Alla ricerca di fattori patogenetici comuni tra dipendenze e disturbi mentali: disedonia e comorbidità psichiatrica
a cura del Dott. Vincenzo MANNA, Dirigente Responsabile Centro di Salute Mentale - Genzano di Roma - Dipartimento Salute Mentale - ASL Roma H – Roma
Summary:
Drinking, feeding, sexual and maternal behavior are directed towards objects essential for survival of the self and of the species. Natural selection, in order to ensure the fulfilment of these behaviors, has provided these objects with powerful rewarding properties. The evidence showing that stimulation of dopaminergic transmission in the meso-cortico-limbic system relates to the rewarding proprierties of drugs of abuse brings one to ask what is the significance of the drug-induced changes on this neural pathway. In answering to this question one should consider that drugs act on biological organism to the extent that they are able to activate biological processes, which are operative independently from the drug itself. Drugs do not invent anything new but just mimic or interfere with what is preformed. This consideration also applies to drugs of abuse; thus drugs owe their abuse liability to the fact that they activate the neural pathways which carry natural rewarding stimuli. The onset of a drug addiction and the vulnerability to relapse, after abstinence, can be related to complex neuro-adaptative brain processes. The meso-cortico-limbic dopamine system arises from perikarya in the ventro-medial mesencephalon and innervates a number of cortical and limbic regions. A number of studies confirm a relevant role of this system in reward processes and drug addiction, including sensitization to psychostimulant drugs. The long-lasting actions of drugs of abuse lead to impairment in the rewarding mechanisms, but also affective symptoms as anxiety, dysphoria and depression. In the last few years, the role and the function of this system in the pathophysiology of certain neuropsychiatric disorders was postulated. Some studies support the possibility that different psychotic (including schizophrenia) and non-psychotic disorders may result from a deficit of dopaminergic transmission in the prefrontal cortex. A growing body of evidence implicates a dysregulation of the homeostatic hedonic control system as a common factor in the development of drug addiction and vulnerability in relapse following withdrawal. It is evident that the “hedonic homeostatic dysregulation” can be evaluated not simply in terms of presence or absence of pleasure capability, but also in terms of qualitative and quantitative differences from the normal conditions. The hedonic homeostatic dysregulation (dyshedonia) could be considered a pathogenetic factor, not only in the development of a drug dependence, but also in the genesis of different psychiatric disorders, with addictive features. This paper attempts to conceptualise addiction and other mental disorders as distinct psycho-pathological entities (nosographic categories) with common pathogenetic factors, as dyshedonia, from a trans-nosographic and dimensional point of view. The homeostatic dysregulation of the meso-cortico-limbic control of the rewarding functions could be pathogenetically related, so to drug addictions, as to some other psychiatric disorders, with or without addictive features.
Le dipendenze in prospettiva neurobiologica
I comportamenti di ricerca ed assunzione di cibo ed acqua, i comportamenti d’aggressione e di fuga, ma anche i comportamenti sessuali e materno-infantili sono diretti verso obiettivi essenziali, per la sopravvivenza dell'individuo e della specie. Gli organismi, che esibivano questi comportamenti associati a potenti proprietà di ricompensa, hanno presentato indubbi vantaggi, nella selezione naturale. I comportamenti motivazionali, indotti dagli stimoli naturali, presentano diverse componenti distinguibili: una componente preparatoria (desiderio), una componente incentivante (attivazione/ eccitazione/ approccio) ed una componente consumatoria (piacere/ soddisfazione/ gratificazione). L'aspetto