Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Notizie dal mondo 15/30 novembre

Notizie dal mondo 15/30 novembre

di rivistaindipendenza.org - 03/12/2005

Fonte: rivistaindipendenza.org

 

Italia. 15 novembre. Da quanto si deduce da una nota dell’Usigrai, il sindacato dei giornalisti RAI, l’inchiesta di Rainews24, chiaramente controproducente per gli interessi anglo-statunitensi, ha messo sotto pressione i relatori dell’inchiesta. «L’inchiesta di RaiNews 24 su Falluja sta facendo il giro del mondo (...) un portavoce del Pentagono é stato costretto ad importanti ammissioni in un’intervista alla BBC. Eppure è forte la sensazione che in troppi, in RAI, siano quasi imbarazzati dalla sua risonanza internazionale».

Ungheria. 15 novembre. Tempesta a Budapest dopo l’intervista dell’ex rappresentante ONU in Afghanistan, Cheriff Bassiouni, a il Manifesto. Il diplomatico ha accusato il governo, che smentisce, di aver avallato la creazione di carceri segrete USA. Intervistato la settimana scorsa da Patricia Lombroso, Cheriff Bassiouni aveva accusato i governi polacco, rumeno e ungherese di aver avallato la creazione, da parte degli Stati Uniti, di prigioni occulte in cui praticare la tortura. Dichiarazioni amplificate dalla stampa magiara. Riferisce l’agenzia MTI che il professore di legge Bassiouni ha spiegato com’è stata creata la rete di prigioni segrete della CIA, dove i detenuti vengono sistematicamente torturati, Se le responsabilità principali sono da addossare all’amministrazione Bush, non minore sono quelle dei paesi menzionati, che avrebbero così violato la convenzione europea sui diritti umani ed altri accordi europei contro la tortura.

Liberia. 15 novembre. Non si placa la protesta dei sostenitori di George Weah per i presunti brogli alle presidenziali in Liberia, dove l’ex calciatore è stato sconfitto da Ellen Johnson-Sirleaf. I 18 parlamentari del Congresso per il Cambiamento Democratico, il partito che ha sostenuto la candidatura dell’ex attaccante del Milan e del Chelsea, hanno infatti annunciato che non siederanno all’Assemblea di Monrovia «finché la questione dei brogli non verrá affrontata in modo adeguato».

Turchia / Kurdistan. 15 novembre. Fuoco e sangue su una manifestazione kurda. La polizia turca ha ucciso oggi tre persone e ferito a decine nella località kurda di Juksekova. I manifestanti hanno risposto attaccando i blindati e ferendo diversi poliziotti. La protesta verteva su un episodio della settimana scorsa. Una libreria di proprietà di un ex prigioniero del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), nella vicina località di Semdinli, è saltata in aria. Abitanti del luogo avevano colto sul fatto un uomo, che si è scoperto essere un pentito dell’organizzazione, e con lui due poliziotti che, a detta del pentito, erano i promotori dell’attentato e lo aspettavano in macchina. L’attentato aveva provocato la morte di una persona e successivamente la polizia, per impedire il linciaggio del pentito e dei due poliziotti colti in flagrante, aveva sparato sulla folla uccidendo una seconda persona. Il governativo PJD si è visto costretto a dichiarare l’apertura di un’«inchiesta» su questi fatti, già bollata come poco credibile da fonti kurde. In segno di protesta per quell’attentato era stata indetta la manifestazione di oggi repressa nel sangue. Forse come risposta a questi fatti è giunta la notizia che, non lontano da Juksekova, nella provincia di Van, tre militari turchi sono saltati in aria per l’esplosione di una mina. Ankara ha attribuito l’attacco alla guerriglia indipendentista del PKK, che, dopo due tregue successive, ha risposto al silenzio di Ankara riprendendo le armi.

Organizzazione di Shanghai (SCO). 15 novembre. Si è concluso il Forum economico euroasiatico, organizzato dal segretariato dello SCO, dall’UNESCAP e dalla Banca cinese per lo sviluppo. Il 10 ed 11 novembre, nell’antica città cinese di Xian, si sono riuniti politici ed imprenditori degli Stati membri ed osservatori della SCO nonché di Turkmenistan, Giappone, Corea del sud ed altri paesi. È la prima volta, rilevano gli analisti, che la SCO organizza un incontro su così grande scala. Obiettivo principale dell’evento: la ricerca di strategie per l’integrazione economica dell’area euroasiatica, fondate su complessi modelli di cooperazione che prevedono interazioni tra governi ed imprese e forme bilaterali e multilaterali di cooperazione. Secondo i delegati presenti, si è registrato un consenso generale su diversi punti.

Organizzazione di Shanghai (SCO). 15 novembre. Nata nel 1996 come Shanghai Five (Cina, Russia, Kazakistan, Tagikistan e Kirghizistan) all’insegna, come indica il nome stesso, della centralità della Cina (ma in un’ottica di coordinamento con la Russia) e divenuta l’attuale SCO nel 2001 con l’ingresso dell’Uzbekistan, l’Organizzazione di Shanghai si mostra sempre più come un importante strumento per l’espansione dell’influenza geopolitica cinese attraverso (per il momento) la leva della cooperazione economica. Lo SCO aveva già attirato l’attenzione lo scorso luglio con la richiesta di smobilitazione delle basi militari USA in Asia Centrale (Karshi-Khanabad e Termez in Uzbekistan, Manas in Kirghizistan, Kolub in Tagikistan), affermando il rifiuto di «un ordine mondiale basato sul monopolio e dominio di un paese», delle interferenze di potenze esterne e dell’imposizione di un modello unico di «sviluppo sociale» (tutti riferimenti alle strategie globali USA).

Galizia. 16 novembre. Liberi gli indipendentisti galleghi. I dieci giovani dell’Assembleia da Mocidade Independentista (AMI), arrestati lunedì nella cosiddetta “Operación Castiñeira” dalla Guardia Civil, sono stati rimessi oggi in libertà. Si tratta, secondo il partito indipendentista NÓS-Unidade Popular, di giovani tra i 20 ed i 25 anni. Hanno rifiutato di rilasciare dichiarazioni davanti al giudice dell’Audiencia Nacional spagnola Santiago Pedraz. Tra le accuse: «associazione illecita, esaltazione del terrorismo, danneggiamenti, alterazione dell’ordine pubblico, ingiurie alla monarchia, alle Forze di Sicurezza dello Stato e alle Forze Armate». Oltre agli arresti, sono state effettuate perquisizioni in tre centri sociali: CS O Pichel de Compostela, dove AMI condivide la sede con collettivi sociali e culturali («completamente svuotato dalla Guardia Civil», riferisce un portavoce di NÓS-UP), A Revolta de Vigo e A Esmorga de Ourense. Secondo fonti giudiziarie, il giudice intende sollecitare la Procura a chiarire se l’Audiencia Nacional spagnola «è competente o meno per giudicarli». Da fonti della Procura, pare che l’orientamento sia di limitare le imputazioni al solo reato di «associazione illecita», che sarebbe di competenza, nel caso specifico, dei giudici galleghi.

Gran Bretagna. 16 novembre. Anche le truppe britanniche hanno usato il fosforo bianco durante la guerra in Iraq ma, sostiene un portavoce di Downing Street, «solo per creare cortine fumogene». A differenza degli USA, la Gran Bretagna ha firmato e ratificato il III protocollo della Convenzione del 1980 sulle armi convenzionali, che proibisce l’uso di questa sostanza come agente incendiario contro civili o in aree abitate da civili.

