Quale ecologia? Intervista a Eduardo Zarelli
di Giuseppe Serra - 09/09/2005
Fonte: Arianna Editrice
Eduardo Zarelli* si riconosce nei principi che animano il movimento degli ecologisti profondi. Eppure, agli stessi deep ecologist vengono mosse precise accuse. Si pensi ad esempio ad Alain de Benoist, ma anche a una delle teoriche dell’umanesimo ecologico, Luisella Battaglia. Quest’ultima (nel suo Alle origini dell’etica ambientale, Dedalo), utilizzando come filtro le analisi di Luc Ferry, incolpa il movimento di misantropia, di non dare la giusta importanza, all’interno del dato naturale, alla specificità esistenziale e simbolica dell’uomo, che viene ridotto al solo ruolo ecologico. Un'altra nozione che suscita un giudizio negativo della filosofa è quella di «valore intrinseco» della «Vita umana e non umana sulla Terra», proposta come primo principio della piattaforma del movimento dell’ecologia profonda. Questo stesso principio implica un’affermazione di eguaglianza biotica di tutti gli organismi della terra in quanto partecipi di un tutto interrelato, e presuppone una nostra totale immanenza alla natura. Si tratta di un processo di sacralizzazione dell’armonia naturale che priverebbe l’uomo dell’esercizio della moralità conducendolo a una pericolosa deriva antiumanistica. Concorda con questo tipo di analisi? Si può veramente definire il movimento dell’ecologia profonda come caratterizzata da una tendenza di pensiero anti – umanistico” e antispecista?
L’ecologia del profondo è un riferimento generico, che accomuna pensatori non omogenei come Arne Naess, Gorge Sessions, Bill Devall, Gary Snyder. Costoro, con sensibilità diverse, hanno avuto il merito di sollevare la questione ambientale dal conformismo sociale e politico della tarda modernità. In particolare, hanno considerato il rapporto tra natura e cultura come punto centrale nella riflessione critica del modello razionalistico occidentale; questi autori sottolineano il “valore intrinseco” della natura, affermazione genericamente condivisibile, ma con alcune contraddizioni, che marcano la necessità di un distinguo, al fine di una evoluzione teorica. L’ecologia nasce nella seconda metà del XIX secolo su basi positiviste, definendosi come la totalità della scienza delle relazioni dell’organismo con l’ambiente. Indipendentemente dalla evoluzione culturale del termine, il calco scientifico delle origini si perpetua nell’ambientalismo contemporaneo. L’osservato è distaccato dall’osservatore, l’uomo, che dualisticamente preserva se stesso senza mutare l’approccio relazionale con la natura. L’ecologia del profondo, in controtendenza, opera un’inversione di paradigma e colloca l’uomo nella natura, criticando la civilizzazione tecno-scientifica dell’habitat. Conseguentemente, afferma una empatia relazionale, che si manifesta nella consapevolezza dell’appartenenza di tutti gli esseri viventi al mondo naturale. L’ecologia profonda oltrepassa l’approccio scientifico fattuale, per raggiungere la consapevolezza del sé e della saggezza della manifestazione naturale. L’uomo, olisticamente, viene inteso come parte di un tutto “cosmico”. L’implicazione di questo principio è l’ecocentrismo, secondo cui la natura va protetta di per sé, per il suo valore intrinseco, indipendentemente dall’utilità strumentale o intergenerazionale. Se arrechiamo danni alla natura, danneggiamo noi stessi. Il tipo di approccio alla realtà, che se ne ricava, è radicale: bisogna interamente ripensare l’attuale società, le forme culturali e il posto dell’uomo nella natura. Occorre agire sulle cause, invece che sugli effetti. Non c’è bisogno di fare nulla di nuovo, basta riattualizzare qualcosa di molto antico, di arcaico: la comprensione della saggezza della Terra e degli equilibri relazionali