Turchia divisa all’appuntamento con Bruxelles
di Roberto Zavaglia - 30/04/2007
Il barbaro assassinio di trecristiani nella città di
Malatya conferma che nelle
viscere della Turchia si agita
ancora un residuo di fanatismo
religioso, sicuramente minoritario,
ma impossibile da ignorare.
A volere la Turchia nell’Unione
europea sono, però,
quelli che il fanatismo islamico,
vero o presunto, denunciano
come il maggior pericolo
della nostra epoca. A cominciare
dall’Amministrazione statunitense
che, ingerendosi negli
affari interni europei, caldeggia
la candidatura di Ankara, e da
Israele, l’altro grande alleato
degli USA in Medio Oriente,
che con la Turchia ha stretto un
patto militare. Fra i partiti e le
personalità del Vecchio Continente
sono, poi, quelli maggiormente
euroscettici che
auspicano l’ingresso di una settantina
di milioni di musulmani
in una comunità già dilaniata
dalle divisione accentuatesi
dopo gli ultimi allargamenti.
Per rimanere all’Italia, sono a
favore di Ankara il centrodestra
e gli esponenti teocon
caserecci che si raccolgono
intorno al quotidiano
Il Foglio.In pratica, a credere nella “Turchia
europea” sono quelli che
intendono la Comunità come
una mera entità commerciale e
si rallegrano delle sue divisioni
politiche che ne limitano la
capacità di azione autonoma. È
“curioso” che molte di queste
persone invochino la difesa dei
valori cristiani, mentre appoggiano
un Paese dove la libertà
religiosa è, tuttora, piuttosto
limitata. La contraddizione viene
spiegata con il fatto che
l’ingresso in Europa favorirebbe
la laicizzazione del Paese e
dimostrerebbe che l’Occidente
non nutre preconcetti verso il
mondo islamico. Peccato che i
problemi l’Occidente li ha
soprattutto con gli arabi i quali,
per motivi storici e problematiche
attuali, certo non amano i
turchi.
La Turchia, a nostro avviso,
non deve entrare nella Ue semplicemente
perché non è un
Paese europeo e ha una storia,
un’identità e, non ultimo, una
condizione geopolitica incompatibili
con il progetto comunitario.
Oggi la Repubblica voluta
da Ataturk è divisa e la sua
stabilità è minacciata da tendenze
contrapposte le quali, al
loro stesso interno, appaiono
irte di contraddizioni. Al
governo c’è Tayyp Erdogan,
con il suo Partito della Giustizia
e dello Sviluppo (Akp), che
è sorto sulle ceneri di formazioni
islamiste sciolte dalle
autorità e oggi si presenta
come un movimento musulmano
moderato, rispettoso della
laicità dello Stato: una sorta di
Democrazia Cristiana al kebab.
La sola possibilità che l’Akp
possa impadronirsi anche della
Presidenza della Repubblica
ha, però, fatto scendere in piazza,
alcuni giorni fa, centinaia di
migliaia di persone, appartenenti
alla parte di società più
orientata in senso laico, le quali
non si fidano di Erdogan e
denunciano un’islamizzazione
strisciante. Questi ambienti
sono a favore dell’ingresso della
Turchia in Europa, eventualità
avversata da una percentuale
crescente di cittadini,
come lo è il Governo che contestano.
A complicare ulteriormente
le cose, questi movimenti,
che in Occidente verrebbero
etichettati come progressisti,
devono guardare con
speranza al ruolo dei militari,
storici custodi della laicità
kemalista.
Dunque, progressisti oggettivamente
alleati con l’esercito che
ha un passato in cui non mancano
i colpi di Stato. I vertici
militari si sentono emarginati
da Erdogan il quale, proprio
per rispettare i criteri europei,
ne ha sminuito le prerogative,
anche con le leggi che mirano
a un maggior rispetto dei diritti
umani. Un bel cortocircuito,
non c’è che dire, accentuato
dalle divisioni fra la classe
media cittadina dagli stili di
vita globalizzati e le masse
rurali ancorate ai valori tradizionali.
Sullo sfondo, a incombere
come questione cruciale, c’è la
dimensione geopolitica del
Paese, con la vecchia questione
curda, rinfocolatasi dopo la
caduta del regime di Saddam,
che ha permesso all’Upk di
Talabani e al Pdk di Barzani di
controllare gran parte dell’Iraq
del Nord. Nella regione di
Mosul, in quella ricca di giacimenti
petroliferi di Kirkuk e
altrove comandano adesso i
capi dei peshmergha curdi, i
quali non fanno mistero di
voler procedere verso un’indipendenza
de facto.
Nelle due maggiori città di
quell’area, però, erano i turcomanni
a costituire la maggioranza
prima che le milizie curde
facessero affluire oltre centomila
loro connazionali,
abbandonandosi anche a violenze
contro gli esponenti dell’etnia
di origine turca. I turcomanni
o turkmeni sono una
popolazione affine, linguisticamente
e culturalmente, ai turchi
e agli azeri, che, nella storia
irachena, ha subìto la discriminazione
dello Stato centrale
e, adesso, si troverebbe ostaggio
dei curdi, qualora gli USA
decidessero, come è stato ipotizzato,
di dividere il Paese in
tre parti.
Ankara si è a lungo disinteressata
dei problemi dei turcomanni,
“scoprendo” la questione
solo quando la creazione
delle “no fly zone” nell’Iraq
settentrionale fece presagire la
volontà dei curdi di formare
uno Stato indipendente. Questa
eventualità è fortemente avversata
dalla Turchia che la giudica
un precedente pericoloso,
capace di spingere sulla stessa
strada la propria minoranza
curda interna. Ankara, a dimostrazione
di quanto sia sensibile
alla questione, è entrata in
attrito con gli alleati statunitensi,
rifiutandogli le basi per l’invasione
in Iraq.
L’esercito turco ha incominciato
la nuova offensiva di primavera
contro i curdi, minacciando
addirittura di varcare il confine
con l’Iraq qualora lo ritenesse
necessario. Il ruolo delle
forze armate è ancora una volta
cruciale: la preoccupazione di
garantire la laicità dello Stato e
le tendenze nazionalistiche
potrebbero spingere i generali a
un nuovo intervento nella vita
politica, probabilmente non
attraverso un golpe, ma con
forti condizionamenti. In Europa,
però, c’è ancora qualcuno
che vorrebbe porre sulle spalle
della Ue il fardello delle contraddizioni
della Turchia, anche
se il suo cammino verso l’adesione
appare ora rallentato.
Non possiamo dire che si tratta
di irresponsabili perché sanno
perfettamente qual è il loro ruolo:
quello dei sabotatori.