incentivante degli stimoli motivazionali naturali è associato alle loro proprietà sensoriali specifiche (odore, sapore, forma, temperatura) che li identifica. La componente consumatoria dei comportamenti motivazionali, coinvolge gli effetti metabolici e fisiologici, del contatto e dell'interazione, con lo stimolo gratificante (piacere, sazietà, orgasmo). Ognuna di queste componenti può considerarsi piacevole ed indurre uno stato emotivo positivo (gratificazione), ma tutte risultano indispensabili agli stimoli motivazionali naturali, per essere del tutto rinforzanti. La componente preparatoria ed incentivante di tali comportamenti si associa a cambiamenti ergotropi, con aumento del livello di allerta, attivazione motoria, aumento del tono simpatico, catabolismo. La componente consumatoria si associa a cambiamenti trofotropi, con riduzione del livello di vigilanza, rallentamento motorio, anabolismo ed aumento del tono parasimpatico. Le proprietà incentivanti sembrano essere essenziali per l'apprendimento di una risposta comportamentale diretta ad approcciare gli stimoli naturalmente gratificanti. (1) Il tono dopaminergico mesolimbico sembra svolgere un ruolo rilevante in questo processo. E’, infatti, direttamente coinvolto nell'aumento del livello di vigilanza e nell'attivazione motoria, necessari al riconoscimento sensoriale ed all'approccio locomotorio verso lo stimolo naturale gratificante. Il tono dopaminergico è, inoltre, correlato direttamente all’apprendimento operante, cioé al riconoscimento e all'approccio agli stimoli neutri associati (incentivi secondari) a quelli gratificanti naturali (incentivi primari). (2, 3) Il tono dopaminergico mesolimbico risulta, perciò, funzionalmente correlato alla componente preparatoria o d’approccio agli stimoli motivazionali, ma non alla componente consumatoria di tali comportamenti, che sembra coinvolgere meccanismi neurobiologici, non solo dopaminergici, prevalentemente peptidergici. Gli stimoli ambientali assumono valore motivazionale in rapporto alla loro capacità di indurre risposte specifiche, orientate omeostaticamente, nei sistemi biologici. Il rilascio della dopamina (DA) a livello mesolimbico è indotto da stimoli ambientali motivazionalmente rilevanti per l’organismo, indipendentemente dalla valenza dello stimolo. Stimoli positivi (appetitivi) come sesso o cibo o stimoli negativi (avversativi), di natura stressante, fanno aumentare entrambi il rilascio di dopamina a livello del nucleo accumbens (NAc). Indipendentemente dall’intensità dello stimolo naturale, il release DA è molto minore, per intensità e durata, rispetto a quello, indotto dalle sostanze psicotrope, capaci di indurre dipendenza. Uno stimolo naturale, anche se applicato per un tempo relativamente lungo, si associa ad un release DA di pochi minuti e di ridotta intensità, mentre l’assunzione di una dose efficace di droghe d’abuso induce un rilascio di dopamina, molto più intenso, che può persistere per molti minuti o per ore. La DA, fisiologicamente rilasciata dagli stimoli con valore motivazionale, è indispensabile per attivare il circuito corticale proencefalico, correlato funzionalmente alla definizione delle risposte comportamentali adattive. (4, 5) La DA sembra svolgere un ruolo critico nel mediare la risposta comportamentale a stimoli inattesi e nuovi. Quando uno stimolo è ripetuto si sviluppa rapidamente tolleranza, con correlata riduzione del release di dopamina. (6) La DA risulta, perciò, indispensabile per l’acquisizione di risposte comportamentali adattive. Una volta stabilita ed appresa una risposta comportamentale, il release di dopamina non è più necessario per innescare il comportamento. E’ verosimile che la DA svolga, perciò, un importante ruolo nella plasticità neuronale, al fine di acquisire risposte comportamentali sempre più automatiche. Al contrario di quanto consegue all’esposizione a stimoli gratificanti naturali, l’incremento del release di DA non diminuisce, altrettanto rapidamente, dopo assunzione di droghe. L’assunzione ripetuta di sostanze psicotrope può, perciò, associarsi ad un incremento