto embargo, con tutti i beni sudanesi nel mondo posti sotto sequestro dall'ONU e con uno dei più pesanti debiti esteri del pianeta.

 Non è un caso che il Sudan occupi il 141esimo posto nella lista ONU di 177 paesi, in termini di sviluppo umano.

Al posto dello stato dei consultori di quartiere e di tutte le ottime cose che si trovano ad Arezzo, a Khartoum - come a Lagos o a Kinshasa - esiste uno stato formale, che fa gola perché controlla il denaro, paga stipendi (il 13% della forza lavoro sudanese è impiegata dallo stato), monopolizza i contatti esteri e ha proprie guardie armate, che si chiamano "polizia" oppure "esercito".

Tutto il resto - istruzione, previdenza, giustizia, salute - viene assicurato quasi esclusivamente da reti basate in genere sulla parentela. Queste reti si basano su due elementi: una gestione strategica dei rapporti familiari - e quindi dei matrimoni e delle madri presenti e future - e un profondo rispetto dei simboli di gruppo, che sono in genere una combinazione di geneaologia (vera o immaginaria) e di identificazione religiosa.

Pensiamo bene a cosa vuol dire tutto ciò.

Non ci può essere "l'individuo", nel tanto esaltato senso occidentale, senza quell'ente collettivo, invisibile ma onnipresente, che chiamiamo "stato", a ordinare i rapporti umani, con le sue scuole dell'obbligo e le sue telecamere, le sue corti d'appello e i suoi ergastoli.

Insomma, non si può essere "individui" senza essere "cittadini".

E non ci può essere "stato" senza un tipo di benessere diffuso che per forza di cose non potrà mai esserci in tutto il mondo.

Dove non c'è "stato", intervengono sempre, necessariamente, altri enti collettivi.

In questi enti collettivi, non ci sono "cittadini individui" ma "membri della famiglia".

E quei membri della famiglia (o tribù o clan che dirsi voglia) devono sottostare a regole ferree quanto quelle che la nostra società impone in materia giuridica, fiscale e di regole sul traffico.

Regole che invadono crudelmente quella che noi siamo abituati a chiamare la "sfera privata" perché, in assenza di astratte istituzioni (pensiamo a Foucault) agiscono sul corpo umano. Sia quando a Peshawar persone che si proclamano musulmane prescrivono l'abbigliamento, sia quando nei mercati del Kenya persone che si dichiarano cristiane bruciano vivi i ladri nei copertoni.

Date le circostanze, è un sistema comunque preferibile alla morte per fame e al reciproco massacro generalizzato. Nei casi migliori, il sistema familiare impone doveri collettivi e garantisce diritti collettivi a tutti, permettendo la sopravvivenza anche degli elementi deboli; e il capofamiglia mantiene la propria posizione solo se ottiene il consenso generale.

Questo sistema convive senza troppe difficoltà con l'urbanizzazione pauperistica del Terzo Mondo: diventa il sistema omicida delle bande del Salvador, ma anche quello delle scuole e degli ospedali di Hamas a Gaza.

Le "famiglie", in perenne lotta tra di loro, cercano tutte di accedere a quell'immensa fonte di potere e di rendita che si fa chiamare "stato", attraverso alleanze, intrighi e, spesso, la violenza pura e semplice: il Sudan ha vissuto in tutto 35 anni di guerra civile al sud, con una tregua di dieci anni in mezzo, seguita dal conflitto del Darfur e da una guerra a bassa intensità con il Ciad.

Chi riesce, talvolta, ad assicurarsi il controllo vero sull "stato", è costretto a comportarsi come l'imperatore cristiano d'Etiopia, che ogni anno girava qualche parte del proprio dominio con al seguito un feroce esercito, per "tassare" di persona le malcapitate popolazioni.

Oppure, in piccolo, come i poliziotti del Messico, democratico e cristiano, che sono il terrore dei poveri; o come i soldati dell'esercito di Karzai che campano con le estorsioni agli automobilisti.

L'arrivo improvviso di denaro, sotto forma di qualche risorsa che interessa solo ad altri, come il petrolio, i diamanti o il coltan, oppure sotto forma di aiuti stranieri più o meno interessati, oltre a distruggere l'ambiente e le economie tradizionali, alza improvvisamente la posta in gioco: perciò si accompagna quasi sempre a forme tremende di sradicamento e violenza.

Forse questa premessa ci può aiutare a capire meglio ciò che avviene nel Dârfûr, che ogni tanto compare, galleggiante, nell'onirico flusso mediatico, per poi perdersi da qualche parte, tra Sanremo e la Mamma di Cogne.