Spagna. 16 novembre. La CIA avrebbe usato l’aeroporto di Palma di Maiorca come scalo per voli illegali di trasferimento di «terroristi» in carceri segrete. Sarebbero almeno dieci le volte che il servizio segreto statunitense, secondo una denuncia di un gruppo di cittadini, avrebbe svolto detta operazione. La denuncia segue informazioni pubblicate dal Diario de Mallorca, su supposti reati di detenzione illegale, sequestro e torture da parte della CIA nell’aeroporto di Son Sant Joan. Quel che è certo, e sta venendo alla luce poco a poco, è che la CIA detiene illegalmente persone che considera nemici degli Stati Uniti in qualunque parte del pianeta, le tortura direttamente o «subcontratta» tali pratiche a regími «amici» e fa uso di qualunque paese per i trasferimenti dei suoi «combattenti nemici». La Guardia Civil ha aperto un’inchiesta su istanza della Procura del Tribunale Superiore di Giustizia delle Baleari ed ha già constatato l’esistenza di questi voli e verificato che gli aerei utilizzati erano proprietà di un’impresa che, in passate inchieste, è risultata essere una copertura della CIA. Verificato anche il numero dei dieci scali: il primo il 22 gennaio 2004 e l’ultimo il 17 gennaio 2005. L’inchiesta ora aperta dal governo spagnolo, spiega il ministro degli Interni, José Antonio Alonso, «è nelle mani del giudice». Se queste denunce trovassero conferma (inclusi il sequestro e le torture), sostiene il ministro, si tratterebbe di fatti «gravissimi» e «non tollerabili», perché romperebbero le norme che regolano le relazioni tra Stati e violerebbero l’ordinamento giuridico spagnolo. Il ministro, però, non ha esplicitato le conseguenze nelle relazioni tra Stati Uniti e Spagna che deriverebbero dalla conferma delle denunce. Come andrà a finire lo si può immaginare dalle dichiarazioni del ministro della Difesa, José Bono, che, dopo aver definito gli Stati Uniti un «paese amico ed alleato», ha dichiarato che non è disposto ad «incoraggiare alcun sentimento antiamericano per mere supposizioni su presunte attività illecite senza prove, senza indizi e senza alcun fondamento».

Iraq. 16 novembre. Il capo del consiglio per la sicurezza nazionale russo Igor Ivanov, dopo la sua visita a Teheran, si è recato a Baghdad. Ivanov è la prima massima autorità russa che visita l’Iraq dopo la defenestrazione di Saddam Hussein. Nel suo incontro con il primo ministro iracheno Jafari, Ivanov ha dichiarato che Mosca aiuterà l’Iraq nella sua «lotta contro il terrorismo». Negli ultimi giorni, Baghdad è diventata meta di destinazione di viaggi a sorpresa di autorità politiche e militari di vari Stati. Il segretario generale dell’ONU, i ministri degli esteri USA e britannico ed i ministri della difesa italiano ed ucraino sono tra le personalità che si sono recate in Iraq. Visite che si spiegano con l’approssimarsi delle elezioni parlamentari farsa del 15 dicembre. In questo contesto la Russia, vecchio partner dell’Iraq, segue con attenzione l’evolversi della situazione politica nel Paese occupato. La visita di Ivanov a Baghdad è comunque reputata da osservatori internazionali un segnale del sostegno del Cremlino al governo fantoccio del Paese.

Iraq. 16 novembre. La guerriglia irachena starebbe utilizzando ordigni sempre più sofisticati ai margini delle strade. Lo riferisce il Comando USA nel paese arabo occupato.

Palestina. 16 novembre.  La Jihad islamica respinge l’appello di disarmo rivolto dal segretario di Stato USA Condoleezza Rice al presidente palestinese Mahmoud Abbas. Mohammed Hindi, esponente di spicco della Jihad, ha dichiarato che tali pretese «lasciano al premier israeliano Ariel Sharon maggiore libertà d’azione nelle sue aggressioni contro i palestinesi e danno luce verde ad un aumento dei crimini nei territori». Hindi ha quindi chiesto all’Autorità Nazionale Palestinese di prendersi le sue responsabilità e di non credere alle «vuote» promesse degli Stati Uniti.

WTO / Arabia Saudita. 16 novembre. Il WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) ha approvato alcuni giorni fa l’ingresso dell’Arabia Saudita nell’organizzazione. Il via libera è giunto in mattinata nel corso di una riunione speciale del Consiglio generale, che riunisce tutti i 148 paesi aderenti al WTO (l’ultimo paese ad entrare è stato la Cina). Dopo oltre dieci anni di negoziati (iniziati nel luglio 1993), l’Arabia sarà ammessa formalmente nell’organizzazione il 12 dicembre, alla vigilia della conferenza di Hong Kong. Aderendo al WTO, l’Arabia Saudita ha sottoscritto diversi impegni di liberalizzazione commerciale e finanziaria ed adottato l’intero corpo di normative del WTO, ad esempio regolamenti tecnici e norme sui brevetti, gli alimenti, la sanità.

WTO / Arabia Saudita. 16 novembre. Il capo del WTO Pascal Lamy saluta l’ingresso dell’Arabia Saudita: «Il WTO diventa ora veramente un’organizzazione del commercio mondiale. Entra nell’organizzazione il 13° esportatore di beni ed il 23° importatore mondiale», ha affermato. C’è però chi sottolinea importanti conseguenze politiche. Itzhak Levanon, ambasciatore israeliano al WTO, ha ricordato che le regole del WTO escludono qualsiasi ipotesi di boicottaggio di ogni altro membro dell’organizzazione. Ciò implica che l’Arabia Saudita deve aprire la sua economia protetta anche ad Israele, e rivedere la sua partecipazione al boicottaggio economico sancito dalla Lega Araba (più teorico che pratico secondo alcuni analisti). Altri 40 paesi sono intanto coinvolti in colloqui per aderire al WTO, tra i quali la Siria.

Cuba. 16 novembre. Il lider maximo cubano Fidel Castro è affetto dal morbo di Parkinson: lo sostiene la CIA. Secondo il servizio segreto statunitense, Castro potrebbe avere difficoltà a svolgere il suo ruolo istituzionale. L’indicazione non è una novità, ma, secondo la CIA, le condizioni di Castro si sono talmente aggravate, da far tornare d’attualità la questione della sua successione.

Venezuela. 16 novembre. Il governo venezuelano ha ritirato il suo ambasciatore a Città del Messico. È questa la risposta di Chávez all’ultimatum dell’omologo messicano Vincente Fox, che chiedeva le scuse formali del leader bolivariano per le «frasi irriguardose» pronunciate nei suoi confronti. Scuse considerate da Caracas un’aggressione insensata del governo messicano. Chávez e Fox hanno polemizzato sul tema dell’Area di libero commercio delle Americhe (ALCA) propugnata dagli Stati Uniti nel recente vertice di Mar del Plata, in Argentina. Il capo dello Stato messicano aveva cercato di introdurre la questione ALCA –insieme al Canada e ad altri paesi latinoamericani– nel vertice cui era presente anche George Bush, suscitando però la ferma opposizione dei paesi del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay ed Uruguay) e dello stesso Venezuela. Nel corso della sua trasmissione domenicale Alò presidente, Chávez ha rivelato particolari dell’incontro in Argentina, mostrando addirittura un video di una sessione privata dei capi di Stato all’ultimo Vertice delle Americhe, dimostrando così la sonora batosta presa dagli Stati Uniti. «Cow boy, non è stata inclusa nel documento la sua proposta; è stato sconfitto, cow boy, messo al tappeto gentleman, al tappeto, signore» ha detto Chávez riferendosi in tono di scherno a Bush, affermando di aver provato grande soddisfazione nel vedere la faccia di Bush in quella occasione.

Venezuela. 16 novembre. Nel discorso pronunciato al Vertice e trasmesso da Chávez, Bush aveva chiesto di appoggiare la proposta panamense di inserire un paragrafo inerente all’ALCA nel documento finale. «Credo che il suggerimento di Panama dovrebbe essere approvato (…) se non raggiungiamo un’unità di intenti sul documento intorno al tavolo. viene facile pensare che non ci sia la volontà di procedere nell’accordo sul libero commercio» dice Bush nel video, insistendo che «è evidente che la proposta panamense riscontra la volontà del popolo». A quel punto Chávez ha proposto l’indizione di un referendum a livello continentale per conoscere il livello di consenso sull’ALCA. Chávez non ha mostrato i discorsi degli altri presidenti che erano intenzionati a riprendere le negoziazioni sull’ALCA, tranne quello di Fox e del presidente panamense, promettendo di trasmettere gli altri in seguito. «Alla fine è riuscita vittoriosa la proposta degli aderenti al Mercosur che prevedeva due soluzioni: o si mettevano le due posizioni sull’ALCA nella dichiarazione finale, o non si metteva niente”, dice Chávez, aggiugendo che «dopo questi interventi, Bush è sprofondato nel mutismo e se n’è uscito con la coda tra le gambe prima che la riunione finisse».