del rilascio di dopamina, con effetti significativi sul successivo adattamento neurobiologico cellulare. In relazione all’intensità ed alla durata del release DA, indotto dall’uso di sostanze psicotrope, si ritiene che le modificazioni neurobiologiche, indotte dall’uso di sostanze, vadano molto al di là delle modificazioni neuroplastiche DA-dipendenti fisiologiche. Quest’evento, con valenza patogenetica, induce una sequenza di modificazioni neurobiologiche persistenti, nel sistema meso-cortico-limbico. In quest’ottica, la dipendenza va considerata, quindi, alla stregua di una “normale” malattia disfunzionale del sistema nervoso centrale. La dipendenza è, quindi, un complesso disturbo disadattivo, indotto dalla ripetuta esposizione a stimoli gratificanti, non solo farmacologici. Gli stimoli gratificanti, capaci di indurre dipendenza, sia naturali che farmacologici, presentano due aspetti principali comuni. 1. Essi sono elementi motivazionali irresistibili del comportamento, tanto da sostituirsi quasi del tutto alla ricerca d’altri stimoli gratificanti, impegnando percentuali crescenti dell’attività giornaliera nella loro acquisizione. 2. Essi inducono un desiderio insopprimibile e persistente nel tempo, percui, anche molti anni dopo l’ultima esposizione, una riesposizione allo stimolo gratificante, capace di indurre dipendenza, oppure il semplice ripresentarsi d’elementi associati allo stimolo (incentivi secondari), può indurre comportamenti mirati alla ricerca della gratifica. L’esposizione ripetuta a stimoli fortemente gratificanti attiva nuclei e circuiti cerebrali specifici, che mediano la risposta comportamentale alla dipendenza. Viene generalmente sostenuto che stimoli gratificanti differenti attivino circuiti cerebrali differenti, ma anche che esistano regioni di sovrapposizione degli effetti, che formano un substrato anatomo-funzionale comune a tutti gli stimoli, che inducono gratificazione e dipendenza. La somministrazione acuta di tutte le sostanze, che inducono dipendenza, stimola la trasmissione dopaminergica (DA) con proiezione diretta dal mesencefalo ventrale al nucleo accumbens (NAc), in quello che viene definito il sistema dopaminergico mesolimbico. I meccanismi d’azione secondo cui diverse classi farmacologiche inducono il release DA a livello del NAc sono principalmente tre: 1. le sostanze psicotrope eccitano direttamente recettori posti sui dendriti o sui corpi cellulari delle cellule dopaminergiche, come fanno nicotina e cannabinoidi (7, 8); 2. le sostanze psicotrope agiscono su recettori localizzati sugli afferenti inibitori GABAergici diretti alle cellule DA (con riduzione del release di GABA e disinibizione del release DA) come fanno oppiacei ed etanolo; (9,10) 3. le sostanze psicotrope possono, infine, legarsi ai recettori presinaptici aumentando il release di dopamina, per azione sul suo trasportatore o per blocco del suo reuptake o per trasporto retrogrado, come fanno gli psicostimolanti amfetamino-simili. (11)
Neuroimaging e prospettive di ricerca in vivo nell’uomo
Alcune nuove tecnologie, di ricerca e di investigazione clinica, permettono di visualizzare e misurare i cambiamenti indotti sul funzionamento cerebrale, in vivo, nell’uomo, dalle sostanze psicotrope, sia in acuto che dopo assunzione cronica, con informazioni che vanno dal livello molecolare e cellulare, a quello cortico-sottocorticale. Le tecniche di neuroimaging hanno permesso notevoli progressi della ricerca, in quest’ambito, con lo sviluppo di metodi di visualizzazione della struttura e della funzione del cervello umano vivente. Con l’utilizzo di queste tecniche si possono ottenere informazioni su ciò che accade sia a livello recettoriale e metabolico sia a livello di flusso ematico regionale encefalico. Tali immagini possono dare preziose informazioni su dove e come le sostanze agiscono nel cervello, sia dopo somministrazione in acuto che dopo assunzioni reiterate. La risonanza magnetica nucleare (RMN) fornisce dettagliate immagini, in due o in tre dimensioni, delle strutture encefaliche, utilizzando campi magnetici e