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Il pluralismo culturale e il totalitarismo occidentale

di Massimo Fini - 09/09/2005

Fonte: Massimo Fini

 
 

La "lectio magistralis" che Marcello Pera ha tenuto al meeting di Comunione e Liberazione di Rimini è tutta una "contraddizione in termini". Il Presidente del Senato, facendo un discorso che, tra l'altro, non ha alcuna attinenza col suo ruolo istituzionale e anzi ne travalica i limiti, afferma che il rispetto fra culture "deve essere reciproco", ma subito dopo si scaglia contro il "relativismo culturale", che a suo parere si sta diffondendo in Europa, per il quale "tutte le culture hanno la stessa dignità etica". Ma se le culture non hanno pari dignità e ce n'è una superiore, naturalmente la nostra, qual è il rispetto che essa porta alle altre se le considera "inferiori"? Evidentemente nessuno. E infatti in Occidente, negli Stati Uniti come in Europa, non esiste alcun "relativismo culturale" ma, al contrario, un totalitarismo culturale, concettuale e pratico.

In forza di tale totalitarismo noi sentiamo il diritto e il dovere di esportare ovunque i nostri valori, anche con la forza delle armi com'è avvenuto in Afghanistan e in Iraq o con la violenza ideologica come stiamo facendo col mondo islamico cui vogliamo imporre, tra l'altro, un'omologazione della donna musulmana al modello occidentale.

Pera, preoccupato della "crisi morale e di identità dell'Occidente", afferma che "il rispetto comincia da casa nostra e integrazione significa fare diventare gli altri cittadini della nostra civiltà", con l'abbandono, evidentemente, della loro. Alt. Gli immigrati che vengono qui devono rispettare le nostre leggi, com'è ovvio, ma non hanno nessun obbligo di abbracciare anche la nostra civiltà. Nessun europeo o americano che viva in un Paese islamico o dell'Africa nera ancora tradizionale, è obbligato ad abbracciare la cultura del luogo e a farsi, poniamo, musulmano o animista o ad aderire alle pratiche di stregoneria. Voler imporre agli immigrati (che in genere sono tali perché la pervasività della nostra economia ha distrutto la loro, spesso riducendoli alla fame, insieme alla loro socialità, alle loro tradizioni, al loro habitat) di abbandonare la loro cultura per abbracciare la nostra significa togliergli definitivamente quell'identità che invece pretendiamo per noi stessi.

Pera parla del vuoto morale, di valori e di senso che ha colpito l'Occidente. Se così è si capisce ancor meno la pretesa occidentale di voler esportare e imporre questo vuoto anche alle altre culture. Comunque sia, è vero, come afferma Pera, che "la democrazia liberale non è autosufficiente, è vuota, ci fa perdere identità collettiva, e ci priva di qualunque senso ... il limite fondamentale della teoria liberaldemocratica è non avere un criterio del bene, un fondamento ... ciò che cerchiamo non è solo una democrazia del consenso ma del senso". Per quel che mi riguarda sono cose che denuncio da vent'anni nei miei articoli e nei miei libri (vedi, da ultimo e per tutti, Sudditi - Manifesto contro la democrazia) e mi fa piacere che anche il filosofo Pera se ne sia accorto. La democrazia è un metodo, un sistema di forme, di regole e di procedure, non è un valore in sé e non propone valori. È un contenitore, un sacco vuoto che andrebbe riempito. Ma il pensiero e la pratica liberale e laica, che sono il substrato su cui la democrazia è nata, mentre facevano, a poco a poco, tabula rasa di tutti i valori precedenti, non sono stati in grado, in oltre due secoli, di riempire questo vuoto se non con contenuti quantitativi e mercantili. Ed è proprio aver centrato la nostra società sul mercato - ma questo Pera si guarda bene dal dirlo - ad aver privato la vita dell'uomo occidentale di valori e di senso. Perché il mercato è uno scambio di oggetti inerti che, come tale, non può produrre valori, produce solo economia. Ed è assolutamente inutile e velleitario criticare la liberaldemocrazia se non si attacca il suo contenuto più profondo e unico: il modello di sviluppo economico che ha partorito o da cui è stata partorita.

Ora il presidente Pera vorrebbe riempire, per diktat, questo contenitore vuoto, di valori religiosi cristiani, universali. Ma a parte che questo è impossibile finché la società occidentale resta centrata sul mercato, dove l'unico valore e dio realmente condiviso è, e non può essere altrimenti, il "Dio Quattrino", con i suoi sub-idoli del profitto e del successo comunque ottenuti, ciò significherebbe, di fatto, trasformare le democrazie in teocrazie. Ed è perlomeno curioso, per dir così, che noi in Occidente e in particolare in Italia, da Marcello Pera a Giuliano Ferrara, ci si affanni a cercare di ritrovare i valori religiosi che abbiamo perduto proprio nel momento in cui pretendiamo, se occorre con le bombe, di impedire agli altri, e in specie al mondo islamico, di vivere i propri.

Il problema non è quello di riportare Dio al centro dell'esistenza dell'uomo facendo un salto indietro nel Medioevo ma senza le sue sapienti compensazioni e mantenendo intatto l'attuale modello economico. Recuperando quindi il peggio del Medioevo, l'autoritarismo religioso, ma non il meglio, vale a dire una società basata non sulla competizione economica ma sulla cooperazione dove ogni uomo aveva un suo posto e un suo ruolo, per quanto modesto, nel mondo.

Dio è morto un paio di secoli fa, ucciso dal razionalismo illuminista che ha prodotto l'attuale società, centrata sull'economia e sulla tecnologia, e nessuno lo potrà resuscitare finché questo tipo di società rimarrà egemone.

Il problema non è quindi di porre al centro della nostra esistenza il cadavere di Dio, ma l'uomo in quanto tale, relegando l'economia e la tecnologia ai ruoli marginali che avevano sempre avuto prima che con la Rivoluzione industriale, e l'Illuminismo che l'ha razionalizzata nelle due varianti del liberalismo e del marxismo, perdessimo il senso di noi stessi e della nostra centralità.

23.08.05