Venezuela. 16 novembre. Chávez ha polemizzato quindi con Fox sul tema dell’ALCA, su cui il presidente messicano ha ricevuto una sonora sconfitta. Il Presidente venezuelano ha poi dedicato a Fox un testo del poeta venezuelano Alberto Arvelo Torrealba: «Io sono come una pianta spinosa in un prato fiorito. Dò aroma a colui che passa e pungo a chi mi muove. Non si metta contro di me perché va a finire che la pungo», ha detto Chàvez rivolgendosi idealmente al suo omologo messicano. Parole che hanno ulteriormente infiammato Fox: da qui le richieste di «scuse formali» al governo venezuelano. Nei giorni scorsi, infatti, Chávez aveva stigmatizzato il ruolo del presidente messicano: «Fox fa davvero tristezza. È triste che un presidente di un popolo eroico come i messicani si presti a diventare il cucciolo dell’imperialismo». Lo stesso Fox si era in precedenza distinto per le sue accuse al presidente argentino Nestor Kirchner di essere un «povero ostaggio interessato solamente ai suoi ritorni elettorali». Kirchner aveva replicato seccamente: «Fox si preoccupi del Messico e lasci a me i problemi dell’Argentina».

Venezuela. 16 novembre. Il presidente dell’Assemblea Nazionale venezuelana, Nicolás Maduro, ha additato il presidente messicano Vicente Fox come responsabile della crisi esistente nei rapporti tra Messico e Venezuela. Il Capo del Parlamento ha espresso il sostegno dell’organo legislativo al presidente venezuelano Hugo Chávez nello scontro sostenuto con Fox a partire dal recente Summit delle Americhe. In quella conferenza, gli USA hanno tentato di riattivare il loro progetto di Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA), tramite una manovra innescata dal presidente messicano, che ha pubblicamente criticato l’opposizione manifestata da Chávez alla pretesa statunitense. Per Maduro, Fox agisce come una pedina della politica di Washington verso l’America Latina e contro il Presidente e la politica estera del Venezuela, avendo messo da parte la tradizione nazionalista del Messico e ponendo quel paese al servizio di una politica imperiale che i messicani ripudiano. «Alla radice di tutta questa situazione c’è un dibattito tra la concezione latinoamericanista di sovranità e dello sviluppo indipendente sostenuto da Chávez e da altri leader e la politica colonialista che rappresenta Fox». «O siamo una colonia tramite l’ALCA o un gruppo di nazioni che si sta integrando su basi di solidarietà», ha detto Maduro, precisando che i rapporti con il popolo messicano, le sue istituzioni e i suoi partiti politici verranno mantenuti.

Uruguay. 16 novembre. Il ministro degli esteri dell’Uruguay, Reinaldo Gargano, ha anticipato che il Venezuela, il prossimo 6 dicembre, entrerà a far parte del Mercosur, spiegando che tutti i paesi membri del Mercato Comune del Sud (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay) hanno approvato l’ingresso di Caracas. Gargano ha rilasciato queste dichiarazioni rispondendo ad affermazioni del leader del Partito Nazionale, Jorge Larrañaga, che ha detto di sentirsi preoccupato e contrariato per l’entrata del Venezuela nel Mercosur. I governi dell’Uruguay e del Venezuela hanno stipulato nuovi accordi tra le rispettive imprese petrolifere e di combustibili e inoltre esiste la possibilità che il Venezuela investa nella statale dell’Uruguay –Ancap– per la raffinazione del petrolio destinato alla regione.

Irlanda del Nord. 17 novembre. La polizia nordirlandese avverte Adams su un possibile attentato. Oltre a informazioni su Gerry Adams, presidente del Sinn Féin, la fazione lealista UDA è stata trovata in possesso di una cinquantina di nomi di repubblicani, anche qui con informazioni dettagliate. Si tratta di documenti riservati degli archivi militari britannici. Lo ha dichiarato un portavoce del Sinn Féin. L’avvertimento della polizia è stato lanciato dopo il recupero di uno di questi documenti «scomparsi» dagli uffici dell’esercito britannico a Castlereagh. Questo è un complesso militare nel quale lavora la polizia segreta e l’intelligence militare britannica. Secondo l’ex sindaco di Belfast, Alex Maskey (Sinn Féin), l’esistenza di informazioni personali in mano poliziesca su Gerry Adams e altri dirigenti repubblicani dimostra che «fino al luglio dello scorso anno lo Stato britannico continuava a spiare gli esponenti del Sinn Féin in un momento nel quale tentavamo di avanzare nel processo del pace». Secondo il capo-negoziatore repubblicano, Martin McGuinness, si tratta di un altro esempio di connivenza con i paramilitari lealisti: «il governo britannico, l’esercito britannico e la polizia nordirlandese hanno permesso coscientemente che 400 persone e le loro famiglie abbiano vissuto sotto minaccia, senza informarli dei rischi, per 16 mesi».

Irlanda del Nord. 17 novembre. Rondha Paisley, figlia dell’esponente del DUP (Democratic Unionist Party), il partito oltranzista lealista di Ian Paisley, ha citato il partito del padre in tribunale per un caso di discriminazione sessuale. Rhonda ritiene di aver subìto una discriminazione di genere per essere stata respinta, lo scorso anno, per un posto in un organismo dirigente del DUP. Suo padre, insieme ad altri membri dell’esecutivo del partito, sarà convocato al processo che si ritiene avrà luogo il prossimo anno. Dal partito si è espressa sorpresa per la decisione di Rhonda, vista anche la relazione tanto stretta che mantiene con suo padre.

Unione Europea / Germania. 17 novembre. La Commissione europea prende atto della priorità accordata dal nuovo governo tedesco al risanamento dei conti pubblici, ma è intenzionata a «portare avanti» la procedura per deficit eccessivo nei confronti della Germania. Lo ha dichiarato a Bruxelles il commissario UE agli Affari economici e monetari Joaquin Almunia. La Germania ha un rapporto deficit-Pil superiore al 3% dal 2002 e prevede di ritornare sotto questo livello solo nel 2007. «Nella riunione del 22 dicembre la Commissione valuterà la situazione tedesca, ma il giudizio relativo al 2005 è che la Germania non ha adottato le misure sufficienti a riportare il disavanzo sotto controllo», ha puntualizzato Almunia, spiegando che pertanto «continueremo nella procedura per deficit eccessivo». Alcuni giorni fa Almunia ha spiegato che alla Germania verrà dato un anno in più (cioè fino alla fine del 2007), per riportare il deficit sotto il 3% del Pil. Oggi ha sottolineato che le previsioni di Bruxelles –che stimano per il 2005 e 2006 il rapporto deficit/Pil tedesco rispettivamente al 3,9% e 3,7%– non tengono conto delle misure di bilancio annunciate negli ultimi giorni dalla “grande coalizione” guidata da Angela Merkel. «Le adegueremo non appena avremo i dettagli delle nuove misure», ha spiegato Almunia, esprimendo soddisfazione per la «priorità, accordata dal nuovo governo, al risanamento dei conti pubblici».

Gran Bretagna. 17 novembre. Uccisero Menezes con pallottole proibite. I poliziotti britannici che uccisero, dopo gli attentati del 7 luglio, il giovane brasiliano Jean Charles de Menezes in circostanze molto poco chiare e su cui si è cercato di far calare il silenzio, utilizzarono pallottole esplosive proibite dalle convenzioni internazionali. Nello specifico pallottole «dumdum» che esplodono nel corpo all’impatto.

Marocco. 17 novembre. Ancora repressione a El Aaiún: 57 feriti e 97 arresti. Le forze d’occupazione marocchine sono intervenute pesantemente contro le «manifestazioni pacifiche che hanno avuto luogo domenica e lunedì», indette in seguito al presunto coinvolgimento di due poliziotti marocchini nella morte di Hmatú Lembarki. Lo ha comunicato ieri l’agenzia di informazione del Fronte Polisario, il Servizio di Stampa Saharawi (SPS). Secondo la SPS circa 4mila effettivi delle Forze Armate Reali (FAR) marocchine si sono aggiunti agli effettivi della Polizia e ai Gruppi di Intervento Rapido (GIR), ai Gruppi Urbani di Sicurezza (GUS), alla Gendarmeria Reale in distinte città del Sahara Occidentale. SPS parla anche di «saccheggio di oltre una trentina di case saharawi, ed almeno una persona, Hassenna Lekhfauni, è scomparsa». Rabat smentisce. Il ministro marocchino della Comunicazione e Portavoce del governo, Nabil Benabdalá, afferma che la situazione a El Aaiún è «calma».