radiofrequenze. Gli aspetti anatomici possono essere integrati, nella risonanza magnetica funzionale (fRMN), da informazioni circa l’attività cerebrale, correlata alla deossigenazione ematica. Un altro importante ed utile strumento di valutazione per immagini dell’attività cerebrale umana in vivo è rappresentata dalla tomografia ad emissione di positroni (PET). (12-14) Questa metodica di ricerca fornisce informazioni circa l’attività metabolica cerebrale regionale. Un composto radioattivo viene iniettato nel torrente circolatorio e seguito lungo il flusso ematico intracranico. Le immagini possono essere ricostruite in due o tre dimensioni permettendo di visualizzare, con una scala di colori, l’attività metabolica regionale (blu/ verde = scarsa attività; giallo/ rosso = alta attività). Con l’utilizzo di diversi traccianti radioattivi è possibile avere informazioni circa il flusso ematico, il metabolismo ossidativo del glucosio, la concentrazione di farmaci nelle diverse regioni cerebrali, in vivo, nell’uomo. La maggior parte delle nostre recenti acquisizioni scientifiche, su come il circuito motivazionale sia coinvolto nella dipendenza, è derivata da studi di neuroimaging in soggetti tossicodipendenti e da evidenze su animali da esperimento. Gli studi sull’uomo, mediante tecniche di imaging funzionale, evidenziano le variazioni dell’attività cerebrale, nei tossicodipendenti esposti a stimoli evocativi, quali: 1. la somministrazione di una bassa dose di sostanze; 2. l’esposizione ad un evento stressante; 3. l’esposizione ad un elemento che precedentemente era associato all’assunzione delle sostanza gratificante. (15) Questi dati sono stati raccolti dopo stimolo con diverse sostanze, quali: psicostimolanti, alcol, nicotina ed oppiacei. (16) Gli studi di neuroimaging si basano sulla quantificazione delle differenze di parametri, del metabolismo cerebrale regionale, tra soggetti dipendenti e controlli sani. (17) Questi risultati danno informazioni sulle aree cerebrali coinvolte, ma forniscono dati molto limitati circa i substrati neurochimici, sottesi al fenomeno, a livello cellulare. Paradossalmente gli studi sull’uomo hanno indotto un crescente interesse ed una forte spinta alla ricerca sperimentale sull’animale, al fine di chiarire specifici meccanismi cellulari, come il reclutamento di specifici circuiti neuronali limbico-frontali, nell’espressione comportamentale delle dipendenze. L’identificazione dei substrati neuropatologici della dipendenza è stata fortemente avvantaggiata dall’esistenza di modelli animali di dipendenza, di provata validità. (18, 19) Ciò contrasta con quanto avviene per le altre psicopatologie, difficilmente esplorabili nell’animale da esperimento. I modelli animali delle dipendenze, infatti, includono un’ampia percentuale delle caratteristiche morbose, evidenziabili nell’uomo. Gli studi preclinici sono solitamente effettuati su animali da esperimento addestrati ad autosomministrarsi una sostanza psicotropa. Gli animali resi dipendenti dalla sostanza psicotropa gratificante vengono successivamente disassuefatti. Il comportamento di autosomministrazione viene estinto, perché la risposta operante (di solito premere una leva) non si associa più al rilascio di sostanza. La risposta operante è ripristinata da uno dei tre stimoli attivanti, mutuati dall’esperienza di ricaduta nell’abuso dell’uomo, cioè: 1. la somministrazione di una bassa dose della sostanza; 2. l’esposizione ad un evento stressante; 3. l’esposizione ad un elemento neutro, che precedentemente era associato all’assunzione delle sostanza d’abuso. (20) Questo modello viene associato a: 1. quantificazioni obiettive ex vivo di modificazione dell’espressione genica e proteica; 2. indici neurotrasmettitoriali in vivo ed ex vivo; 3. imaging delle funzione cerebrale a livello cellulare (p.es. espressione di protogeni come il c-fos). Inoltre, negli animali da esperimento possono essere effettuate manipolazioni, che permettono di valutare gli effetti sul comportamento dell’inibizione o dell’attivazione di determinati nuclei o strutture neuro-anatomiche.
