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La carne ha il sapore del contadino

di Antonio Cherchi - 11/04/2007

 
 
La ricerca Storie di terra e di rezdore si basa su interviste filmate di anziani, quasi tutti ultrasettantenni e quasi tutti provenienti da famiglie contadine. I loro ricordi dell’infanzia sono legati alla terra e alla campagna che poi in molti hanno abbandonato, e le loro storie sono un po’ come quella della canzone di Francesco Guccini “Il vecchio e il bambino”: talmente sospese tra ricordo e sogno a occhi aperti che i loro nipoti potrebbero scambiarle per favole.
Quando si è trattato di realizzare il breve filmato presentato al Salone del Gusto si è perciò pensato di iniziarlo con una sequenza tratta da una delle esperienze più surreali: l’incontro con Pietro che vive solo da molti anni sull’Appennino modenese, in una magnifica e malridotta casa di sasso, isolata in mezzo a un castagneto e priva di acqua corrente e bagno, rimasta com’era oltre settant’anni fa. Lì, viene da dire, il tempo si è fermato.
In un’inquadratura Pietro batte la falce con il martello, con precisione, apparentemente senza sforzo: segue il suo ritmo, scandisce il tempo. Non è vero che il tempo si è fermato: è che non ci sono stati cambiamenti sconvolgenti, o improvvise fratture, non c’è distanza incolmabile tra passato e presente, ricordi e realtà. Ricordi o realtà non di un’esperienza umana qualunque, ma del saper fare contadino, cioè di una conoscenza perlopiù di contenuto pratico e manuale, che comprende uno straordinario e ampio repertorio di gesti eseguiti in ultima analisi per produrre cibo e quant’altro necessario a sopravvivere e che Pietro – come molti altri intervistati, soprattutto dell’Appennino – compie ancora.
Pietro ha imparato quel modo di battere la falce probabilmente guardando suo padre e poi provando a ripetere, come noi abbiamo imparato ad andare in bicicletta, e sarebbe capace di rifarlo anche se avesse smesso da molti anni, come dimostrano i falciatori del centro anziani di Nonantola, nella sequenza successiva del dvd, dove il rumore del martello sulla falce è sostituito da quello altrettanto ritmico della cote che la affila e delle lame che tagliano l’erba. Falciano e parlano in un dialetto che, per chi non lo capisce, è un dolce brusio di sottofondo che suona perfettamente integrato e coordinato con il movimento, quasi che il parlare si sia evoluto da una comunicazione solo gestuale, proprio come possibilità di comunicare mentre si fanno altri movimenti.
La gestualità, l’uso del corpo secondo ritmi precisi, sono la grande eredità della civiltà contadina a rischio di estinzione che per questo è ripresa più volte nel filmato: nella cottura delle crescentine nelle tigelle al camino, dove Rosa utilizza alternativamente le pinze sulle tigelle roventi e le mani sulle crescentine; nella cottura del borlengo, dove, per Renzo, la difficoltà sta nello spargere uniformemente la “colla” molto liquida sulla superficie calda della padella (il sole); nella raccolta, in cima a una scala, della foglia dell’olmo, un tempo maritato alla vite, cibo per le mucche (ma si raccoglieva pure la foglia del gelso, anch’esso maritato alla vite, quando si allevavano i bachi da seta, ed era un compito di grande perizia raccogliere le ciliegie a Vignola arrampicati su una scala di oltre 12 metri); nel ritmico penzolare della canna di Augusto da cui scende il fiocco a cui si attaccavano le rane; nell’eleganza del battitore di formaggio («non bisogna battere forte, la prima battitura deve dare un segno giusto, e via!» sentenzia l’ultranovantenne Enzo, il più anziano degli intervistati, ancora in perfetta forma e al lavoro) fino alla gestualità teatrale delle rezdore nel tirare la sfoglia con la cannella, nel tagliarla nei diversi formati, nel piegare con il mignolo il tortellino, ma anche nell’impastare, come emerge guardando Lidia, la maestra di sfoglia dello chef Massimo Bottura, lavorare la pasta con tutto il corpo.