Iraq. 17 novembre. Stati Uniti e Gran Bretagna ammettono l’uso di fosforo bianco a Falluja alla fine del 2004. «Lo abbiamo utilizzato come arma incendiaria contro combattenti iracheni (...). Gli effetti combinati del fuoco e del fumo, ed in certi casi del terrore causato dall’esplosione, li costringono ad uscire e allora li possiamo ammazzare...», ha dichiarato il tenente-colonnello statunitense Barri Venable, che aggiunge: il fosforo bianco «è un’arma convenzionale e non è illegale». L’utilizzo di questa sostanza è proibita dal diritto internazionale che però gli Stati Uniti si sono guardati dal sottoscrivere. Perciò per Washington il suo utilizzo è «legale». Dal canto suo, tramite il ministro della Difesa, John Reid, Londra ha confermato l’uso di fosforo bianco, ma «per creare una cortina di fumo di protezione per le nostre truppe». Testimoni diretti a Falluja hanno denunciato a posteriori che la maggioranza delle vittime sono civili.

Israele. 17 novembre. Poco più di un mese fa la giornalista svizzera Silvia Cattori ha intervistato per Réseau Voltaire (http://www.voltairenet.org/article129626.html) Mordechaï Vanunu, per nove anni ingegnere al centro di ricerca in armamenti di Dimona. Nel 1986 Mordechaï rivela ai giornalisti britannici del Sunday Times l’esistenza del programma nucleare militare israeliano. Rapito in Italia dal Mossad nell’ottobre dello stesso anno prima che il loro articolo venisse pubblicato, fu condannato a porte chiuse ed imprigionato per diciotto anni. «Il mio lavoro a Dimona consisteva nel produrre elementi radioattivi utilizzabili per la fabbricazione di bombe atomiche. Sapevo esattamente quali quantità di materie fissili venivano prodotte, quali materiali venivano utilizzati e che tipo di bombe veniva fabbricato (…) Proprio prima di lasciare questo lavoro nel 1986, avevo preso delle foto all’interno dello stabilimento per dimostrare al mondo che Israele nascondeva un segreto nucleare».

Israele. 17 novembre. Nell’intervista Vanunu afferma di aver voluto, con le sue dichiarazioni, mostrare al mondo che le autorità israeliane mentivano asserendo di non aver alcuna intenzione di dotarsi di armi nucleari. «In realtà, però, producevano molte sostanze radioattive che potevano servire solo ad un unico scopo: costruire bombe nucleari. Notevoli quantità: ho calcolato che avevano già all’epoca –nel 1986!– più di duecento bombe atomiche. Avevano anche iniziato a costruire bombe a idrogeno molto potenti. Così ho deciso, nell’interesse dell’umanità, di far sapere al mondo intero cosa tramassero nel più assoluto segreto. E poi volevo in questo modo impedire agli israeliani di utilizzare le bombe atomiche, per evitare una guerra nucleare in Medio Oriente. Volevo contribuire a portare la pace in questa area. Avendo già delle armi superpotenti, Israele poteva fare la pace: non doveva più temere alcuna minaccia palestinese, né tanto meno araba, poiché possedeva tutto l’armamento necessario alla sua sopravvivenza».

Israele. 17 novembre. Mordechaï Vanunu era consapevole, al tempo delle sue dichiarazioni, a cosa rischiava di andare incontro: «Sapevo che avrei avuto a che fare col governo israeliano. Non è come prendersela con degli interessi privati (…) Sapevo quindi che avrebbero potuto punirmi, uccidermi, che avrebbero potuto fare di me quello che volevano. Ma avevo la responsabilità di dire la verità al mondo. Nessuno altro tranne me era in grado di farlo: era dunque mio dovere farlo. Qualunque fossero i rischi». Abbandonato anche dalla sua famiglia, Mordechaï Vanunu «viene processato nel segreto più assoluto. Ero solo col mio avvocato. Sono stato condannato per spionaggio e tradimento. Le autorità israeliane si sono vendicate lasciandomi in isolamento e per tutta la durata del processo. Nessuno era autorizzato a vedermi né a parlarmi, mi vietavano di rivolgermi ai media. Hanno pubblicato molta disinformazione sul mio conto (...) Le persone erano convinte che fossi un traditore, una spia, un criminale. Non c’è stato un briciolo di giustizia nello svolgimento. Non c’era solo il processo: la cosa più crudele è stata isolarmi, in prigione». Inizierà un periodo molto duro per Vanunu. «Mi hanno punito non solo tramite la detenzione ma anche isolandomi completamente, spiandomi continuamente, con trattamenti malvagi particolarmente viziosi e crudeli: hanno cercato di farmi arrabbiare, hanno cercato di farmi rimpiangere ciò che avevo fatto. Sono stato tenuto nella cella di segregazione per diciotto anni di cui dodici anni e mezzo in isolamento totale. Il primo anno hanno messo delle videocamere nella mia cella. Mi hanno lasciato la luce accesa tre anni di fila! Le loro spie mi picchiavano continuamente, mi impedivano di dormire. Sono stato sottoposto ad un barbaro trattamento; hanno tentato di sfiancarmi. Il mio obiettivo era resistere, sopravvivere. E ci sono riuscito…».

Israele. 17 novembre. Il 21 aprile 2004 Vanunu, dopo aver scontato i 18 anni di pena, esce dal carcere. Nonostante dichiarazioni come quelle del ministro della Giustizia dell’epoca Tommy Lapid, il governo israeliano alla fine deciderà di non uccidere in carcere Vanunu. «Uscire di prigione, andare a parlare a tutto il mondo, festeggiare quel momento… dopo diciotto anni di prigionia, di proibizione di tutto… è stato un grande momento... Il mio obiettivo era di uscire e parlare al mondo intero, far capire alle autorità israeliane che avevano fallito. Il mio scopo era sopravvivere e questa è stata la mia più grande vittoria su tutte quelle organizzazioni di spionaggio. Sono riusciti a rapirmi, a trascinarmi davanti al loro tribunale, a mettermi in prigione, in un posto segreto per diciotto anni… e io sono sopravvissuto a tutto ciò. Ho sofferto, naturalmente, ma sono sopravvissuto. Nonostante tutti i loro crimini, sono ancora vivo e sono anche in ottima salute! Sono di forte costituzione, e grazie a questa caratteristica ho superato la prova. I miei carcerieri non sono riusciti a stroncarmi mentalmente. La mia fermezza, il fatto di continuare ad essere convinto che avevo avuto ragione nel fare ciò che avevo fatto, la volontà di far loro capire che, qualunque cosa facessero per punirmi, io avrei continuato a restare in vita: ciò mi ha aiutato a tenere duro». Anche se fuori dal carcere, Vanunu rimane però privo di libertà di circolazione. Non può lasciare Israele. All’ingegnere israeliano è ancora vietato avere contatti con la stampa. «Sono stato liberato dalla prigione, ma qui, in Israele, sono in una grande prigione. Vorrei lasciare questo paese, godere della libertà nel vasto mondo. Ne ho abbastanza del potere israeliano. L’esercito può venire ad arrestarmi in qualsiasi momento, punirmi. Sento di essere alla loro mercé (...) Israele mi aveva vietato di lasciare il paese per un anno. Passato un anno, mi hanno rinnovato il divieto per un nuovo anno che finirà ad aprile prossimo. Ma possono ancora prolungarmi il divieto tutto il tempo che vorranno…».

