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Le carceri segrete della Cia (recensione)

di Claudio Fava - 12/04/2007

 



Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo la prefazione di Claudio Fava al libro “Le carceri segrete della Cia” di Giulietto Chiesa edito da PIEMME


Alla fine la domanda arrivò, diretta, provocatoria, scontata: “Ma insomma, cos’avete scoperto di nuovo dopo un anno di lavoro? Mi indichi una cosa, una sola cosa che non sapevamo già prima…”. Era in corso l’ultima riunione della commissione d’inchiesta sui voli e le prigioni clandestine gestite dalla CIA in Europa: un anno di lavoro, 200 audizioni, quindicimila pagine di documenti analizzate, più di venti “extraordinary renditions” ricostruire pazientemente in aula, testimonianza dopo testimonianza. Una mole di lavoro da maxiprocesso… Eppure, con quella domanda irriguardosa, il coordinatore del gruppo dei Popolari (l’italiano Jas Gawronsky, portavoce della minoranza parlamentare che questa inchiesta non l’avrebbe mai voluta e non l’ha mai accettata) mi fece capire che non c’era verità né evidenza che avrebbe scalfito un sentire comune e diffuso, come un’aura che pesava fin dal primo giorno sul nostro lavoro: questa storia non ci riguarda! E’ la guerra degli americani, la loro tragedia e la loro rabbia. Se per vincerla bisogna portare in soffitta un po’ di vecchi arnesi del diritto internazionale, le rugginose convenzioni e le romanticherie volterriane sui diritti umani, d’accordo, sbarazziamoci di questa archeologia giuridica. E lasciamo che gli amici della CIA facciano il loro mestiere.

Non lo ha detto nessuno, non con questa franchezza. Ma è stata una sensazione concreta, quasi fisica, nelle risposte svagate e talvolta irridenti che ci offrivano molti ministri: “Voli CIA? Un’espressione giornalistica” aveva tagliato corto il ministro britannico per i rapporti con l’Europa Geoffrey Hoon. E il cancelliere portoghese Amado si era messo quasi a ridere quando gli avevamo contestato che, dati alla mano, c’erano una ventina di voli, quasi certamente con detenuti a bordo, partiti dagli aeroporti del suo paese verso Guantanamo. “E con questo? Guantanamo è una base militare americana, e noi siamo alleati degli americani…”. Due ministri progressisti, un laburista inglese, un socialista portoghese: segno che sugli abusi, sulle violazioni e sulle menzogne raccolte in cinque anni di lotta al terrorismo, nessuno aveva voglia di far chiarezza. Né a destra né a sinistra.

Ecco, certamente questa consapevolezza rappresenta un fatto nuovo, malinconicamente inatteso. Una sorta di patto del silenzio e della distrazione che ha garantito al dipartimento di Stato di Washington carta bianca sui metodi da usare nella caccia ai terroristi di Al Qaeda: vi servono aeroporti per i vostri voli? una garbata collaborazione per le renditions? informazioni di prima mano per rintracciare e arrestare i presunti terroristi? qualche collega dei servizi segreti europei che partecipi agli interrogatori? Nessun problema, facevano sapere Germania, Italia, Gran Bretagna, Austria, Portogallo, Svezia, Spagna, Macedonia, Kossovo, Irlanda…

Voi direte: routine, normale cooperazione tra servizi di intelligence nella lotta contro il terrorismo. Vero, se non fosse per due dettagli. Il primo: la sorte dei prigionieri. Per i quali non erano previsti giudici, avvocati o codici ma uno sbrigativo trasferimento verso le galere di paesi terzi compiacenti per poi essere affidati alle tecniche di interrogatorio di specialisti egiziani, siriani, giordani… Insomma, il lavoro sporco che per pudore o per decenza non potevano fare a casa nostra (o in America) veniva appaltato alle polizie abituate a fare della tortura un metodo di interrogatorio più che consueto. Maher Arar, un anno di galera in una prigione siriana, rinchiuso di giorno in una cella al buio lunga due metri e larga ottanta centimetri, torturato di notte (ogni notte) con scariche elettriche ai testicoli e bagni in acqua gelata, ci disse che pur di avere una lampadina in quella cella sarebbe stato disposto a firmare qualunque confessione.

