Francia: ma se alla fine vincessero gli astensionisti?
di Alain de Benoist - 30/04/2007
In Francia le elezioni riservano spesso
delle sorprese. Nell’aprile del 2002, era
la presenza di Jean-Marie Le Pen al
secondo turno dell’elezione presidenziale.
Nel maggio 2005, era la vittoria del “no” al
referendum sul progetto di Costituzione
europea. Quest’anno, ora che Chirac ha
confermato che non si presenterà e che la
lista definitiva dei candidati è stata pubblicata
dal Consiglio costituzionale, la sorpresa
è arrivata dall’ascesa sorprendente dell’ex
ministro centrista Francois Bayrou che
al momento attuale raggiunge nei sondaggi
quasi lo stesso punteggio di Ségolène Royal
e Nicolas Sarkozy (tra il 22% e il 24% dei
voti), quando all’inizio della campagna elettorale
ne raccoglieva solo il 6%.
Due le cause principali di questa crescita. Il
deputato del collegio Pirenei-Atlantico ha
saputo prima di tutto attuare una strategia
di “raggruppamento” cui gli elettori sono
sensibili e, soprattutto, rispondere al sentimento
che elettori sempre più numerosi
esprimono (il 60% nei sondaggi più recenti)
secondo cui la divisione sinistra-destra non
corrisponde più a niente. Durante tutta la
sua campagna, Bayrou non ha mai smesso
di criticare il “confronto sterile” della sinistra
e della destra, in cui ravvede la causa
principale della crisi delle istituzioni francesi,
e di contestare il monopolio del “duo”
Royal-Sarkozy all’interno del “sistema”.
Ricorrendo ad un linguaggio populista, ha
anche denunciato il “complotto mediatico”
di cui si ritiene vittima, ha richiesto la rivolta
dei Francesi contro la “collusione del PS
e dell’UMP”, ricordando brevemente le sue
origini contadine e bearnesi per presentarsi
come candidato delle regioni contro Parigi.
La seconda ragione è che i sondaggi lo fanno
regolarmente apparire in grado di battere
al secondo turno sia Sarkozy che Royal,
mentre questi stessi sondaggi danno regolarmente
Sarkozy vincente sulla candidata
socialista. E perciò parecchi simpatizzanti
di quest’ultima ritengono più utile votarlo
direttamente. Gli avversari di Francois Bayrou
non gli contestano la volontà di indipendenza,
ma gli rimproverano di non avere un
programma e di voler instaurare un regime
da “terza forza” la cui instabilità - ritenuta
ineluttabile - ricorderebbe i momenti peggiori
della IV Repubblica. Rimprovero
ingiustificato, per lo meno riguardo al primo
punto. Bayrou, che ritiene che l’Europa
debba affermare la propria indipendenza
nei confronti degli Stati Uniti, rimprovera a
Sarkozy sia il suo allineamento a Washington
che la sua intenzione di sottoporre
solo al Parlamento un nuovo progetto di
Costituzione europea, sottraendolo così al
voto popolare dei francesi. Inoltre è contrario
all’ingresso della Turchia nell’Unione
europea.
È chiaramente ancora troppo presto per
sapere se l’ascesa di Bayrou continuerà. Le
dichiarazioni di voto a suo favore sono molto
volatili e il 55% degli elettori non ha
ancora fatto la sua scelta. Fin d’ora, perciò,
l’idea che nel secondo turno si affronteranno
automaticamente Royal e Sarkozy - scenario
accettato all’inizio della campagna da
tutti i media - non appare più così sicura.
Invece, non c’è alcun rischio che la sorpresa
possa venire dall’estrema sinistra o dai
verdi. Non solo il partito comunista, che è
stato fino a non molto fa uno dei più grandi
partiti di Francia, non è neppure sicuro -
alla fine di un declino davvero storico - di
raggiungere il 3% dei voti, ma nessuno dei
tre candidati trotzkisti si attesta per il
momento a più del 2%. L’ecologista Dominique
Voynet, che aveva ottenuto il 5,2% nel
2002, farà fatica quest’anno a superare
l’1,5%. Arlette Laguiller,
che aveva raggiunto il 5,7% dei voti,
è data intorno al 2%. L’estrema sinistra
(14,7% dei voti in totale nel 2002) è rimasta
vittima dapprima delle sue divisioni -
incapace di presentare un candidato unico,
ha preferito abbandonarsi a un “concorso
per nani da giardino”, per riprendere
una definizione di Olivier Besancenot,
candidato della Lega comunista rivoluzionaria
- e dopo della volontà del
“voto utile” di coloro che, a sinistra,
attribuiscono alla dispersione dei loro
voti la presenza di Le Pen al secondo turno
del 2002.