ecosistemici, la consapevolezza del rapporto di simbiosi omeostatica del vivente. “Andare all’origine delle cose” significa, di conseguenza, decostruire la macchina tecnomorfa creata dallo scientismo, superando l’approccio parziale e riduzionista e immedesimandosi ontologicamente con l’essere manifesto. Le forme più radicali di tale approccio arrivano ad immaginare la preservazione della natura come sua inibizione all’uomo, riproponendo in forma complementare opposta il cartesianesimo, quasi che non esistesse alcun rapporto possibile con la natura, se non quello dello sfruttamento meccanicistico o della contemplazione ascetica. In realtà, il problema è praticare la via indeterminata del giusto mezzo, all’insegna del riequilibrio olistico tra cultura e natura. Le stesse tematiche più oltranziste, legate alla wilderness, parlano dell’incontaminato come richiamo all’elementare psicologico e istintuale perduto dall’uomo civilizzato, come risorsa per la ri-connessione con la comunità del vivente, più che di un solipsismo naturalistico. Luisella Battaglia, sulla scia del Principio di responsabilità di Hans Jonas, richiama la moralità dell’uomo alla responsabilità nei confronti della sopravvivenza del proprio habitat, da cui dipende la sua stessa esistenza. Umanisticamente, finisce per riconoscere nell’interdipendenza di tutti gli esseri un oltrepassamento del confine tra umano e non-umano e, conseguentemente, una visione della terra non più come risorsa da sfruttare, ma come bene da tutelare. L’equivoco da superare consiste nel contrapporre l’umanesimo all’ecologismo, come se l’amore per la natura comportasse l’odio per gli uomini. Si può convenire, quindi, con la pensatrice sulla necessità di evitare sia l’antropocentrismo che il biocentrismo. Le due concezioni, nel loro reciproco estremismo, negano una visione olistica della realtà. Analogamente, Alain de Benoist oppone a ogni forma di dualismo un monismo pluralista, differenziato, fondato sulla dialettica dell’uno e del molteplice e rivolto a un’etica della complementareità. In tal modo, il cosmocentrismo, riproposto più o meno consciamente dall’ecologia del profondo, si qualifica oltre l’ingenuo panteismo universalista, spesso venato da impropri misticismi, qualificando la presenza umana nel mondo come scelta e destino di senso. Bisogna riconoscere la complessità stessa della natura senza le derive “antispeciste”. Il rispetto del vivente non implica l’eguaglianza indifferenziata tra uomo, mondo animale, mondo vegetale e mondo minerale, ma la consapevolezza della diversa ma relazionata manifestazione dell’essere. In merito alla dimensione etica, credo sia conciliabile affermare che l’uomo è il solo soggetto capace di valutazioni morali, senza con ciò ritenerlo l’unico destinatario di considerazione morale. Certamente tale consapevolezza attinge legittimità su un piano metaetico, ove i principi informano la realtà, non su quello etico-normativo, giuridico-contrattuale.
L’impostazione concettuale degli ecologisti profondi è regolata da un retroterra culturale – filosofico che ha portato avanti una critica radicale nei confronti della civiltà dei consumi, sostenuta dal pensiero liberale. Ma questo discorso ha alimentato il sospetto di un pensiero antimoderno, nemico del progresso e della conoscenza e conseguentemente nemico della democrazia di tipo occidentale che si è rafforzata grazie alla cultura capitalistica basata sulla centralità della tecnologia. Si pensa, quindi, che ostacolando l’attuale modello socioeconomico dominante, sostenuto dalle economie liberistiche, possa venire meno il benessere materiale delle popolazioni (che dovrebbe essere esteso a tutti gli abitanti della terra) con una conseguente crisi democratica. In quale modo si può rispondere a queste accuse?
