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I finti "antagonismi" utili ai dominanti

di Gianfranco La Grassa - 02/05/2007

 

 

Quando il capitalismo era borghese – in particolare durante l’epoca monocentrica in cui era preminente l’Inghilterra in quanto primo paese a sviluppo capitalistico, non a caso preso a modello da Marx per la sue ipotesi teoriche relative al modo di produzione capitalistico – la classe dominante era appunto la borghesia, che è stata una grande classe, capace di esprimere e alimentare un ceto intellettuale di rilievo che le assicurava, sul piano culturale, una penetrazione egemonica di forte presa.

Come tutte le vere classi dominanti, essa sviluppò nel suo seno grandi correnti ideologiche contrapposte, che soddisfacevano lo spirito di antagonismo tra gruppi sociali diversi, ma senza uscire dalla cornice riproduttiva dei rapporti capitalistici. Penso ad es. all’illuminismo con il suo razionalismo scientifico e la sensazione che l’Umanità potesse ormai affrancarsi da ogni limite naturale; nulla era inconoscibile in linea di principio, occorreva solo del tempo e tutto sarebbe stato messo a giorno dalla potenza della Ragione. La reazione romantica fu un’altra grande corrente culturale e, poiché si poneva in antitesi rispetto alle pretese del razionalismo, fu spesso scambiata come critica tout court della società; essendo “antiborghese”, alcuni erano convinti fosse pure anticapitalistica, mentre il romanticismo nemmeno sfiorava il problema del mutamento radicale dei meccanismi riproduttivi dei rapporti strutturanti quella storicamente determinata forma di società.

Fu il marxismo – e il “movimento operaio” in cui pretese di incardinarsi – a voler mettere in discussione con radicalità la riproduzione della società capitalistica, sentendosi però erede dell’illuminismo, della mera razionalità scientifica, e nutrendo la convinzione – soprattutto con la linea Engels-Kautsky – che tutti i “misteri” della Natura sarebbe stati disvelati entro tempi ragionevoli, che l’oscurantismo della religione, e dell’ideologia in genere, si sarebbe dissolto come nebbia al Sole. E’ un po’ patetico, per fare un solo esempio, leggere i passi di Engels in cui questi sostiene, relativamente alla cellula, che una volta conosciuta integralmente l’intera sua costituzione interna, si sarebbe dileguato ogni problema di inconoscibilità della “cosa in sé”; e ciò che era valido per la cellula, lo sarebbe stato per qualsiasi altro oggetto o processo.

Non insisto sul problema perché è evidente lo scadimento culturale del marxismo divenuto “scienza e filosofia” per spiriti molto semplici e “schematici”, vera ideologia di una “classe” che in realtà non è mai esistita come tale; sono esistiti solo gli operai, una frazione – percentualmente sempre minore – della società, progressivamente integrata nei meccanismi riproduttivi capitalistici con ruoli e funzioni nettamente subordinati, con una cultura approssimativa (molto più povera e scheletrica di quella contadina, pur essa subordinata) e incapace di esprimere un ceto intellettuale ed una propria egemonica “visione del mondo”. Ovviamente non sono stati solo questi – e nemmeno furono i più importanti – i motivi della sconfitta del “comunismo marxista” (del “socialismo scientifico”); si tratta solo del coté culturale di una debolezza strutturale che tale comunismo nascose dietro una spessa coltre ideologica, adatta a far emergere gruppi dirigenti particolarmente elitari e autoritari, privi della base sociale (il “soggetto della rivoluzione”) di cui si pretendevano avanguardia; base sociale la cui formazione era illusoriamente attribuita ad un mai verificatosi processo oggettivo, intrinseco al movimento del capitale. Nascosti – inconsapevolmente, sia chiaro – dietro questa fumisteria ideologica, tali gruppi dirigenti attuarono politiche anche importanti – ad es. la creazione di una potenza quale fu l’URSS e altre – ma che non avevano nulla a che vedere con il preteso comunismo (o “costruzione del socialismo”).   