Il ruolo del circuito motivazionale nella dipendenza da sostanze
Gli studi di neuroimaging hanno identificato chiaramente nell’uomo i circuiti cortico-sottocorticali, che sono attivati da stimoli associati alle sostanze, in soggetti dipendenti. Queste aree includono la corteccia prefrontale (cingolata anteriore e orbitaria ventrale), le regioni allocorticali che comprendono l’amigdala, lo striato ventrale (incluso il nucleo accumbens), i nuclei della stria terminalis e, probabilmente, i nuclei associati all’amigdala estesa, che hanno interconnessioni con la stria terminalis, le zone superficiali del nucleo accumbens e la parte ventromediale del pallido ventrale. (20) Alcune recenti evidenze hanno incluso anche il subiculum ventrale. (21) Un’ipotesi diffusamente accettata interpreta il comportamento di ricerca della sostanza, evocato dallo stimolo, come modulato da un circuito inducente limbico (amigdala estesa, amigdala basolaterale e subiculum ventrale con le loro proiezioni sull’area ventro-tegmentale) e da un circuito di memoria motoria (corteccia prefrontale dorsale, corteccia orbitarla ventrale, core del nucleo accumbens e pallido ventrale dorso-laterale). (15, 21-26) E’ noto che un ruolo specifico, nella genesi della gratificazione correlata alle dipendenze, viene svolto dalla liberazione di dopamina, a livello del sistema mesolimbico, dall’area ventro-tegmentale (VTA) al core del nucleo accumbens (NAc). I dati di ricerca suggeriscono, inoltre, che la circuitazione limbica svolga un ruolo diverso e specifico, nella ricaduta nella dipendenza, in rapporto al tipo di stimolo inducente il comportamento. In particolare, l’induzione della ricaduta nella dipendenza, in seguito: 1. alla somministrazione di basse dosi della sostanza, agirebbe direttamente sulla VTA, con attivazione dopaminergica della corteccia prefrontale, liberazione di glutammato a livello del NAc, attivazione GABA-peptidergica del pallido ventrale dorsale (dVP) e successiva proiezione GABAergica a partenza dal dVP del NAc; (20, 27) 2. all’esposizione ad un evento stressante, agirebbe con il coinvolgimento funzionale dell’amigdala estesa, liberazione di GABA e peptidi a livello della VTA, e, successiva, attivazione dopaminergica della corteccia prefrontale, liberazione di glutammato a livello del NAc, attivazione GABA-peptidergica del pallido ventrale dorsale (dVP) e successiva proiezione GABAergica a partenza dal dVP del NAc; (19, 20, 27) 3. l’esposizione ad un elemento che precedentemente era associato all’assunzione della sostanza d’abuso, agirebbe con il coinvolgimento dell’amigdala basolaterale e del subiculum ventrale con liberazione glutammatergica a livello della corteccia prefrontale e della VTA, attivazione dopaminergica della corteccia prefrontale, liberazione di glutammato a livello del NAc, attivazione GABA-peptidergica del pallido ventrale dorsale (dVP) e successiva proiezione GABAergica a partenza dal dVP del NAc. (23, 28, 29) Questi studi sembrano confermare l’esistenza di una via finale comune per la dipendenza, con modulazioni e coinvolgimento funzionale d’alcuni circuiti encefalici, da parte di diverse sostanze e diversi stimoli, purché capaci di indurre craving e recidive nel comportamento di dipendenza. I dati esistenti sembrano confermare un ruolo comune del circuito della memoria motoria, consistente nella proiezione di fibre dalla corteccia prefrontale al nucleo accumbens e da questo al pallido ventrale. Esistono, inoltre, numerose evidenze d’adattamenti neuroplastici persistenti dell’espressione genica e della funzione neuronale, nel nucleo accumbens e nella corteccia prefrontale, conseguenti ad un episodio di assunzione di sostanze. (30, 31) Le conoscenze degli aspetti patofisiologici, sottesi ai fenomeni di ricaduta nella dipendenza, derivano da numerosi e diversi studi comparsi in Letteratura. Queste informazioni possono essere d’enorme interesse clinico, nella ricerca d’efficaci strategie di trattamento farmacologico della dipendenza, del craving e di prevenzione delle ricadute. In particolare, la regolazione farmacologica della trasmissione del glutammato, nella proiezione corticale diretta al nucleo accumbens, sembrerebbe costituire un obiettivo terapeutico perseguibile. L’aumentato release di glutammato sembra coinvolto nella recidiva indotta dalla riesposizione alla sostanza, dallo stress e dalla presentazione di stimoli associati, perciò, la riduzione di questo rilascio potrebbe essere vantaggioso in tutte queste condizioni di ricaduta, frequenti nel soggetto tossicodipendente.