Tra i meriti dell’ecologia del profondo abbiamo prima identificato l’emancipazione dal dettato riduzionistico-scientista. Ne consegue un paradigma epistemologico relazionale ed solistico, che collima con le culture tradizionali e sapienzali di Oriente e Occidente. Il Tao della fisica o La rete della vita di Fritjof Capra ben rappresentano questa sintesi culturale, che pone in palese crisi la modernità. In tal senso, dopo il principio di indeterminazione di Heisenberg, una nuova concezione, più articolata, del concetto di causa, siunisce alla scoperta, fatta dalla fisica quantica, dell’esistenza di una essenziale interazione tra le particelle del cosmo. Bohm può parlare, in analogia, a livello cosmico, di un ordine implicito – diverso dall'ordine esplicito apparente – contenente lo spazio-tempo, costituito da connessioni non causali, in cui le parti, che agiscono in modo relativamente autonomo, rappresentano solo forme particolari e contingenti dentro il Tutto. Questo ordine nascosto, di tipo olista, è simile a quello intuito dai "mistici” orientali, taoisti, buddhisti e induisti. Insomma non è ormai più legittimo, scientificamente ed intellettualmente, omettere la ciclicità e la reversibilità dei fenomeni. Va da sé che tali presupposti hanno messo in discussione due assiomi dell’ideologia del progresso: la concezione lineare del tempo e l’ottimismo deterministico. Non solo, quindi, una critica del nichilismo della tecnica, ma anche del postulato economico della crescita illimitata, di un modello di sviluppo edonistico, massificante, insostenibile. L’ambientalismo scientifico e politico sostiene invece la modificabilità riformistica del sistema liberal-capitalista, ipotizzando il cosiddetto “sviluppo sostenibile”. Tale teoria mira a correggere lo sviluppo classico, ma è incapace di considerarlo la causa profonda della crisi ecologica. Senza rimettere in discussione l’immaginario dell’homo oeconomicus, risulta illimitabile l’accumulo mercantile del capitalismo. L’ecologia del profondo o, per meglio dire, a questo punto, olistica, consapevole che il degrado antropico dell’ambiente è da ricercare nelle cause del modo di produzione, e non nei suoi effetti perversi, e coerente con il presupposto filosofico dell’appartenenza dell’uomo alla natura, propone una metanoia, una inversione di marcia verso un modello socio-economico, che rinserri l’economico nel sociale, e la sobrietà come vincolo alle necessità economiche. Questo è possibile in forme consensuali di democrazia partecipativa, comunitaria, con un principio di sovranità che oltrepassa il contrattualismo individualistico. La politica che parte dalla base implica la sovranità condivisa, la partecipazione, il principio di sussidiarietà, il rispetto dei corpi intermedi e delle libertà fondamentali, la costituzione a ciascun livello di un equilibrio fra la deliberazione e la decisione. Tutto ciò, a dimensione locale. Il controllo democratico partecipativo del potere corrisponde comunitariamente ad un territorio condiviso. Il principio di reciprocità si evidenzia nelle identità di gruppo, ove è preminente l’aspetto simbolico-comunitario della relazione sociale. Tra i singoli, i rapporti sono regolati da forme generali di giustizia distributiva ispirate al dono e alla complementarietà. In tale contesto, norme e scambi sociali, fondati su consuetudini morali, legano organicamente l’economico all’istituzione sociale, comunitaria, quindi etica. La sobrietà dello stile di vita rafforza la ricostruzione del legame sociale e la sua capacità di esprimere peculiarità nello sviluppo autosostenibile riferito ai principi di “ciclicità” e di “limite”, insiti nella omeostasi della natura. Questo federalismo intercomunitario è una risposta credibile e concreta alla crisi di legittimità delle democrazie procedurali occidentali, che invece si alimentano in una perversione degli interessi economici fino all’involuzione tecnocratica ed oligarchica, che va di pari passo con la onnipervasiva mercificazione del vivente.
L’ecologia profonda stabilisce la fine della centralità antropica sancita dalla visione giudeo - cristiana. L’antropocentrismo deve essere superato, debole o moderato che sia e poiché l’etica ecologica cristiana è ascrivibile alla visione debole dell’antropocentrismo, pensa che possa essere definitiva la definizione dell’ecologia profonda come una forma di pensiero anti – cristiana; oppure che sia ancora possibile un punto d’incontro?