 

Il tramonto, ormai tendente alla notte più oscura, del comunismo marxista è ormai del tutto evidente, salvo che a sparuti gruppetti cui faccio fatica ad attribuire la buona fede; a mio avviso, la maggioranza (di questi pochi) è costituita da cialtroni e arruffoni che cercano di amministrare i residui sentimentali di un’epoca che fu (e che ebbe le sue glorie, non fu affatto una sequenza di crimini come altri mascalzoni, anticomunisti, sostengono) per ottenere comunque quel minimo seguito elettorale in grado di consentire qualche piccola prebenda, qualche posticino ben pagato nelle “assemblee elettive” o negli anfratti di un sistema pubblico pletorico e legato a clientele politiche, ecc. Poi, al momento opportuno, c’è sempre pronto il “salto della quaglia” portandosi dietro, magari in sede locale, piccole dotazioni di voti con ulteriori “pagamenti” da parte di chi comanda (miseri guadagni, ma sufficienti per individui vili e meschini, incapaci di altro “lavoro” se non quello di “tradire”). Per chi ha presenza, aggressività, scilinguagnolo, una moralità molto elastica e pronta alle mille giravolte “ordinate” dai “padroni”, vi sono posti negli ambienti giornalistici e della TV, in case editrici e altri organismi “culturali”. C’è inoltre sempre qualche enclave universitaria, vero “magazzino dei rifiuti”. Non escludo ovviamente l’esistenza di qualche “comunista marxista” in buona fede; ce ne saranno perfino tra cent’anni così come oggi ci sono ancora anarchici, e qualcuno leggerà pure Bakunin; quanto a Stirner (più serio) avrà certo alcuni leali aficionados. Perché quindi escludere che qualche marxista retrò, ma onesto, possa esistere? Tuttavia, mi permetto di credere che non abbia capito molto di Marx e tanto meno di Lenin. Più che di marxisti, si è in presenza di trotskisti o luxemburghiani o bordighisti, ecc., che hanno a che vedere con Marx (e Lenin) tanto quanto il caffè d’orzo ha a che vedere con il vero caffè.

In un’epoca in cui i dominanti capitalistici hanno rivinto su tutta la linea; in un’epoca in cui i paesi ex socialisti, o quelli che tuttora mantengono tale etichetta (Cina ad es.), hanno scoperto nuove forme di sviluppo mercantile e imprenditoriale (di fatto, dunque, capitalistiche esse stesse); in quest’epoca, i dominanti “organizzano” gli accaniti dibattiti al loro interno, presentando alcune correnti culturali come “il meglio” che si possa avere oggi per combattere il capitalismo. Esattamente come all’epoca dello scontro culturale tra illuminismo e romanticismo (con le infinite variazioni sui due temi, e anche le commistioni “feconde” tra i due). Solo che, come sempre avviene nella storia, la seconda (e terza, ecc.) volta che un fenomeno si presenta, esso assume forme sempre più squallide e meschine, che segnalano un’era di reale decadenza. Non si illudano, tuttavia, i sinceri anticapitalisti: quest’ultima non preannuncia la fine del loro “nemico storico”, come si illuse tanto tempo fa Lukàcs nella Distruzione della ragione, testo che in realtà illustrava solo la fine del capitalismo borghese e la transizione al più banale e meno colto, ma ancora più potente e resistente, capitalismo dei funzionari (strategici) del capitale.

Oggi c’è solo l’imbarazzo della scelta tra le correnti culturali dei dominanti capitalistici: antitetiche e insieme complementari (come disse il solito Lukàcs: in solidarietà antitetico-polare). Cominciamo proprio con la divisione degli schieramenti politici in destra e sinistra. Il comunismo non era corrente di sinistra. Vergogna a quei mascalzoni sedicenti comunisti che sostengono di essere di sinistra. Ai miei tempi, la sinistra era Saragat, il “traditore” e scissionista di Palazzo Barberini; i comunisti stavano da tutt’altra parte. Essi divennero presto dei meri piciisti e allora certo iniziò la loro trasformazione in “sinistra”. Perché la sinistra, storicamente, è sempre stata una corrente dei dominanti, capace di infiltrarsi nelle file del movimento operaio per condurlo, politicamente, entro l’alveo della riproduzione capitalistica, mediante lotte – inizialmente “dure” e poi sempre più attutite – esclusivamente interne alla sfera della distribuzione, della ripartizione della “torta” prodotta capitalisticamente. I marxisti avrebbero dovuto trarne la lezione (e Lenin aveva iniziato a trarla, ma si arrestò a metà strada): la classe operaia non è in sé rivoluzionaria, non esiste processo oggettivo che la porti ad essere soggetto della trasformazione del capitalismo in comunismo. Questa è la lezione della storia, non che i comunisti sono una forza di sinistra. Scemi o bugiardi quelli che non l’hanno ancora imparata. Destra e sinistra sono correnti (“antitetiche”) della riproduzione del dominio incontrastato assunto dai funzionari (strategici) capitalistici.