Infine, la sorpresa può provenire ancora
da Jean-Marie Le Pen? A dire il vero,
tenuto conto del punteggio di Royal, di
Sarkozy e Bayrou, è difficile immaginare
come possa il Presidente del Fronte
nazionale, per il momento accreditato
intorno al 14% dei voti, raggiungere di
nuovo il secondo turno. Ma potrebbe
essere che il suo impatto sia sottostimato.
Nel febbraio 2002, non raccoglieva
che circa l’8% delle
dichiarazioni di voto, mentre ne ha
ottenuto il 16,8% in aprile. Un sondaggio
apparso su Le Monde lo
scorso dicembre ha d’altronde rivelato
che più di un francese su quattro
(26%) si dichiara ormai d’accordo
con le sue idee (contro il 15%
del 1999) e che soltanto il 34% giudica
le sue posizioni “inaccettabili”
(contro il 48% del 1997).
Ma è anche vero che l’85% degli
elettori di Le Pen sarebbe pronto a
votare al secondo turno a favore di
Nicolas Sarkozy, la cui recente proposta
di creare un Ministero dell’Immigrazione
e dell’Identità
nazionale non è estranea al suo
desiderio di sedurre l’elettorato lepénista.
Gli osservatori concordano nel dire che
nuove categorie di popolazione, come i
giovani operai, gli abitanti delle città
medie, ma anche gli elettori derivati dall’immigrazione,
sarebbero pronte a votare
Le Pen il prossimo aprile. Un “effetto Le
Pen” sarebbe anche prevedibile nelle
“città” delle banlieues, dove il 17% dei
giovani provenienti dall’immigrazione
aveva già votato per il Fronte nel 2002.
Ciò spiega perché il discorso del Fronte
nazionale si sia ammorbidito da qualche
mese a questa parte. Sui suoi manifesti si
vedono giovani e sorridenti “Beurettes”
(francesi di origine araba nella lingua
delle banlieues). “Francesi di origine
straniera, vi invito ad unirvi a noi”, ha
dichiarato Le Pen in un discorso pronunciato
a Valmy lo scorso 20 settembre, prima
di rendere omaggio, a fine febbraio a
Lille, alle lotte sociali condotte da un
secolo contro un “capitalismo predatore”.
La radio Beur-Fm ha invitato di
recente Marine Le Pen a esprimere la
propria posizione. “Se al secondo turno
Sarkozy affronterà Le Pen, io voterò Le
Pen”, dichiara il cantante rap nero Rost,
animatore dell’associazione “Banlieues
attive”. Vicino al commediografo nero
Dieudonné, Ahmed Moualek, proprietario
del sito internet “La Banlieue parla”, ha
preso posizioni analoghe. Secondo Farid
Smahi, membro dell’ufficio politico del
FN dal 1998, il numero degli aderenti al
Fronte di origini maghrebine sarebbe
passato dai 1.000 del 2002 ai 2.700 di
oggi.
Quanto allo scrittore Alain Soral, ex
comunista che è entrato a far parte da
qualche mese dello stato maggiore della
campagna di Le Pen, esalta l’“alleanza
rivoluzionaria” dei giovani delle banlieues,
vittime della “autorità neocoloniale
social-democratica”, e delle classi
medie minacciate dall’“estrema destra
padronale” e del “neocapitalismo mondializzato”.
Convinto che “il popolo capisca
più in fretta dell’élite”, arriva persino
a dire che “se Karl Marx fosse ancora
vivo, voterebbe per il Fronte nazionale!”.