Nel nostro passato religioso possiamo ritrovare gli “antecedenti” di quella visione d'insieme necessaria all'uomo contemporaneo per riconnettersi al suo habitat naturale, per tornare a riabitare e non dominare, la Terra. Questo percorso di recupero, analisi e comparazione alimenta un dibattito filosofico-religioso, che investe il rapporto uomo-natura e si interroga sui risvolti etici della cosiddetta "crisi ambientale". Questa tendenza muove dalla considerazione che le diverse tradizioni religiose, al di là delle loro differenze, nell'arco della storia hanno fornito un'immagine cosmologica come codice interpretativo della realtà, alcuni fondamenti per il vivere comune, una guida spirituale e pratiche rituali; fattori rivolti al superamento dei limiti individuali e attivi nella connessione dell'umano al cosmico. La maggior parte delle forme di religiosità animistiche e politeistiche tradizionali ha un carattere cosmico. L’universo viene da esse inteso come un insieme vivente correlato, del quale l’uomo è parte per il solo fatto di esistere. La natura è animata, il territorio si compone di luoghi sacri, il tempo è connaturato ai cicli cosmici celebrati ritualmente, si uniscono in un'eterna spirale il dare e il ricevere della vita e della morte, in una solidarietà profonda tra l’uomo e l’esistente. La natura è emanazione spirituale, a differenza dei monoteismi, che subentreranno universalisticamente nella storia della umanità. Questi, infatti, intendono la natura come creato, prodotto del libero volere di un Dio. Paradossalmente, l’universo viene desacralizzato e svuotato delle sue forze spirituali; si apre così la strada – in una visione deterministica dello sviluppo storico – al razionalismo, che priverà di Dio una materia già morta e renderà l’uomo osservatore e manipolatore esterno del naturale. L’olismo reagisce ad un antropocentrismo, che fa dell’uomo un valore autoreferenziale, riallacciandosi a una concezione del mondo tipica della religiosità delle culture tradizionali, che, da sempre giudicate superficialmente “società chiuse”, si rivelano, al contrario, aperte alla totalità del cosmo, e quindi malleabili, nell’organizzazione del corpo sociale, in una varietà di sfumature e di significati profondi, che permeavano il senso del vivere quotidiano. Disse il capo indiano Duvamish al presidente statunitense Pierce, nel 1855: «Noi siamo una parte di questa terra ed essa è parte di noi. Non è stato l’uomo a creare il tessuto della vita; ne è solo un filo. Ciò che voi farete al tessuto, lo farete a voi stessi». Partendo da questa interpretazione tradizionale della natura, è possibile completare il biocentrismo, che altrimenti si riduce ad una improbabile parità di diritti giuridico-formali. In realtà, la natura vale per quello che è; non esiste una natura buona o una cattiva. Di conseguenza, l’uomo, pur non essendo l’unico essere “biocosciente”, è sicuramente l’unico ad avere consapevolezza di questa coscienza e grazie a questa, sulla base dei suoi presupposti naturali biologici, genetici e istintuali, rimane spiritualmente indeterminato e libero di scegliere. Il tentativo di una riconversione ecologica della civiltà industriale consiste nel cercare di risvegliare nell’uomo la profonda consapevolezza di essere parte del tutto, lasciandogli la libera volontà di decidere di farne parte armonicamente, sacralmente. Su questo, il contrasto tra ecologismo e cristianesimo è apparentemente insanabile. Per il cristianesimo, la natura è creatura di Dio e ne porta il segno, ma non è divina; l’atto della creazione pone infatti una distanza infinita e invalicabile tra Dio e la sua opera: la natura, quindi, riceve la sua esistenza da Dio, ma non è né una sua emanazione né una sua “incarnazione”. Partendo dalla contemplazione della natura, l’uomo può salire a Dio, ma Dio non è nella natura, la trascende infinitamente. La natura va dunque rispettata come opera di Dio donata all’uomo, ma non può essere assolutizzata, come se fosse qualcosa di “divino”. È l’uomo che si fa “voce” della creazione, che, per mezzo di lui, dunque, raggiunge il suo fine. È in questo farsi “voce” della creazione che l’homo sapiens raggiunge il punto più alto del suo essere: egli è sì homo faber, e quindi uomo del lavoro e del “progresso” della tecnica come strumento per dominare la terra, ma è anche homo contemplativus, e quindi uomo che, contemplando Dio nella sua creazione, lo glorifica. È esemplare, a questo proposito, l’esperienza spirituale di San Francesco d’Assisi o di Ildegarda da Blingen. Su tale modello di partecipazione cosmogonia del naturale c’è una oggettiva condivisione dei “valori”, che l’ecologismo porta avanti: rispetto della natura e rifiuto del suo sfruttamento utilitaristico, prevalenza della qualità della vita sulla quantità dei beni di consumo, e quindi condanna dell’edonismo consumistico. L’uomo, infatti, se è immagine di Dio nel suo essere, deve esserlo anche nel suo agire; perciò non ha, né può avere, sulla natura un potere dispotico e distruttivo fino a danneggiare e distruggere l’esistente, senza andare contro il disegno di Dio. Data la condizione di secolarizzazione e di progressivo disincanto nichilistico della cultura occidentale, la tematica ecologica pone quindi un problema di grande profondità alla coscienza del cristiano.