Altra solidarietà antitetico-polare è quella tra (neo)liberisti e (neo)keynesiani, tra i sostenitori del privato e quelli del pubblico, tra i cantori delle virtù del mercato lasciato a se stesso, senza vincoli di sorta, e quelli dell’interventismo statale. Ideologia, solo ideologia e ancora ideologia. Dibattiti interminabili, in cui (come fu per il romanticismo) alcuni furfanti tentano di far credere che essere neokeynesiani, favorevoli al pubblico e all’intervento statale (puro lassallismo, ideologia di un precoce “traditore” del movimento operaio, di un vero “sinistro” dell’epoca, bollato per quello che era dal comunista Marx) significhi essere già critici del capitalismo. Il furbo, e….(censura), Ferrara organizza un dibattito tra Giavazzi ed uno degli “antitetico-polari”; e molti ci cascano, credono di aver assistito al contraddittorio tra sostenitori e critici del capitalismo. Liberazione, abietto foglio di abietti finto-comunisti, inneggia alla “sconfitta” di Giavazzi come si trattasse di un successo dell’anticapitalismo. Questo l’immondezzaio in cui siamo immersi per la totale vittoria del capitalismo sul sedicente “socialismo reale”, che ha completato la trasformazione dei “comunisti” in sinistra!

E infine la rancida recita del contraddittorio tra sviluppisti e antisviluppisti, tra ambientalisti e sostenitori del puro e semplice progresso tecnico-scientifico. Qui raggiungiamo il vertice della mistificazione, del dirottamento di energie magari potenzialmente anticapitalistiche verso falsi obiettivi. Qui si misura come i dominanti capitalistici abbiano avuto partita vinta su tutta la linea, come essi impongano i dibattiti (antitetico-polari) che loro più convengono. Incredibile: Al Gore, legato a mille multinazionali, campione dell’ambientalismo. Egualmente Soros, fottuto capitalista (e tra i peggiori), che si fa critico del capitalismo (americano) nelle sue strategie odierne. E la nefasta Goldman Sachs, una delle più pericolose e devastanti (anche, e soprattutto, politicamente) istituzioni finanziarie – con il maggior numero di hedge fund, associazioni a vero delinquere, fonte di rischiosissimi imbrogli e pasticci, che potrebbero coinvolgerci in catastrofi finanziarie di ampiezza mai vista – che si fregia di tutte le abbondanti elargizioni versate a favore della ricerca di nuove fonti di energia e per altre iniziative di salvaguardia dell’ambiente. E si potrebbe continuare. 

Personaggi sconvolti dalla sconfitta del loro beneamato comunismo – e orfani di un’analisi marxista mai compresa se non nelle sue versioni di più becero economicismo o invece di mero culturalismo (ecco un’altra contraddizione antitetico-polare che fece degenerare il dibattito tra “marxisti”) – si gettano a pesce sul rapporto Uomo-Natura, perché non sanno più nemmeno tentare una nuova analisi dei rapporti capitalistici, della loro riproduzione (non solo economica e non solo politico-culturale); come, tanti anni fa, speravano nella “grande crisi” (un 1929 mille volte peggiore), adesso sperano nelle catastrofi ambientali. Non hanno mai tratto la lezione dal fatto che il 1929 non condusse per nulla affatto verso la ridiscussione del capitalismo, verso la sua disfatta; e così non si rendono conto che nessuna catastrofe ambientale aprirà gli occhi della “gente”, obnubilata da queste ideologie d’accatto, da questi spettacoli da circo, dove sia i difensori della “tecnoscienza” sia quelli dell’ambiente sono ampiamente pagati da grandi imprese capitalistiche: quelle che si avvantaggiano degli avanzamenti della scienza e delle tecnologie (in specie militari) che ne derivano, e quelle che fanno “decine di migliaia di milioni di miliardi” con gli studi e le tecnologie necessarie all’utilizzo di nuove fonti di energia (“pulita” e “non pericolosa”), a praticare l’agricoltura “biologica”, ecc.