La scuola del saper fare
È chiaro che per tramandare questi saper fare non basta una descrizione scritta, sia pure in forma di ricetta. Probabilmente non è sufficiente neanche un filmato che illustri tutte le fasi della preparazione: è necessaria una scuola, come quella che hanno descritto praticamente tutte le rezdore intervistate, le quali hanno cominciato da bambine, in piedi su un panchetto che consentiva loro di arrivare appena a poggiare le mani sulla spianatoia.
È necessario pure sottolineare come il sapere all’interno delle famiglie contadine fosse allo stesso tempo estremamente diversificato e integrato. Perché nessuno era in realtà uno specialista e la virtù consisteva nell’essere in grado di fare bene più cose, nel campo, nell’orto, nella stalla, in casa; una virtù generalista apprezzata anche negli animali (la vacca bianca modenese che Bebo definisce «buona da tirare, buona da latte e buona da carne»). Un sapere che comprendeva gli strumenti di lavoro che spesso i contadini fabbricavano da sé e di cui comunque conoscevano non solo l’uso ma anche come funzionavano e perché. Da lì deriva la passione per le tante collezioni di cultura materiale: la manipolazione di ciascun oggetto richiama ricordi specifici, spesso più nitidi e significativi di quelli evocati dal semplice nome, forse perché gli attrezzi e gli utensili erano vissuti come estensioni del proprio corpo. Nelle storie di quanti hanno lasciato definitivamente la campagna, nonostante che nessuno di loro rimpianga la povertà e gli stenti di allora, traspaiono una certa nostalgia e rammarico per la perdita di quella identità forte, fatta di conoscenze concrete e diversificate, e la sua sostituzione con una molto più debole, quella del consumatore, il quale di ciò che ha spesso non sa quasi nulla.
Nel filmato, nel bel mezzo della falciatura, irrompe il canto irriverente di Nicolino Nicioli, a descrivere ben altri movimenti: l’appostamento e la fugace consumazione di un atto amoroso durante la mietitura. Un pezzo che il compianto cantore del “maggio delle anime” e del “maggio delle ragazze” di Riolunato ha intonato al termine di quella che è stata la sua ultima intervista. Ulteriori tre strofe, tutte con la stessa conclusione, ma riguardanti la raccolta delle ciliegie, la vendemmia e la raccolta delle castagne, quest’ultima di sua invenzione, non sono state riportate per motivi di spazio. Gli stessi che hanno portato a riservare una sola battuta a certi argomenti: quella di Marino, ad esempio, fornaio novantenne, anche lui ancora al lavoro, che ricorda quando si conservava da una panificazione all’altra il lievito madre – l’alvadur in dialetto –, il pezzo di pasta lievitata sul quale usualmente si faceva una croce che veniva trasmesso di generazione in generazione.
In tanti hanno raccontato della madre del pane perduta quando è stata interrotta la panificazione in casa. Una rottura del legame con quei lieviti che era parte importante del più complesso e articolato rapporto con i microrganismi comprendente, tra gli altri, quelli presenti nel suolo e nella letamaia, i fermenti del vino, gli acetobatteri, gli enzimi e i fermenti del formaggio, responsabili della qualità dei prodotti oppure capaci di provocare l’irrimediabile deterioramento degli alimenti, per prevenire il quale sono state evocate le più singolari tecniche di conservazione: sotto lo strutto, sotto la cenere, in mezzo alla farina pressata, nella calcina.