In circa trent’anni i principi dell’ecologia profonda hanno avuto una eco limitata, se paragonati a quelli diffusi dal rapporto Brundtland sullo «sviluppo durevole» che risale invece agli anni ’80. Perché, secondo Lei, ancora non si è riusciti a dimostrare la bontà di un approccio ecologico che passi prima di tutto attraverso un profondo metodo di analisi delle cause della crisi ambientale?
Il Rapporto Brundtland (1987) ha espresso la più accreditata vulgata del concetto di sviluppo sostenibile «che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni». Risulta chiara la matrice antropocentrica ed utilitaristica, che alimenta la maggioranza della cultura politica ambientalista occidentale. Tutti i modelli economici prospettati nella modernità, infatti, si proiettano spazialmente sulla base di un tempo meccanico, negando faustianamente la non-reversibilità entropica della trasformazione della energia e della materia.
Questo “riformismo” ambientalista ha ottenuto maggior credito principalmente perché funzionale al modello di sviluppo industriale liberal-capitalistico: ha, cioè, avuto canali mediatici e di rappresentatività politica compiacente e trasversale tra tutti i partiti politici e i gruppi di potere economici. L’affermazione filantropica sulla solidarietà intergenerazionale non intacca la pervicacia dell’economicismo e si perpetua in una professione d’intenti divenuta un luogo comune rassicurante, tanto che i partiti marcatamente ecologisti hanno oggi evidenti problemi di identità, di ruolo e di consenso politico: hanno aderenti provenienti da esperienze ideologiche eterogenee, accomunati da un indistinto progressismo individualistico e urbano, che inferisce sulla ingenuità di un promiscuo mondo di militanza associazionistica, ambientalista e protezionista.
Su tali basi, l’ecologismo ha smarrito il profilo ideologico, che poteva costituire una vera novità nel campo delle estenuate idee della tarda modernità: dimostrarsi ulteriore alla destra e alla sinistra, essendo intimamente conservatore e insieme rivoluzionario. L’olismo si pone infatti in termini di grande mutamento paradigmatico del modello occidentale, riferendosi però non ad utopie prometeiche, ma alla stabilità dei sistemi naturali e ai valori della Terra, al senso del limite. Le conseguenze di tale “tradimento” teorico si riflettono nell’incapacità, socialmente, di radicarsi e di proiettare un’immagine di reale alternativa al modello dominante e, politicamente, di dimostrarsi veicolo di reale conflitto con gli equilibri di potere, di interpretare una concreta frattura amico/nemico in cui identificarsi. Non è un caso che il personale politico verde sia di una evanescenza trasformista e di un opportunismo personale pari, se non superiore, al carrierismo di ogni partito istituzionalizzato. Diventa difficile, pertanto, pensare che l’attuale scenario politico culturale consenta di dare spazio a tematiche di grande respiro ideale e di mobilitazione esistenziale. L’acquiescenza ai rapporti di forza della democrazia rappresentativa non fa emergere nemmeno l’irriverenza populistica di una figura dai tratti contraddittori come Ralph Nader, che oltre oceano manifesta comunque una significativa indipendenza dagli schieramenti condizionanti di destra e sinistra, dando espressione ad una potenziale maggioranza alternativa. Possiamo quindi dire che il problema politico ecologico, più che specifico, è generale e riguarda la depoliticizzazione delle “società aperte” liberali. La libertà negativa, che sottrae la persona alla cosa pubblica, confondendosi con l’emancipazione degli scambi economici da ogni vincolo, ha come destino la mercificazione universale di uomini, idee e cose. Solo se, e quando, il “politico” interpreterà forme originali di partecipazione pubblica, potremo assistere a una riconciliazione tra idee e pratica sociale, ad uno “stato nascente” rivoluzionario, che possa tenere conto dei principi ecologici. Sarà cioè possibile un coinvolgimento generalizzato di un pensiero minoritario, che all’oggi può cercare agibilità in termini preferenzialmente metapolitici, influenzando l’immaginario collettivo, grazie all’onestà intellettuale e alla coerenza etica.
*Eduardo Zarelli: insegna Storia e Filosofia a Bologna. Responsabile della Arianna Editrice, ha pubblicato Un mondo di differenze. Il localismo tra comunità e società