Israele. 17 novembre. In merito alla vicenda del nucleare iraniano, Vanunu evidenzia che mentre l’Iran ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare (così come tutti gli Stati arabi), adempie ai propri obblighi ed accetta le ispezioni dell’ONU, «Israele è l’unico paese che ha rifiutato di firmare il Trattato (…)  Dobbiamo finirla con l’ipocrisia e obbligare Israele a firmare il Trattato di non proliferazione nucleare. Bisogna imporre a Israele il libero accesso degli ispettori dell’AIEA al centro di Dimona (…) Tutto il mondo arabo dovrebbe essere estremamente preoccupato sentendo tutti questi discorsi che incriminano l’Iran, che non possiede alcuna arma atomica, e che continuano ad ignorare Israele (…) Se il mondo è davvero preoccupato, e se vuole sinceramente porre fine alla proliferazione nucleare, che cominci dall’inizio, vale a dire con Israele!».

Israele. 17 novembre. Vanunu non solo evidenzia i “due pesi e due misure” tra Iran ed Israele, ma sottolinea come USA ed UE aiutino segretamente lo Stato sionista, che ha minacciato di bombardare la repubblica islamica. «Esiste una cooperazione segreta tra Israele e la Gran Bretagna, la Francia e gli Stati Uniti. Questi paesi hanno deciso di contribuire alla potenza nucleare di Israele per fare di questo paese uno Stato coloniale nel mondo arabo. Aiutano Israele perché vogliono che sia al loro servizio, in quanto paese colonialista che controlla il Medio Oriente, ciò che permette loro di impossessarsi degli introiti provenienti dal petrolio e di mantenere gli arabi sottosviluppati e all’interno di conflitti fratricida. È questo il motivo principale di questa cooperazione». La cooperazione nucleare tra Gran Bretagna, Francia ed Israele è una conseguenza del sostegno dato dallo Stato sionista nella guerra contro l’Egitto del 1956.

Israele. 17 novembre. Ma per quali motivi Israele ha proceduto alla costruzione di un numero così imponente di armi nucleari? Vanunu rileva giustamente che l’uso dell’arma atomica «contro la Siria, l’Egitto o la Giordania avrebbero effetti radioattivi e renderebbero la vita impossibile anche in Israele. Ogni bomba danneggerebbe anche Israele». Da qui l’idea che il piccolo Stato sionista usi le armi atomiche come strumento di ricatto politico rivolta anche verso gli Stati europei. «Israele usa la potenza delle armi nucleari per assestare le sue politiche (…) Anche senza usare la bomba atomica, gli israeliani possono imporre il loro potere, posso fare assolutamente ciò che vogliono: possono innalzare muraglie, possono edificare colonie in Palestina, nessuno è nella condizione di dire loro che non hanno il diritto di farlo perché sono estremamente potenti (…) Possono usare la bomba atomica contro ogni paese che volesse fermare la loro politica aggressiva verso i palestinesi».

Israele. 17 novembre. Al termine dell’intervista, Vanunu non solo ribadisce di essere fiero di quanto ha fatto, nonostante le sofferenze subite, ma rileva che il suo atto ha prodotto conseguenze di non poco conto. «Il mondo ha adesso la prova che Israele possiede delle armi atomiche (...) Venuto a conoscenza di ciò che Israele ha fatto nel più grande segreto, si è manifestata la paura per la proliferazione nucleare. Il mondo ha preso coscienza del potere di Israele e ha iniziato ad esercitare delle pressioni su questo paese per costringerlo a fare la pace coi palestinesi e col mondo arabo. Israele non aveva più alcun motivo di affermare che temeva i suoi vicini arabi dal momento che disponeva, dalla fine degli anni Cinquanta, di una quantità di armi sufficiente per assicurare la sua sicurezza». Ciò avrebbe determinato per Vanunu un cambiamento di piani nella politica israeliana. «La politica nucleare segreta di Israele è l’opera di Shimon Peres. Ed ecco che è stata distrutta questa politica che consiste nel fabbricare armi atomiche clandestinamente. A causa di questa rivelazione, Israele ha dovuto prendere una nuova direzione, definire nuovi piani e quello cui assistiamo oggi è la conseguenza delle mie rivelazioni. Hanno dovuto inventare nuovi tipi di armi. Oggi, costruiscono il muro, i check-point, le colonie».

Israele. 17 novembre. Così conclude la sua intervista Vanunu: «Israele non vuole porre fine al conflitto. Invece di riconoscere ai palestinesi gli stessi diritti, Israele vuole continuare a costruire la sua muraglia e le sue colonie (…) Israele ha un grosso problema: non rispetta gli esseri umani. Quello che ha potuto fare, perché non considera gli esseri umani uguali, è terribile. Lo Stato di Israele non è in nessun caso una democrazia. Lo Stato di Israele è razzista. Il mondo dovrebbe sapere che Israele mette in pratica una politica di apartheid: se si è ebrei, si ha il diritto di andare dove si vuole e di fare ciò che sembra giusto; se non si è ebrei, non si ha alcun diritto (…) Noi non dobbiamo accettare questo Stato razzista sionista, questo regime fondamentalista (…) Noi abbiamo bisogno di uno Stato per tutti i suoi cittadini, a prescindere dalla fede religiosa. La soluzione è uno Stato unico per tutti i suoi abitanti, di tutte le religioni (…) Sappiamo ciò che gli israeliani fanno subire al popolo palestinese da più di cinquanta anni! (…) Israele ha utilizzato i risarcimenti dell’Olocausto per fabbricare armi, per distruggere case e beni dei palestinesi (…) È arrivato il momento di ricordarsi dell’Olocausto palestinese e di preoccuparsene. I palestinesi soffrono così tanto, e da tantissimo tempo, per questa oppressione. I sionisti non li rispettano affatto, non li considerano esseri umani, non riconoscono loro alcun diritto e continuano a perseguitarli, a mettere in pericolo la vita dei palestinesi e, di conseguenza, anche il loro stesso avvenire».

Siria / Libano. 17 novembre. Contro il capo degli investigatori ONU, Mehlis, in Siria c’è anche una canzone: il motivetto, di un noto cantante, ha invaso le onde radio. «Tutto il tuo rapporto oh Mehlis, non vale a fatica più di un fillis (centesimo, ndr)», così comincia la canzone che la dice lunga sulla percezione popolare di questa inchiesta dell’ONU sull’uccisione di Hariri. In Libano il movimento Hezbollah accusa Mehlis di far filtrare informazioni sulla sicurezza nazionale al servizio segreto israeliano Mossad.

Stati Uniti. 17 novembre. Medici statunitensi presenziano ad interrogatori e torture nella base USA di Guantanamo. Lo denuncia l’Associazione Medica Americana (AMA). L’AMA ha chiesto che i medici si astengano anche dall’alimentare in maniera forzosa i prigionieri in sciopero della fame nella base statunitense.

Ecuador. 17 novembre. «Siamo venuti per restare e siamo disposti a lottare per non essere una colonia USA»: così ha affermato Luis Macas, presidente della Conaie (Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador), che ha promosso nella capitale Quito una marcia di migliaia di persone contro la firma del Trattato di Libero Commercio con gli Stati Uniti e per l’espulsione dal paese della compagnia petrolifera Oxy. La marcia è proseguita fino alla Plaza San Francisco dove Macas, nel discorso conclusivo, ha chiesto la convocazione di un’Assemblea Costituente con pieni poteri. In serata una delegazione dei dimostranti è stata ricevuta dal presidente Palacio. Anche il giorno prima il centro di Quito era stato teatro di un corteo attaccato da ingenti forze di polizia. Alcuni manifestanti erano rimasti feriti. Proseguono intanto i blocchi stradali nella provincia di Los Ríos, dove è in corso la protesta contro la costruzione della diga Baba. Centinaia di famiglie si oppongono alla realizzazione dell’impianto idroelettrico, un progetto che il deposto presidente Gutiérrez aveva designato come priorità nazionale, e di cui l’attuale governo Palacio ha affidato la concessione alla compagnia brasiliana Odebrecht. La battaglia contro la diga, che distruggerà un ecosistema unico al mondo e provocherà lo sgombero di  migliaia di persone, è appoggiata da insegnanti, sacerdoti, commercianti, rappresentanti dei Comuni dell’area.