Naturalmente Arar era innocente. E questo riporta al secondo dettaglio, il più tragico e grottesco: delle venti renditions che abbiamo ricostruito, almeno diciotto riguardavano i casi di presunti terroristi totalmente innocenti. Catturati, detenuti, torturati e infine (un anno dopo, due anni dopo… fino ai cinque anni di Murat Kurnaz) liberati con un’alzata di spalle: c’eravamo sbagliati.
La storia di quest’anno di lavoro con la commissione d’inchiesta sulla CIA è anche un viaggio nell’orrore e nel ridicolo: nomi storpiati, testimonianze fasulle, abbagli, malintesi, menzogne…Non si trattava di una virile cooperazione giudiziaria per assicurare alla giustizia i terroristi ma di un volgare azzardo che spesso apriva le porte di “black sites” in Polonia, in Afghanistan o in Siria a poveracci che con l’estremismo islamico non c’entravano nulla. Decine di casi, scriviamo: sono gli unici di cui abbiamo notizia e certezza. I casi dei più fortunati, presunti terroristi con un passaporto o una residenza in un paese europeo. Difficile che la loro storia venisse inghiottita dal nulla. E dopo anni di allegra impunità per chi li aveva tolti di mezzo, i loro nomi, come piccole sagome che si staccano da una foto di gruppo, sono arrivati fino a noi: Kalhed El Masri, Mohamed El Zari, Maher Arar, Kassam Brittel, Martin Mubanga… Dietro di loro resta nell’ombra una plebe di marocchini, turchi, giordani, pakistani, uzbeki per i quali nessuno reclamerà mai una notizia, una foto o una tomba.

Le extraordinary renditions sono state anche questo: un sistema primitivo e sbrigativo, approssimato per eccesso, per togliere dalla circolazione tipi sospetti, potenziali terroristi, amici degli amici. Se poi alcuni di loro fossero del tutto innocenti, era un margine di rischio che la CIA metteva in conto. E che i nostri governi accettavano.

Cosa abbiamo imparato? Cosa abbiamo capito che prima non fosse già chiaro? I colori della sofferenza, verrebbe voglia di rispondere. Le infinite gradazioni dell’umiliazione che può essere inflitta in nome del diritto e del dovere. Tra gli ultimi testimoni che abbiamo ascoltato c’é stato Murat Kurnaz, turco di passaporto e tedesco di residenza: s’era fatto quattro anni di fila a Guantanamo per poi essere liberato senza nemmeno uno straccio di accusa contro di lui. Quell’uomo davanti a noi: non stava al riparo di un’intervista, in fondo ad un articolo: era lì, e ripercorreva, a ogni domanda, la follia di quei quattro anni senza mai aver diritto non dico a un avvocato ma nemmeno a far flessioni nella propria gabbia perché il regolamento lo vietava o a chiedere ai suoi secondini che giorno fosse, che mese fosse: il diritto al tempo era tra le prerogative negate.

Un giorno lo andarono a prendere e lo portarono incatenato davanti a tre signori tedeschi. Lui aveva vissuto in Germania per quindici anni, e a Brema lo aspettavano una moglie e cinque figli, tutti cittadini tedeschi. Quando i tre si qualificarono come funzionari dell’intelligence del suo paese d’adozione, Kurnatz pensò che quell’incubo fosse finito. I tre lo gelarono: non siamo qui per aiutarla, siamo qui per interrogarla.

Kurnaz l’hanno liberato nell’agosto del 2006, tre anni dopo quella visita dei suoi compatrioti. Ecco il punto: è stata davvero solo una stolta avventura della CIA? Una loro esuberanza? Non credo. In questo pavido silenzio, nel modo in cui i nostri servizi sapevano e tacevano, nella disinvolta complicità di taluni governi (quello italiano, per esempio) si legge un problema più grande e più disperante: quegli errori sono stati anche i nostri. Quegli abusi, quegli eccessi, quelle menzogne: tutto nostro. Con gradi diversi di responsabilità ma con un senso di colpa in comune per la tragedia dell’11settembre: e in nome di quel senso di colpa abbiamo finito per tacere, per fingere, per abbassare lo sguardo.

Questo libro, scritto dal mio amico Giulietto Chiesa, è la testimonianza di chi questa storia l’ha conosciuta e misurata giorno dopo giorno dai banchi della commissione d’inchiesta. Ne viene fuori un rigoroso documento giornalistico ma soprattutto una dolorosa esperienza umana. Che è bene non dimenticare mai più.