Anche il settimanale del Fronte, National-
Hebdo, afferma che “l’interesse storico
del neo-proletariato scaturito dall’immigrazione”
è di allearsi con le classi
medie, aggiungendo che “gli Arabi e gli
Africani sono sempre stati e sono ancora
popoli di destra” e che “in modo estremamente
naturale, la congiunzione
dovrebbe verificarsi tra i sani valori
popolari e aristocratici - sono sempre gli
stessi - e il substrato culturale dei nostri
vicini di oltre Mediterraneo, uniti contro
una società nella quale l’uomo è divenuto
merce”. Una svolta che non è stata sempre
ben accetta dalle frange più estremiste
del movimento, per cui i più cattolici
denunciano il “lassismo” di Marine Le
Pen a proposito di aborto (mentre altri
deplorano le sue prese di posizione “giacobine”,
ostili alle lingue regionali e
all’“Europa delle regioni”).
Importante per la posta in gioco, la campagna
elettorale presenta sotto molti
aspetti uno sfondo vuoto. Régis Debray,
in un articolo apparso a fine febbraio su
Le Monde
, notava che il tratto comunedegli uomini politici di oggi è che hanno
più competenza che carattere, che in
materia di politica estera si proclamano
tutti sostenitori dei diritti dell’uomo e che
“ciò che non appare in televisione, secondo
loro, non esiste”. Egli concludeva:
“La questione cruciale oggi è di sapere se
l’Europa può, di fronte al Sud e all’Islam,
costituire un’alternativa all’America, o se
l’Occidente è condannato ad avere un
solo volto, quello dell’Impero. Nicolas
Sarkozy ci invita a un diretto Parigi-Washington.
Con Ségolène Royal, l’aereo
farà pudicamente scalo a Oslo o a Copenaghen”.
Ciò che, al contrario, è interessante in
queste elezioni è il riposizionamento di
tutte le famiglie politiche. Ségolène Royal
si impegna in ogni modo a prendere le
distanze dal partito socialista. Nicolas
Sarkozy vuole innanzitutto evidenziare la
differenza esistente tra lui e Jacques Chirac,
e per l’occasione cita Léon Blum o
Jean Jaurès. Francois Bayrou, che non ha
esitato a votare la censura contro il
Governo qualche mese fa, si arrocca su
posizioni che non hanno granché in
comune con la vecchia Democrazia cristiana
da cui è derivato il suo partito.
Marie-Georges Buffet è una candidata
comunista che non parla mai di comunismo,
preferendo presentarsi come la
portavoce della “sinistra antiliberale
e popolare”. Ancora, i trotzkisti
non citano mai Trotzky, proprio
come Sarkozy, candidato liberale,
che si impegna a non parlare di
“liberalismo”. Tutto ciò fa prevedere
profonde riclassificazioni dopo lo
scrutinio. Inoltre un eventuale successo
di Francois Bayrou (che ha
già annunciato l’intenzione di creare
un nuovo partito in caso di vittoria)
determinerebbe un inevitabile
sconvolgimento del paesaggio politico
francese.
I sondaggi più recenti mostrano che
il 71% dei francesi ha una “cattiva
opinione” dei suoi politici, che il
76% non ha fiducia di loro, che il
49% li giudica “corrotti” e che il
70% non dà fiducia né alla sinistra né
alla destra per governare il Paese. Questa
distanza che divide la classe politica
di ogni tendenza dall’elettorato - e
soprattutto dall’elettorato popolare dai
redditi più bassi - spiega la lievitazione
crescente di ciò che il politologo Dominique
Reynié definisce “la dissidenza elettorale”,
che corrisponde alla somma di
coloro che non votano, di coloro che votano
scheda bianca o annullano la scheda e
di coloro che votano per partiti che non
hanno la benché minima possibilità di
arrivare al potere. Questa “dissidenza”
rappresentava il 19,4% degli elettori nel
1974. È balzata al 51% all’epoca delle
presidenziali del 2002, e persino al 55,8%
alle elezioni legislative successive, configurandosi
in tal modo più come una diserzione
civica.
“Il voto di protesta - sostiene Dominique
Reynié - ha ceduto il passo ad un voto di
perturbazione che ha per scopo il blocco
del sistema, come se gli elettori si comportassero
come hackers informatici!”.
“La tappa successiva - aggiunge - sarà
l’espressione di questa dissidenza al di
fuori del campo elettorale”. Non ci siamo
ancora giunti.