Ecuador. 17 novembre. Alfredo Palacio perde la maggioranza in Parlamento ma guadagna consensi popolari con la sua proposta di Assemblea Costituente. Questa in sintesi l’evoluzione nella politica ecuadoregna dopo i tumulti che hanno portato, il 21 aprile scorso, alla fuga in elicottero, dal suo palazzo assediato dalla folla, l’ex presidente Lucio Gutierrez, “alleato di ferro” degli USA e continuatore della politica di svendita delle risorse petrolifere ecuadoriane che, assieme alle politiche economiche patrocinate dagli USA, hanno portato il paese allo stremo. L’ex vicepresidente Alfredo Palacio aveva dichiarato, agli inizi di settembre, di voler dedicare gli ultimi 14 mesi del suo mandato portando a compimento una profonda ristrutturazione dello Stato. Per realizzare tale progetto erano stati preparati, insieme all’allora Ministro degli Interni Oswaldo Molestina, 17 quesiti da sottoporre tramite referendum alla popolazione. Il Parlamento aveva però respinto diversi questiti: cosa che ha indotto Palacio a cambiare radicalmente strategia, riducendo l’intero processo referendario ad un solo quesito: la creazione di un’Assemblea Costituente per riformare la Costituzione. Per far passare la sua proposta, Palacio ha investito della questione direttamente il Tribunale Supremo Elettorale (essendo la Corte Costituzionale non preposta a giudicare in materia), scavalcando il Parlamento. Quest’organo a rappresentanza politica ha però dichiarato incostituzionale la proposta presidenziale, aprendo di fatto un conflitto tra il Parlamento ed il Capo di Stato. Anche le dimissioni di Oswaldo Molestina sono il frutto di una «differenza di vedute con il Presidente in merito alle modalità di riforma dello Stato», essendo favorevole all’iter dei 17 quesiti con il consenso del Parlamento.

Ecuador. 17 novembre. Ad appoggiare il capo di Stato sono rimaste due formazioni, NP (Paese Nuovo) e il PM (Movimento Pachakutik). Quest’ultimo movimento, che pure non è tra i più ferventi sostenitori del referendum (ritenendo prioritarie altre questioni economiche e sociali) ha ventilato l’ipotesi che il suo partito adisca a vie legali per invalidare la sentenza del Tribunale Elettorale, che avrebbe abusato delle sue funzioni. Gli altri cinque partiti della maggioranza, il PSC (Partito Social-Cristiano), la ID (Sinistra Democratica), il PRIAN (Partito per il Rinnovamento Istituzionale Nazionale), il PRE (Partito Rodolsista Ecuadoriano) e il MPD (Movimento Popolare Ecuadoriano) sostengono invece la preminenza del Parlamento. I principali movimenti ecuadoregni sostengono invece la proposta di Palacio. Tra questi, spicca per importanza e partecipazione popolare la Conaie, che per bocca del suo leader Humberto Cholango ha tacciato il Tribunale Elettorale di connivenza con le oligarchie del paese che non vogliono perdere i propri privilegi. Ad essa si sono associate l’ADN (Alleanza Democratica Nazionale), molti ordini professionali (dagli ingegneri agli artigiani), diverse rappresentanze locali. Anche tra i sindacati si contano adesioni importanti, in particolare il potente Fetrapec (Federazione dei Lavoratori Petroliferi), ma anche la Fenacle (Federazione Nazionale dei Contadini e Indigeni Liberi dell’Ecuador), fino a poco tempo fa ostile al Capo di Stato per il Trattato di Libero Commercio stipulato con gli Stati Uniti. Si sono poi sviluppate manifestazioni spontanee di cittadini, soprattutto nella capitale Quito, che hanno sfilato sotto la sede del Parlamento per spingerlo ad approvare il referendum.

Ecuador. 17 novembre. Incerta, sulla questione referendaria, è la posizione dell’esercito, che da sempre gioca in Ecuador un ruolo preminente nella vita politica. Un ulteriore motivo di tensione è costituito dal ritorno di Lucio Gutierrez. Dimissionato dal Congresso e sostituito con Palacio, ha lasciato l’esilio colombiano per ritornare in patria ed è stato subito incarcerato. Gutierrez riceve il sostegno del Governo di Bogotà, che si è subito attivato per appurare la bontà delle condizioni di detenzione dell’ex presidente e sta facendo pressioni sulla Corte Suprema per il suo rilascio. Di certo colpiscono le evoluzioni politiche di Palacio nel breve volgere di pochi mesi: da vicepresidente di Gutierrez a Presidente appoggiato dal Congresso a leader che vanta il sostegno popolare ma non quello della maggioranza parlamentare. Bisognerà comunque verificare l’affidabilità di Palacio: il precedente di Gutierrez, soprannominato dopo le elezioni del 2002 il “Chavez ecuadoregno” per le sue promesse di lotta alla corruzione, al neoliberismo e alle strategie militari USA, ed appoggiato dai gruppi indigeni, potrebbe anche essere il futuro politico di un Palacio che ottenga un futuro plebiscito popolare. Bisognerà però vedere le prese di posizione dell’Esercito e soprattutto di Washington. D’altro canto, a tutt’oggi non si è a conoscenza di atti compiuti da Palacio che abbiano urtato profondamente con gli interessi USA.

Euskal Herria. 18 novembre. La politica penitenziaria è peggiorata dalla presentazione, ad Anoeta, della proposta abertzale («Orain herria, orain bakea») di soluzione politica al conflitto. Il Movimento pro amnistia accusa i governi di Madrid e Parigi di utilizzarla come «arma di guerra». Juan Mari Olano, rappresentante di Askatasuna, uscito il 20 settembre dopo quattro anni di detenzione, sottolinea che questo indurimento delle condizioni di vita nelle carceri è frutto di una decisione politica e che «l’obiettivo di questa sofferenza gratuita applicata ai prigionieri e familiari è cambiare la linea politica della sinistra abertzale (...). Per poter mantenere un minimo di dignità e continuare a vivere con buona salute dentro le carceri, i prigionieri si vedono obbligati a fare tremendi sacrifici e sforzi, come scioperi della fame e della sete (...). La geografía carceraria, in questa fase, è più estesa che mai. La dispersione è presente in ogni prigione. Se, per esempio, in un carcere ci sono dieci prigionieri politici baschi, ci saranno cinque, sei o sette moduli differenti. E questo non avviene a caso», ha sottolineato Olano, che ricorda anche che «la lista di coloro che soffrono maltrattamenti e torture va aumentando».

Romania. 18 novembre. Bucarest conclude un accordo con Washington per l’uso agli USA di basi militari sul Mar Nero. L’aeroporto di Kogalniceanu, nei pressi del porto di Costanţa, sul Mar Nero, e la base di Fetesti a 200 km a est di Bucarest sarebbero le prime scelte da parte di Washington. Già nel 2003, durante la crisi irachena, il governo rumeno aveva dato il proprio assenso all’utilizzo di basi da parte USA. Washington guarda con favore al trasferimento di proprie basi nell’area del Mar Nero, considerata strategica sia in quanto unisce l’area del Caspio e del Caucaso meridionale (Azerbaigian/Georgia) con i Balcani, sia in quanto rappresenta una ottima base per la proiezione di potenza in Medio Oriente. Ne dà notizia Euractiv.com.

Bulgaria. 18 novembre. «I negoziati con la Bulgaria per l’uso americano di basi americane nell’area del Mar Nero sono a buon punto», si legge su una analisi di Sofia News. Mentre gli USA concludono accordi con la vicina Romania, si muovono rapidamente anche con il governo bulgaro nell’ambito del ri-dispiegamento della propria forza militare in Europa. Alcuni osservatori fanno notare come, finita la Guerra Fredda e “stabilizzata” (?) l’area dei Balcani (con la guerra anti-serba del 1999), gli USA vogliono rivoluzionare lo stesso uso delle basi. Non più strutture gigantesche e permanenti, ma una miriade di piccole strutture flessibili e spostabili in tempi rapidi, a seconda delle aree di crisi in cui sono impegnati militarmente.
 
Moldova. 18 novembre. La repubblica indipendentista della Transnistria, situata nella parte orientale della Moldova, «ha dato inizio al conio di una propria moneta». Lo si apprende dall’agenzia russa RIA-Novosti. La Transnistria, russofona, vede la presenza di 1.400 soldati russi, e Mosca ne appoggia le aspirazioni indipendentiste per mantenere influenza in questa striscia di terra adiacente all’Ucraina. Kiev, da parte sua, appoggia invece lo sforzo moldavo di impedire la secessione transnistriana, e promette ai governanti di Chisinau il proprio aiuto per favorire l’integrazione moldava nella UE.

