Destra-Sinistra, una dicotomia stanca (intervista ad Alain de Benoist)
di opifice.it - 02/12/2005
Fonte: opifice.it
1) Non è raro imbattersi nell'argomentazione secondo cui quando « da destra » si metta in discussione la dicotomia destra/sinistra – o se ne ipotizzi una riconsiderazione – lo si faccia per confusione oppure per mimetismo ideologico: le vicende della Nuova Destra francese o della stessa cultura delle nuove sintesi ne sono un esempio. Più genericamente si può assistere alla teoria secondo l'« uomo di destra » sia da un parte incline al mimetismo ideologico, e dall'altra cerchi puntualmente di allargare il suo raggio d'azioni « infiltrandosi » in settori culturalmente e storicamente di competenza della sinistra. Inoltre, ogni qualvolta « da sinistra » si prospettano nuove sintesi di pensiero (ad esempio è il caso di Serge Latouche e il suo concetto di decrescita, che si distacca dalla classica idea sviluppista attribuita alla sinistra) ci troviamo nuovamente di fronte ad un'accusa di « mascheramento » di idee fondamentalmente reazionarie. Si potrebbe dunque affermare che l'ipotesi di un rimescolamento delle carte venga aborrito strenuamente da entrambi i lidi. Chi ha dunque oggi un « interesse » a difendere strenuamente la dicotomia? Ha forse questa un « plusvalore politico » (come afferma Alessandro Campi) che offre alla destra e alla sinistra istituzionali le ragioni di un loro proseguimento a prescindere dai contenuti ideologici? Sono in altri termini, dei contenitori maneggiati in funzione elettorale? Di contro, vi è qualcuno che trarrebbe interesse politico a negarla?
Non ho ben compreso la domanda. La destra non mi è mai sembrata particolarmente portata al « mimetismo ideologico » o all'« infiltrazione ». In compenso si è talvolta sostenuto che la contestazione della dicotomia destra-sinistra sarebbe caratteristica di una mentalità di destra! Tuttavia, ciò non è vero in special modo oggi, dato che tale contestazione è egualmente avanzata da sinistra. Ad ogni modo, bisogna finirla con i processi alle intenzioni. O il dualismo sinistra-destra è pertinente all'analisi delle posizioni presenti nel campo politico, o non lo è. Ora, tutto dimostra che tale distinzione non è oggi più operativa. Tutti i grandi problemi apparsi negli anni recenti, sia che si tratti della costruzione dell'Europa, della guerra in Iraq o in Kosovo, delle relazioni transatlantiche, ecc., hanno concretamente rimodellato divergenze che mal si adattano al modello semplicistico destra-sinistra (vi sono a destra così come a sinistra dei partigiani per la guerra in Iraq, a destra come a sinistra degli avversatori di tale guerra, ecc.). La distinzione sinistra-destra è apparsa con la modernità, e con essa cessa di esistere.
Coloro che rifiutano di riconoscerlo, si identificano generalmente nelle due categorie. Vi è -da un lato- chi non riesce ad analizzare il momento storico in cui viviamo, e chi, per pura pigrizia intellettuale, continua a ragionare a partire da questi due termini – « sinistra » e « destra » – come se si trattasse di essenze astratte, valide in ogni tempo e luogo, senza interrogarsi sull'evoluzione dei loro contenuti. Si tratta generalmente di persone che non riescono a comprendere che siamo entrati in un'epoca radicalmente differente da quella che l'ha preceduta. Anziché prestare attenzione a ciò che accade, continuano a guardare lo specchietto retrovisore, vale a dire che impiegano categorie concettualmente obsolete piuttosto che cercare di crearne delle nuove. Vi è d'altra parte la classe politica dominante, che crede ancora oggi alla validità della dicotomia destra-sinistra, poiché essa rappresenta la categoria attorno alla quale l'attività parlamentare si è esplicata fino ad oggi. Tale classe politica ha raramente coscienza delle dinamiche che avvengono indipendentemente dalla loro visione della realtà. Non realizza che le nuove famiglie di pensiero – che appaiono ai giorni nostri, che sono all'interno della più quotidiana realtà o nel dominio intellettuale - non corrispondono nel modo più assoluto ai giochi parlamentari. Non vi è da stupirsi, quindi, del « fossato » che si è creato tra essa e i cittadini. Nell'uno e nell'altro caso, questa attitudine va di pari passo con un vivo senso degli interessi immediati. Appoggiarsi alla dicotomia sinistra-destra equivale al tentativo di salvaguardare i propri privilegi e cullarsi nell'illusione che non sarà affatto necessario cambiare le proprie abitudini e rimettersi in causa in prima persona.