Figli della piccola scala
Nel vocabolario quotidiano della vita in campagna l’uso del dialetto è quasi esclusivo: è il dialetto la lingua delle emozioni, ma anche dei proverbi e delle massime tratte dall’esperienza. Ma non sempre. Nel filmato, per esempio, è in italiano il più bell’aforisma, quello di Marino, allevatore di bianca modenese: «La carne ha il sapore del contadino». Ed è in italiano anche il cammeo di Giovanni – «Invece di fare tre di latte, tre di uva e due di grano, adesso fanno mille di una qualità sola che se va male un mercato sei rovinato» – che racchiude in poche parole una storia lunga cinquant’anni: la trasformazione dell’agricoltura della pianura modenese.
Un’agricoltura ricca, caratterizzata fino al dopoguerra da poderi mezzadrili dalla dimensione media di circa 10 ettari, dove era praticata la policoltura con la rotazione delle graminacee (soprattutto grano, più tardi anche mais) con le leguminose (erba medica, erbe polifite) fissatrici di azoto, da cui si ricavava il foraggio per il bestiame. L’allevamento in piccole stalle permetteva anche, grazie al letame, di restituire al terreno gran parte di quanto era stato prelevato. Le maglie poderali erano segnate dai filari delle piantate di olmi maritati alle viti di lambrusco, particolarmente generose. In questo modo con latte, uva e grano si aveva un sistema agricolo capace di coniugare in modo sofisticato la conservazione della fertilità del suolo con la biodiversità e l’economia. Intorno alle aziende mezzadrili nacquero i primi piccoli caseifici che utilizzavano il latte per la produzione del parmigiano reggiano mentre il siero finiva ai maiali, destinati agli artigiani salumieri. Quanto all’uva, le prime cantine sociali per la produzione del lambrusco si svilupparono fin dai primi anni del Novecento.
Le interviste ricostruiscono la storia di tale modello agricolo – anche con le sue contraddizioni, perché non sempre la divisione paritaria del raccolto garantiva condizioni di vita decorose alle famiglie dei mezzadri, come emerse con le lotte nel dopoguerra per una diversa ripartizione, culminate con il lodo De Gasperi – e del suo successivo disfacimento, perlopiù dovuto allo spopolamento delle campagne.
I racconti dimostrano come tutti i più famosi prodotti della gastronomia modenese – dalla sfoglia, ai pani, al parmigiano, al prosciutto e gli altri derivati del maiale, al lambrusco e all’aceto balsamico – siano figli di quella agricoltura, fondata sulla piccola scala, sulla qualità e sul rispetto dell’ambiente, abbandonata dagli anni Cinquanta per inseguire l’aumento delle rese e della produzione attraverso la meccanizzazione, la standardizzazione, l’industrializzazione.
Molto diverso il caso della collina e della montagna, caratterizzate da un sistema basato sulla piccola proprietà, ma con risultati che spesso garantivano la sola sussistenza. In alcune zone, in particolare sul versante della montagna verso Reggio Emilia, nulla era prodotto per il mercato e i contadini, come racconta Maria, barattavano le uova per comprare un po’ di zucchero, di sale, di olio.
La rottura degli equilibri successiva alla seconda guerra mondiale non poteva che portare a una vera e propria fuga dalle campagne, ed è emblematica l’esperienza dei parroci come don Merciai che, per contrastare il disfacimento delle comunità parrocchiali, si associarono per comprare un trattore affittato poi ai piccoli contadini che non potevano permetterselo e promossero corsi di agricoltura e agronomia, adoperandosi per sviluppare uno spirito cooperativo fra i contadini e arrivare a produrre un alimento per il mercato: il parmigiano reggiano.

Donne che si volevano bene
L’ultima notazione non può che essere dedicata alle rezdore e più in generale alle donne modenesi, certo custodi delle tradizioni ma anche protagoniste di una storia di emancipazione dal ruolo subalterno riservato loro dalla società patriarcale contadina, accelerata dalla rottura degli equilibri provocata dalla industrializzazione.
«Ci siamo sempre volute bene»: nel filmato Agar ricorda la solidarietà tra le mondine che facevano la stagione in Piemonte, per migliaia di donne la prima occasione di vita insieme fuori del controllo della famiglia, ma grande importanza ebbero anche altre esperienze che occuparono perlopiù manodopera femminile, come l’attività di confezionamento della frutta a Vignola o la fabbricazione dei tortellini e della pasta (Fini, a Modena, arrivò a impiegare fino a 300 sfogline). Dalle interviste emerge che l’avere vissuto tali cambiamenti non ha tuttavia stravolto l’identità culturale della rezdora, anche nella sua fisicità. La responsabile della comunità dei produttori della riserva naturale delle Salse di Nirano, Mirella, che mostra con fierezza una pancetta declamando «stagionatura, umidità giusta: una pancetta che è una miss Italia», allude a un canone di bellezza femminile ben diverso da quella diafana delle top model, che lei stessa descrive in un’altra parte dell’intervista, ovviamente mentre parla di cucina: «La roba magra è salata. Ci vuole la roba con il suo bel grasso attorno, che vuol dire che l’animale era adulto. E poi matura bene. È come una donna: quando è troppo magra a va brisa ben».

Tratto da Slowfood 25. Le foto sono di Nico Lusoli.
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