Burkina Faso. 18 novembre. Blaise Compaoré è per la terza volta presidente del Burkina Faso. La commissione elettorale assegna a Compaorè, alla guida del Paese dal 1987, l’80,3% dei voti al primo turno. Compaorè si è scontrato alle elezioni presidenziali con altri 12 candidati, mentre un altro candidato, Hermann Yaméogo, aveva abbandonato la corsa in segno di protesta contro la terza candidatura di Blaise Compaoré. Candidatura resa possibile dalla revisione, avallata dalla Corte costituzionale, di una norma che vietava espressamente un terzo mandato. Blaise Compaoré è arrivato al potere il 15 ottobre 1987 grazie ad un colpo di Stato contro il presidente Thomas Sankara, carismatico leader africano al potere tra il 1983 e il 1987, che aveva impersonato la lotta contro la dominazione delle grandi potenze coloniali e cambiato il nome del Paese dal coloniale “Alto Volta” a Burkina Faso, il «Paese degli uomini integerrimi». Compaoré ha creato in questi anni un apparato politico ed istituzionale a lui fedele, e nel mantenimento del potere si è avvalso delle divisioni in seno all’opposizione: quasi tutti i partiti di ispirazione sankarista hanno rinunciato a presentare un candidato unico.
 
Burkina Faso. 18 novembre. Thomas Sankara: un uomo di cui sentiamo la mancanza. Alle volte sono gli esperimenti rivoluzionari delle piccole nazioni quelli che destano maggior allarme, e suscitano maggior ostilità, nelle potenze imperialiste; forse perché la loro ridotta dimensione consente una maggiore ‘originalità’, e quindi, in ultima analisi, una maggiore possibilità di allontanarsi dai ‘modelli’ considerati tollerabili. Ed è probabilmente per questa ragione che le piccole nazioni rivoluzionarie vengono travolte dall’imperialismo con tanta frequenza. Gli anni ‘80 hanno visto affermarsi dei leaders rivoluzionari di minor carisma internazionale, ma non per questo meno importanti. Ci piace ricordare Jerry Rawlings del Ghana, o Maurice Bishop di Grenada, ed appunto Thomas Sankara, anche lui assassinato in seguito a ‘congiure di palazzo’ scaturite all’interno del potere rivoluzionario, leader di un originale esperimento rivoluzionario/popolare in uno dei più piccoli e poveri paesi del mondo, il Burkina Faso (“la terra degli uomini onesti, coraggiosi e degni di rispetto”).
 
Burkina Faso. 18 novembre. Quando Thomas Sankara, a seguito dell’insurrezione del 4 agosto 1983, prese le redini del governo del Burkina Faso, il suo paese era in uno stato a dir poco pietoso. Jean Ziegler, docente di sociologia all’Università di Ginevra e più volte eletto deputato al Parlamento Svizzero, nel saggio La fame nel mondo spiegata a mio figlio, ricorda la povertà del paese e la disastrata situazione agricola. Le terre arabili erano per lo più aride, poco fertili e difficili da coltivare, e solo il 25% delle terre coltivabili veniva sfruttato. Il bilancio del commercio estero era costantemente in deficit. Forte il potere dei funzionari statali, retaggio coloniale della Francia. Sankara optò per una serie di riforme radicali. Decentralizzò i funzionari nelle varie province del paese e per contenere i rischi di antagonismi etnici, diede il via a grandi lavori su scala nazionale, tra cui la ferrovia Ouagadougou-Tambao, che possedeva una forte carica simbolica per l’unità del paese. In quattro anni Sankara aveva costruito un potere popolare basandolo non già su un partito, ma sui Comitati di Difesa della Rivoluzione, molto simili ai Comitè de Defensa Sandinistas. Abolì inoltre l’imposta di captazione, che imponeva ad ogni abitante il versamento di una forte somma annuale alle autorità locali. Data la sua entità, i padri di famiglia delle campagne, non potendola versare, erano costretti a consegnare buoi, capre, miglio ed altri prodotti agricoli, prelevando questi beni dalle loro già magre fonti di sussistenza. Se non erano in grado di pagare in natura, erano allora costretti a lavorare gratuitamente sulle ricche terre del notabile del luogo. Sankara cambiò questo stato di cose anche nazionalizzando le terre arabili e ridistribuendole  secondo le necessità delle famiglie. Il tutto nel quadro di una politica volta a subordinare i rapporti economici, politico/culturali e militari con l’estero, ad una logica di sviluppo interno nazionale e popolare, che si doveva scontrare con le resistenze della borghesia compradora, ma anche le spinte estremistico/avventuristiche dei «reazionari dell’estrema sinistra».

Burkina Faso. 18 novembre. «Il risultato di queste riforme fu spettacolare!», scrive Ziegler, «l’esempio di Thomas Sankara e del Burkina Faso ha dimostrato chiaramente che per raggiungere l’autosufficienza alimentare è indispensabile ottenere la giustizia sociale», e che per cambiare le cose «è necessario che sempre più persone ne prendano coscienza, svegliandosi dalla propria letargia, così abilmente indotta dai condizionamenti di massa a cui siamo pressantemente e costantemente sottoposti. Finché saremo rassegnati a che tutto continui allo stesso modo, nulla potrà cambiare». Sotto Sankara, la corruzione fu debellata. In quattro anni la produzione agricola era aumentata in modo considerevole, mentre la diminuzione delle spese statali di sostegno alla parassitaria borghesia compradora ed al sistema di dipendenza coloniale organizzato in particolare dalla Francia (estrema era la dipendenza dall’estero per beni alimentari, eccetera) «aveva liberato capitali, reinvestiti poi con priorità assoluta nella costruzione di strade, di dighe per l’irrigazione, nella formazione agricola e nell’artigianato locale. In quei pochi anni l’autosufficienza alimentare divenne una realtà ed il Burkina Faso si trasformò in una società più democratica e più giusta. Questo esempio diede un’immensa speranza di dignità, giustizia e fierezza ai paesi confinanti, marci e poverissimi. Tutta l’Africa occidentale e Centrale, dalla Costa d’Avorio fino al Gabon ed al Togo fu elettrizzata dall’esempio del Burkina Faso. Ma alcuni ambienti francesi, tutori e complici di quei regimi corrotti, non potevano tollerarlo. Bisognava uccidere il profeta Thomas Sankara».
 
Burkina Faso. 18 novembre. Onesto, coraggioso e degno di rispetto, Sankara era anche un uomo diverso dagli schemi stereotipati del rivoluzionario terzomondista. Un uomo che suonava la chitarra elettrica, che amava cenare a casa con i suoi vecchi amici –come quel Compaorè che ne decreterà la morte–, che verrà  ucciso mentre in tuta e scarpette partecipava all’ora dello sport di massa insieme alla sua gente, al suo popolo. Un uomo che aveva organizzato uno dei più belli e vitali Festival del cinema Panafricano. Un’esperienza straordinaria in un paese in cui il problema era sempre stato la pura sopravvivenza, ed in cui ora si parlava di cultura, si chiamavano a raccolta grandi registi da tutto il mondo per dare vita a un festival giudicato indimenticabile sul piano artistico e umano. Un uomo che aveva cancellato privilegi e sprechi della classe politica, che per recarsi all’estero usava fare l’aereostop, ovvero farsi venire a prendere da altri capi di Stato in viaggio verso la stessa meta. Sankara tagliò via le auto di lusso: lui e tutti i ministri viaggiavano su più economiche e modeste Renault. A tutti i dirigenti veniva chiesto, un giorno la settimana di lavorare nei campi creati a questo scopo vicino ai ministeri. La ragione? Sankara riteneva che chiunque dovesse amministrare un paese nel quale la popolazione è per 90% contadina, non poteva capire il suo popolo senza conoscerne la realtà quotidiana e la fatica. Un uomo che parlava di cancellazione del debito, di guerre sporche e di un terzo mondo crocevia di ogni traffico di armi e rifiuti, e che serbava progetti di riforestazione e tutela della natura, di riscatto delle donne e dei poveri. Un uomo che nel corso di un’intervista ebbe a dire: «Della morte me ne sono fatto una ragione. Sia se morirò vecchio da qualche parte a leggere libri, sia se accadrà in modo violento, dal momento che abbiamo molti nemici. Se si accetta la morte, è solo una questione di tempo. Verrà, oggi o domani non ha importanza». Onore a Thomas Sankara!