2) Uno dei luoghi politici di più incerta identità (ed al contempo di maggior peso nella crisi della dicotomia) è quello conservatore. Secondo la tesi di Antony Giddens, il conservatorismo – se associato alla sua veste classica ed alla sua etichetta destrorsa – al giorno d'oggi si troverebbe in posizione estremamente contradittoria: sposando appieno la logica liberista, la destra classica avrebbe minato le base della conservazione stessa, introducendo l'elemento disgregante dell'economia di mercato e facendone paradigma dominante. Il sistema economico liberista, orientato al verbo di continuo sviluppo e del progresso, è per sua natura la maggiore forza in grado di distruggere le sensibilità tradizionali alle quali la destra si richiamerebbe sul piano morale. L'attacamento ai valori della « famiglia » o della « patria » sarebbe dunque soltanto un retaggio culturale passato, utile soltanto in termini di consenso politico, e difesa secondo una logica « fondamentalista ». Di contro, ad assumere i connotati di una conservazione sarebbe ciò che rimane degli scenari socialisti, avvezzi ad una seppur tenue difesa dei baluardi dello stato sociale. Qual'è la Sua opinione in merito? E' inoltre a Suo avviso ancora ed altrettanto efficace il binomio conservazione/progresso per delineare lo scenario politico futuro?
Sono dell'avviso di Antony Giddens : aderendo alla logica del mercato, i conservatori hanno messo il dito in un ingranaggio il cui principale risultato è la distruzione di tutto ciò che vorrebbero conservare. Vi è comunque da ricordare che la parola « conservatore » è piuttosto ambigua, in quanto non riveste lo stesso significato in tutte le realtà geografiche/politiche. In Germania e nei paesi anglosassoni, i « conservatori » costituiscono da lungo tempo una famiglia politica che si designa essa stessa con questo termine, attribuendo dunque ad esso un senso positivo. In Francia, viceversa, il termine ha acquisito da tempo una dimensione intrinsecamente negativa, pertanto nessun'uomo politico si qualifica personalmente come « conservatore ».
In tutti i casi, la principale questione che si pone è evidentemente il sapere che cosa i conservatori vogliono « conservare ». Gli esempi della « famiglia » e della « patria » sono molto equivoci. La famiglia –che lo si voglia o meno- non è altro che il riflesso della società globale. Ha inoltre perso progressivamente importanza man mano che i compiti principalmente appartenenti ad essa (l'educazione, l'assistenza e la solidarietà, la cura degli ammalati) sono stati ripresi o trasferiti ad istanze istituzionali o sociali. Riguardo alla stessa educazione dei bambini, essa conta sempre meno: la maggior parte di essi è oggi più « formata » dalla televisione che dai propri genitori. Quanto alla nozione di « patria », essa tende a perdere qualunque significato in una società dove i valori, non negoziabili, retrocedono costantemente a beneficio degli interessi. Infine, è certo che le nozioni di « conservazione » e di « progresso » non si distribuiscono più sullo scacchiere politico come avveniva nel XIX ° secolo, il che contribuisce ulteriormente a relativizzare la dicotomia sinistra-destra. I partiti più « conservatori » sono oggi quelli ecologisti, in quanto cercano di preservare innanzitutto i luoghi naturali dall'azione distruttrice del « progresso ». Si ricongiungono poi con coloro che –a sinistra- rimettono in discussione le idee di « crescita» e « sviluppo ». Allo stesso tempo, sono gli ambienti liberali che costituiscono oggi il principale vettore dell'ideologia del progresso: in ogni parte del mondo, d'altronde, sono i partiti di destra che favoriscono e sostengono maggiormente la globalizzazione.
3) Da più parti è ormai ritenuta quasi retorica la contrapposizione tra sinistra e destra. Non si riesce tuttavia a superare in « toto » questo falso dualismo per via del fatto che continuano ad esistere movimenti e partiti che a queste categorie fanno riferimento. Esse pertanto, nonostante siano minate tanto dall'esterno quanto ormai anche dall'interno, assumono un ruolo comunque centrale nella dialettica politica e metapolitica. A questo punto, potrebbe essere utile – in chiave metapolitica – appoggiarsi ad essi ed eventualmente ricercare al loro interno personalità da coinvolgere nell'attività metapolitica? Diversamente non si rischierebbe di spingere l'azione metapolitica e/o non conforme, fuori dai canoni del fruire politico, che rimane nonostante tutto il campo principale in cui ci si gioca una forte visibilità?
La risposta a tale questione è contenuta nel fatto che un numero sempre maggiore di cittadini prende le distanze dai partiti « di destra » e « di sinistra », poiché essi non riescono più a definire ciò che li distingue o più semplicemente perché essi stessi non vi si riconoscono più. Questa è la principale causa di quella che è chiamata “crisi della rappresentatività”. I grandi partiti rappresentano esclusivamente se stessi, e i cittadini scoprono la vera vita altrove. Nasce dunque una questione riguardo a forme alternative che possono aver luogo nella realtà politica (e non soltanto metapolitica). Riguardo a questo punto, il mio pensiero non è cambiato : le iniziative politiche devono esser prese, simultaneamente, in primo luogo sul piano locale, in modo da rianimare il legame sociale e da creare nuovi spazi pubblici ad un livello più vicino alla gente, in seguito sul piano sovranazionale, il solo in grado di far fronte alle sfide planetarie attuali, con l'obbiettivo di regolare la globalizzazione e lavorare per l'avvento di un mondo decisamente multipolare.