E che dire poi del no profit che fa tanto profit; e delle banche etiche, sponsorizzate (dotate cioè di tanti bei soldini) da grandi imprese industriali e finanziarie, che si aprono comunque nuovi mercati, magari ancora poveri ma pur sempre importanti “al margine”, per arrotondare certi proventi e alleviare così dati “costi fissi”, per cominciare intanto a mettere radici politiche e istituzionali in paesi che potrebbero iniziare a svilupparsi fra non molto, al limite per impedire che certi spazi vengano occupati da concorrenti pericolosi (nel presente o nel futuro prossimo). Siamo in mezzo ad una nebbia ideologica di densità forse mai prima rilevata. Siamo turlupinati continuamente da questi scontri e lotte antitetico-polari, che vogliono farci credere all’esistenza di nuove frontiere dell’anticapitalismo, una volta finito a Patrasso il comunismo. Non a caso, a propagandare queste nuove fumisterie, vantaggiose per ampi settori capitalistici, chi troviamo? Soprattutto i fu comunisti diventati sinistra, i “traditori” di un movimento che purtroppo si fece passare per “operaio”, e vide tutti i dirigenti degli alti (spesso anche medi) vertici dello stesso provenire da strati sociali diversi da quelli operai; un movimento che si batté (e non sempre in mala fede, anzi!) per costruire il socialismo, per transitare al comunismo, e ottenne risultati assai diversi. Alla fine, i suoi vertici dirigenti hanno “tradito” veramente, hanno perso quasi tutta la loro base operaia (anche solo come collocazione sociologica, lasciando stare la “classe in sé”), e sono diventati sinistra, la malattia peggiore da cui possa essere affetta la nostra società.

 

Chi ha voglia di reiniziare a pensare una critica adeguata della riproduzione degli attuali rapporti sociali, deve essere contro le varie posizioni antitetico-polari in antagonismo paralizzante, che vengono foraggiate dai dominanti perché creano un clima culturale a loro del tutto favorevole. E’ necessario non essere più né di destra né di sinistra, né battersi per il liberismo o il keynesismo, per il pubblico o invece il privato, per il libero mercato o per l’intervento statale. E’ bene non dedicare più di qualche minuto al “cruciale” problema se i gay abbiano diritto di veder legalizzate le loro unioni e riconosciuto il diritto di allevare figli o se invece bisogna difendere la “sana e naturale” famiglia cristiana. E’ utile non accanirsi tanto sui dibattiti tra un Rubbia e un Battaglia, tra i sostenitori della difesa dell’ambiente (con le varianti della decrescita o invece dello “sviluppo sostenibile”) e quelli del massimo progresso scientifico-tecnico come soluzione di ogni problema. Non dico di ignorare questi temi e queste discussioni; semplicemente invito a dedicare ad altro la maggior parte della nostra attività di pensiero.

Da mesi Emilio Fede apre il TG4 con 10 minuti sulle catastrofi ambientali, sui mutamenti climatici, ecc. In ogni dove si sostiene che è da cent’anni, ma addirittura talvolta da duecento, che “questo” o “quest’altro” non si verificava. A parte il fatto che all’epoca della Rivoluzione francese (e per intere epoche successive) non esistevano rilevazioni meteorologiche e climatiche degne di questo nome, tali affermazioni, pur prese alla lettera, si distruggono da sole; perché, in senso proprio, significano che allora “questo” e “quest’altro” si erano già verificati un secolo fa o ancor più in là, quando il progresso scientifico-tecnico era cento volte più indietro di adesso. Basta con queste emerite stronzate! Si convoglino le energie intellettuali critiche verso la comprensione di che cos’è il capitalismo: sia considerandolo in generale, sia nell’articolazione geopolitica e geoeconomica delle sue varie parti componenti a livello globale. Bisogna capirne struttura e dinamica, da quali blocchi sociali è strutturato, di come essi si scompongano e ricompongano nelle varie formazioni particolari in sviluppo (ineguale) e di come queste siano conflittualmente articolate fra loro. Il marxismo ci ha lasciato una qualche eredità utile a tal fine, ma è quasi tutto da ripensare.

Smettetela con il conflitto Uomo-Natura, su cui avete sproloquiato all’epoca del Club di Roma (e dei Limiti dello sviluppo), sproloquiate adesso e continuerete a sproloquiare per i prossimi 50 o 100 anni, dicendo tutto e il contrario di tutto, vellicando le paure e le fobie della gente per fini che sono solo i vostri di politici e intellettuali legati ai (e pagati dai) vari gruppi dominanti in conflitto fra loro. E la si smetta anche con le balle della democrazia in pericolo e da riconquistare; e con il Bene Comune da conseguire. Non esiste attualmente, e non esisterà per altre intere epoche storiche, alcun bene comune, poiché esistono gruppi sociali con interessi diversi e che confliggono fra loro per soddisfarli. Si può certo augurarsi che, con il tempo e con trasformazioni sociali da conseguire tramite dure lotte per decenni e decenni futuri (e forse molto ma molto di più), si sia in grado di giungere al “giusto” ed “equilibrato” contemperamento di interessi contrastanti. Ma predicare, fin d’ora, un immaginario Bene Comune è falso e bugiardo; è proprio tipico di quella che è sempre stata la “sinistra”, una forza di inganno, di turlupinatura dei dominati affinché accettino la prevalenza dei dominanti, ai quali si suggerisce, nel contempo, di essere un po’ più buoni (e “democratici”), di usare la vaselina, di sfruttare il lavoro con discernimento, di non pretendere troppo e tutto d’un colpo, ecc.