Ruanda / USA. 18 novembre. Gli Stati Uniti sono accusati di aver sostenuto il Fronte patriottico ruandese (FPR) del colonnello Theoneste Bagosora, chiamato a deporre davanti al Tribunale internazionale per i crimini in Ruanda. Bagosora ha affermato che Prudence Bushnell, sottosegretario per le questioni africane, gli disse al telefono che l’esercito ruandese non avrebbe mai potuto sconfiggere i ribelli del FPR e che quindi era meglio arrendersi. «Dopo quella telefonata ho capito che nel conflitto Washington sosteneva il FPR», ha detto Bagosora, capo di gabinetto del ministero della difesa all’epoca dei massacri, ritenuto uno degli ‘architetti del genocidio’. Il Ruanda fu teatro, nel 1994, di una guerra civile per il potere politico tra il governo Hutu di Habyarimana, sostenuto dalla Francia, ed il Fronte Patriottico Ruandese (FPR) dei Tutsi, sostenuto economicamente e militarmente da Washington. Dietro il conflitto etnico, si celava il conseguimento di obiettivi geopolitici. Sia la CIA che i servizi segreti francesi ne erano coinvolti. Negli anni che precedettero le stragi di massa del 1994, si organizzò in Uganda il FPR, guidato prima da Fred Rwigyema e poi da Paul Kagame, attuale presidente del Rwanda. L’imputato ha chiesto ai giudici del Tribunale di acquisire agli atti la conversazione con il diplomatico statunitense. Non è la prima volta che Bagosora punta il dito contro gli USA da quando, lo scorso 24 ottobre, ha iniziato a deporre al Tribunale, che lo ha incriminato, insieme ad altri tre co-imputati, per genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità.
 
Ruanda / USA. 18 novembre. Michel Chossudovsky, docente di economia all’Università di Ottawa, nel suo saggio del 2003 The Globalization of Poverty and the New World Order (che aggiorna La globalizzazione della povertà, Edizioni Abele, 1997), ha spiegato come la guerra civile tra Hutu e Tutsi in Ruanda fosse stata innescata dall’aggravarsi della crisi economica, a sua volta da ricondurre al crollo del prezzo internazionale del caffè ed all’imposizione di riforme del Fondo Monetario Internazionale: tutti e due eventi voluti dagli USA. Sin dall’inizio della guerra civile in Ruanda (1990), il progetto segreto di Washington era di stabilire una propria sfera d’influenza in una regione dominata storicamente da Francia e Belgio. Il progetto USA era di sostituire la Francia attraverso il sostegno del Fronte Patriottico Ruandese e le forniture di armi al suo braccio militare, l’Armata Patriottica Ruandese. Michel Chossudovsky, in uno studio condotto insieme all’economista belga Pierre Galand, ha indagato sull’uso del debito estero del Ruanda nel 1990-94 per finanziare militari e paramilitari e posto l’attenzione sul ruolo centrale dell’Uganda nelle strategie imperialiste USA in Africa.
 
Uganda / USA. 18 novembre. «Dalla metà degli anni ’80 il governo di Kampala, in mano al Presidente Yoweri Museveni, era diventato per Washington il simbolo della democrazia in Africa. L’Uganda rappresentava inoltre una base di lancio per i movimenti di guerriglia sostenuti dagli USA in Sudan, Ruanda e Congo. Il Maggiore Generale Paul Kagame (attuale presidente ruandese, ndr) era divenuto capo dei servizi segreti delle forze armate dell’Uganda, addestrato dal comando militare USA e presso lo Staff College (CGSG) di Leavenworth (Kansas), specializzato in combattimento e strategia militare (…) La militarizzazione dell’Uganda era parte integrante della politica estera USA». Chossudovsky rileva come, «nell’ambito dell’Africa Crisis Reaction Initiative (ACRI), gli ufficiali ugandesi venivano addestrati dalle forze speciali USA, in collaborazione con un’impresa di mercenari, la Military Professional Resources Inc. (MPRI), che aveva un contratto col Dipartimento di Stato USA». Questa società «aveva già addestrato l’UCK e le forze armate croate durante la guerra civile in Jugoslavia, e più recentemente le forze colombiane nell’ambito del Piano Colombia».
 
Uganda / USA. 18 novembre. Frattanto cresce il debito estero ugandese. «Quando Museveni diventò presidente nel 1986, il debito estero dell’Uganda era di 1,3 miliardi di dollari. Con l’arrivo di denaro fresco, il debito estero si avvolse in una spirale che lo portò a diventare quasi il triplo, 3,7 miliardi nel 1997 (...) Dove sono finiti i soldi? (…) La Banca Mondiale era responsabile del controllo del bilancio dell’Uganda su delega dei creditori (…) Ogni singola voce di spesa –incluso il bilancio del Ministero della Difesa– era aperto al controllo della Banca Mondiale. Nonostante le misure di austerità (imposte esclusivamente alle spese civili), i finanziatori hanno permesso che la spesa militare aumentasse senza problemi». I soldi, infatti, finivano per finanziare la Forza di Difesa del Popolo Unito (UPDF, armata militare ugandese), «che a sua volta era coinvolta in operazioni militari in Ruanda e Congo. Il debito estero dell’Uganda veniva usato per finanziare queste operazioni militari per conto di Washington mentre il paese e il suo popolo ne pagavano il conto. Col tagliare le spese sociali, le misure di austerità avevano facilitato lo spostamento di fondi verso i programmi militari».
 
Ruanda / USA. 18 novembre. Quello appena descritto non fu l’unico intreccio tra debito estero, operazioni militari e guerre nella martoriata Africa centrale. Nell’agosto 1990, le forze ugandesi invadono il Ruanda, avviando così, ben prima dei massacri del 1994, la “guerra civile”. Il governo del presidente filofrancese Juvénal Habyarimana, per tutta risposta,  s’indebita con varie istituzioni finanziarie e governi esteri, con l’obiettivo, tra l’altro, di finanziare la temibile milizia Interhamwe. «Con crudele ironia i due avversari della guerra civile erano finanziati dalle stesse persone, con la Banca Mondiale a fare da controllore», rileva Chossudovsky. In teoria, i fondi erano stati stanziati dai donatori per sostenere lo sviluppo economico e sociale del Ruanda. Nella pratica, in violazione degli accordi firmati con i finanziatori, vennero acquistati grandi quantità di machete ed altri armi, qualificate come importazioni di “prodotti civili”: «queste spese (…) sono state incluse nel bilancio del governo, che era sotto la supervisione della Banca Mondiale (…) Mai ci si preoccupò del modo in cui i soldi venivano spesi (…) I massacri di civili non erano neppure menzionati. Dal punto di vista dei finanziatori non era successo niente. Infatti i ‘rapporti di completamento’ della Banca Mondiale non ammisero l’esistenza di una guerra civile che nel 1994 (...) Il governo Habyarimana veniva invece elogiato per aver fatto importanti e genuini sforzi… specialmente nel 1991… per ridurre lo squilibrio finanziario domestico ed estero, eliminare le distorsioni che impediscono la crescita dell’esportazione (…) ed introdurre meccanismi di mercato».
 
Ruanda / USA. 18 novembre. Prosegue Chossudovsky: «Nel 1995, appena un anno dopo i massacri etnici del 1994, i creditori esteri del Ruanda ebbero qualche discussione con il governo del FPR retto dai Tutsi circa il debito usato dal precedente regime per finanziare i massacri. L’FPR decise di riconoscere pienamente la legittimità dei ‘debiti odiosi’ del 1990-94. L’uomo forte del FPR, il vicepresidente Paul Kagame (attuale presidente, ndr) diede istruzione al governo di non interessarsi dell’argomento né di contattare la Banca Mondiale. Sotto la pressione di Washington, il FPR non sarebbe entrato in alcun tipo di negoziato, tanto meno in un dialogo informale con i finanziatori. La legittimità dei debiti della guerra non è mai stata messa in discussione. Invece i creditori hanno messo a punto delle proc