Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Quello che pensano le altre specie

Quello che pensano le altre specie

di Roberto Marchesini - 06/05/2007

 
A lungo considerati come burattini mossi dai fili dell'istinto o dell'ambiente, a partire dagli anni Sessanta gli animali sono stati oggetto di studi che ne hanno rivelato le capacità di elaborare un piano d'azione o di porsi obiettivi. Sulle nuove prospettive aperte dall'etologia cognitiva una giornata di convegno oggi a Cremona

Il modello cartesiano di animale-macchina sta finalmente tramontando, e con esso la pretesa di trasformare gli animali in oggetti dotati di automatismi, ma privi di un mondo interno e di una soggettività. Già nel 1872 Charles Darwin nel saggio L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali aveva sottolineato come l'orientamento «continuista», quello cioè che non pone differenze qualitative fra noi e le altre specie ma solo di grado, fosse da preferirsi nell'interpretazione del comportamento animale a quello meccanicistico introdotto da Cartesio. Per Darwin tali sono le somiglianze fra l'uomo e gli altri animali da rendere plausibile una spiegazione del comportamento delle altre specie basata sull'immedesimazione, e dunque «antropomorfa».
Tale dettato fu assunto in modo radicale e acritico da alcuni dei primi continuatori del pensiero darwiniano, in particolare da George Romanes che nel saggio Animal Intelligence del 1888 portò il continuismo al paradosso, assegnando un comportamento razionale persino alle ostriche ed esponendosi quindi, per l'arbitrarietà delle attribuzioni, alle critiche dei fautori di una separazione netta tra l'uomo e le altre specie. Per questo nel 1898 C. Lloyd Morgan introdusse il cosiddetto «canone di parsimonia» secondo cui non è corretto interpretare un comportamento come il risultato dell'esercizio di una facoltà mentale superiore se può essere spiegato facendo riferimento a una inferiore. Sebbene non fosse nelle intenzioni dello studioso negare una mente animale, questo criterio avrebbe portato nel Novecento alla ripresa del modello cartesiano di animale-automa: prendendo avvio nei prini decenni del ventesimo secolo, le due più importanti scuole di interpretazione del comportamento animale, quella etologica centroeuropea e quella behaviorista americana, si sarebbero infatti orientate verso il modello meccanicistico rispetto a quello mentalistico.

In questa ottica l'animale-macchina è di fatto un burattino mosso da fili che in modo separato producono il comportamento: per i behavioristi i fili sono dati dall'apprendimento durante la vita dell'individuo e prendono il nome di condizionamenti, per l'etologia classica i fili sono configurati dalla selezione naturale durante la storia della specie e prendono il nome di istinti. In un caso il burattinaio è l'ambiente, nell'altro le pulsioni, ma comunque condizionamenti e istinti agiscono sull'animale come interruttori che accendono selettivamente alcune particolari espressioni: ne consegue che nell'una e nell'altra impostazione l'individuo manca di soggettività, è un oggetto mosso da automatismi.

Il tabù della mente animale venne infranto negli anni Sessanta da alcuni etologi, e in primo luogo da Donald Griffin che, anche sulla base dei lavori pionieristici degli psicologi Wolfgang Köhler ed Edward Tolman, riprese il filo continuista di Darwin per indagare la soggettività animale, affrontando temi come la creatività, la pianificazione e la cultura, inspiegabili secondo il modello meccanicista. In quegli anni infatti la ricerca portò in evidenza un gran numero di testimonianze circa la complessità del comportamento animale: nel 1969, in particolare, lo psicologo Gordon Gallup riuscì con la famosa prova dello specchio a dimostrare una certa forma di autocoscienza nello scimpanzé.

Nasceva così l'etologia cognitiva, una nuova scuola di pensiero che, pur mantenendo le importanti intuizioni della tradizione (soprattutto del pensiero di Konrad Lorenz), affrontava il comportamento animale in chiave mentalistica. Ma cosa significa in pratica ammettere una mente animale e quali sono i modelli chiamati a sostituire i fili del burattino? Prima di tutto considerare l'animale come una entità dotata di mente significa assegnargli un mondo interiore capace di riflettere sui problemi, porsi obiettivi, elaborare un piano d'azione, optare tra diverse possibilità, operare simulazioni, ricordare attraverso immagini mentali, possedere insomma una sorta di teatro elaborativo interno.

Parole come giudicare, valutare, decidere, progettare, capire, risolvere non avrebbero senso al di fuori di una impostazione mentalistica perché verrebbe a mancare il supporto stesso necessario per questi processi. Nella visione mentalistica le diverse dotazioni cognitive, siano innate o apprese, non sono interruttori che meccanicamente richiamano un comportamento ma risorse che la soggettività utilizza in tutte le attività di interfaccia con il mondo. Secondo questa impostazione l'individuo non risulta esposto agli stimoli esterni ma è capace di porre domande al mondo sulla base delle proprie dotazioni di conoscenza. Al posto del modello associativo, proprio delle tradizioni non mentalistiche, l'impostazione cognitiva impiega il concetto di «rappresentazione» come schema elaborativo che il soggetto utilizza per risolvere i problemi di interazione con la realtà esterna.

Un aspetto importante della ricerca dell'etologia cognitiva riguarda il problema della consapevolezza, che si suddivide di solito in alcune aree: la «senzienza», o consapevolezza del corpo e quindi della sensorialità e degli stati emozionali; la intenzionalità, o consapevolezza dei propri pensieri o stati mentali nei diversi livelli di complessità; la autocoscienza, o consapevolezza di sé come entità biografica, con caratteristiche di riconoscibilità; la teoria della mente, o consapevolezza degli stati mentali altrui. Secondo l'orientamento cognitivo gran parte dei processi elaborativi può essere realizzata inconsciamente, senza che per questo venga meno lo statuto di soggettività. D'altro canto, lungi dall'essere una funzione pleonastica, la coscienza si rivela come una qualità importante nell'adattamento dell'animale e nell'assicurare al soggetto un comportamento flessibile.

Oggi sono sempre di meno gli etologi che negano le facoltà mentali alle specie non umane e questo ha avuto indubbie ricadute nel modo di sviluppare la ricerca sul comportamento ma anche sul modo di considerare sotto il profilo etico il nostro rapporto con gli animali. Esistono peraltro differenze tra gli etologi cognitivi nel modo di affrontare il tema della mente animale e in particolare si possono individuare due impostazioni, diverse ma in qualche modo complementari tra loro: il cosiddetto «antropomorfismo critico» che parte da una comparazione stretta con l'uomo per assegnare agli animali facoltà mentali simili e, al contrario, la «pluralità cognitiva», che si basa sul riconoscimento della diversità delle intelligenze animali, perché differenti sono stati i problemi adattativi che le diverse specie hanno dovuto affrontare nel corso dell'evoluzione.

Come Howard Gardner con la teoria delle intelligenze multiple ha in buona sostanza sancito l'incomparabilità tra le diverse facoltà intellettive, mandando in soffitta il vecchio concetto di quoziente intellettivo, allo stesso modo non ha senso paragonare la cognitività delle diverse specie, dal momento che essa è stata chiamata a produrre prestazioni correlate a sfide adattative particolari. L'intelligenza del gatto, per esempio, tutta tesa a risolvere problemi e perciò di tipo enigmistico, è completamente diversa da quella del cane che è di tipo sociale, modellata cioè sulla capacità di muoversi correttamente nelle relazioni di gruppo. Ancora per buona parte inesplorato, il tema della mente animale rappresenta insomma un capitolo di ricerca importante. E di certo le sorprese non mancheranno.