Ancora una volta rifulge la grandezza di Lenin quando affermò che una forza critico-rivoluzionaria deve impiegare le sue migliori energie (anche e soprattutto intellettuali) ad educare sistematicamente le masse all’idea che non c’è cambiamento senza, in ultima analisi, la violenza. Lasciamo pure i coglioni, e i servi dei dominanti, scandalizzarsi e urlare alla criminalità di questa idea sistematicamente propagandata. La violenza non ha nulla a che vedere con l’assassinio, con l’uccisione premeditata di singoli individui. Faccio un esempio banale: uno sciopero è violenza. Solo a un primitivo e ad un infantile verrebbe però in mente di risolvere una lotta del genere con l’assassinio di un caporeparto o di un manager o perfino dell’amministratore delegato dell’impresa contro cui si sciopera. Malgrado i superficiali non lo capiscano, la violenza esercitata durante uno sciopero supera in intensità (e logicamente in efficacia) quella di qualsiasi assassinio. Dice il detto popolare: “Morto un Papa se ne fa un altro”. Vera saggezza; la violenza si esercita contro un sistema di dominio, non per sopprimere la vita di chicchessia. Possono esserci casi storici, molto particolari, in cui si verificano anche soppressioni di tal genere; ma sono eccezioni, perché chi volesse farne una regola non ha capito nulla delle parole di Lenin e non conduce una battaglia critico-rivoluzionaria, ma soddisfa solo puerili (e deprecabili) desideri di vendetta sua personale.

Non si deve però ingannare nessuno con un generico buonismo pacifista, con l’idea del bene comune da ottenere con il democratico consenso della maggioranza. Il conflitto esiste: tra dominanti e dominati e all’interno degli stessi dominanti onde prevalere gli uni sugli altri. Si debbono ricercare i meccanismi di sviluppo di questo sistema, le sue contraddizioni, quelle fondamentali su cui soprattutto fare leva – in particolari congiunture – allo scopo di tentare la trasformazione che ci sta a cuore. E’ indispensabile si comprenda come quest’ultima non sarà regalata da nessun gruppo di dominanti; ma va anche capito sotto quali condizioni – di inasprimento del conflitto interdominanti – una lotta per conseguirla può incontrare qualche successo. Andiamo verso un’epoca di accentuazione dei tanti antagonismi – interni a date formazioni particolari e fra le varie formazioni componenti quella mondiale – nell’ambito dei quali certe forze, con intenti assai diversi (dentro e contro il capitale), cercheranno di raggiungere risultati di radicale cambiamento delle situazioni e dei rapporti di forza attuali. Si analizzino i processi in corso, si indaghi per bene il terreno su cui si andrà dislocando lo scontro di fase in fase, e quali forze si metteranno in movimento; forze da unire temporaneamente per finalità comuni, ma che non sono, e non saranno assai a lungo, il Bene Comune dell’intera società. Non si raccontino fandonie paralizzanti, buone per prendere qualche voto e avere qualche seggio in Parlamento e qualche altra prebenda di sottogoverno! Chi continua su questa strada, va criticato e trattato per quello che è: un sinistro “a bischero sciolto”, che vuol pervertire anche gli altri, corromperli e spingerli nelle braccia dei dominanti, vecchi o nuovi che siano.

La “verità” sta nel conflitto, nella lotta non pacifica verso chi ci inganna, ci blandisce per meglio sfruttarci, per assopire in noi la volontà di ribellarci. Tuttavia, per ribellarsi si deve conoscere, almeno approssimativamente, la struttura del campo (formazioni particolari e mondiale) in cui ci si scontra e le forze in campo nel corso dello scontro. Bisogna smascherare per intero gli inganni ideologici che i dominanti – per noi si tratta soprattutto di quelli italiani – stanno perpetrando con l’aiuto degli “infiltrati” nei ranghi dei dominati, personaggi che (in buona fede? Forse, ma non ci interessa) ottundono i cervelli, abbrutiscono gli animi, spargono veleni culturali, dirottano le critiche e le lotte verso obiettivi secondari, quelli appunto dei conflitti in “solidarietà antitetico-polare”, di cui si è in questo scritto parlato. Si passi dunque ad altro, e con ben altro spirito critico.