Basi genetiche della vulnerabilità individuale alla dipendenza da sostanze
Diversi fattori individuali, culturali, biologici, sociali e ambientali possono influenzare l’assunzione di una determinata sostanza, nonché il prolungarsi del suo consumo e, quindi, l’insorgere di una dipendenza. Alcune branche delle neuroscienze studiano i meccanismi d’azione delle sostanze d’abuso comuni a tutti gli esseri umani, anche in termini di genetica. Altre istanze scientifiche stanno focalizzando la ricerca sulle basi genetiche delle differenze, nell’effetto indotto, in individui diversi, dalle stesse sostanze psicotrope. Oltre a fattori sociali ed ambientali, è ormai evidente che le caratteristiche neurobiologiche, geneticamente determinate, d’ogni individuo, incidono fortemente sull’insorgere di una vera dipendenza. La recente identificazione di specifiche modificazioni dell’espressione genica e delle funzioni neuronali, associate allo sviluppo della dipendenza, costituiscono un ulteriore importante ambito di ricerca. (32) Non è un compito semplice identificare i geni responsabili di tali differenze interindividuali. La vulnerabilità alla dipendenza da sostanze psicotrope non è una patologia legata all’espressione di un singolo gene, ma all’interazione di diversi geni, con diversi fattori ambientali. Ciò rende più complessa la ricerca sulla genetica delle dipendenze, sebbene grandi progressi siano stati fatti, negli anni recenti, nell’identificazione di diversi geni, che sembrano contribuire alla patogenesi delle dipendenze. Gli studi sulle famiglie, sui gemelli mono e dizigotici, nonché gli studi su figli adottati permettono di ottenere informazioni attendibili circa il ruolo effettivamente svolto dai fattori ereditari, nella genesi delle dipendenze da sostanze. Altri tipi di studio genetico cercano di identificare regioni dei geni, che potrebbero ragionevolmente essere coinvolti nella fisiopatologia delle dipendenze, come i recettori per la dopamina, i recettori per gli oppioidi, etc. Sono stati raccolti dati affidabili circa l’ereditabilità dell’uso di tabacco in soggetti di diverso sesso, età e ceppo etnico. (33, 34) Questi studi suggeriscono il probabile coinvolgimento di molti diversi geni nell’insorgenza, nello sviluppo e nel perdurare di una dipendenza da nicotina. (35, 36) Oltre a componenti recettoriali specifiche anche i fattori coinvolti nel metabolismo della nicotina sembrano svolgere un ruolo rilevante, in questa dipendenza. I geni che codificano per tali passaggi metabolici possono verosimilmente determinare, infatti, i livelli d’accumulo della nicotina a livello cerebrale. (36, 37) E’ stata verificata una significativa ereditabilità della dipendenza da alcol, così come della frequenza e della quantità d’alcol consumato. (38) Risultano coinvolti i geni che codificano per alcuni passaggi metabolici, (39) ma anche per i recettori della dopamina, della serotonina e del GABA. (40) Varianti genetiche del metabolismo enzimatico dell’alcol sono state identificate e sembrano svolgere un ruolo sul consumo d’alcol. (41-43) Alcuni studi hanno evidenziato un’ereditabilità della dipendenza da oppioidi, stimata in circa il 70%, che potrebbe dipendere da differenze sia dei recettori per gli oppioidi sia del loro metabolismo enzimatico. (32) Il poliabuso di sostanze potrebbe avere correlati genetici, investigati in alcuni studi che hanno valutato la dipendenza dalla combinazione d’alcol, tabacco ed altre sostanze psicotrope. (38, 44-46) Si può stimare, inoltre, che il rischio di dipendenza, da sostanze, é circa otto volte superiore tra i parenti di primo grado di un tossicodipendente, rispetto alla popolazione generale, in rapporto all’uso di diverse sostanze quali: oppioidi, cannabinoidi, cocaina e sedativi. (47,48).
Le differenze genetiche possono influenzare anche diversi aspetti dell’uso di sostanze, tra cui: - il livello di piacere soggettivamente indotto dalla loro assunzione (edonia/disedonia); - l’intensità degli effetti psicoattivi indotti da una singola dose; - lo sviluppo del craving, dell’astinenza e della tolleranza; - i livelli di tossicità, in acuto (overdose) ed in cronico.
I dati provenienti dalle ricerche genetiche possono fornire importanti indicazioni circa la patogenesi delle dipendenze, fornendo indicazioni di rischio relativo per ogni individuo e, quindi, uno strumento di prevenzione formidabile. L’identificazione di una predisposizione è solo un passo verso la comprensione di come quello specifico gene interagisce con i fattori ambientali, nel facilitare l’insorgere della dipendenza. (49) L’insieme delle conoscenze provenienti dalla ricerca, sui correlati neurobiologici delle dipendenze, potrà fornire, in un futuro relativamente prossimo, basi razionali per lo sviluppo di nuovi strumenti di prevenzione, diagnosi precoce e trattamento farmacologico e psico-comportamentale delle dipendenze. Gli screening genetici potrebbero identificare sottopopolazioni vulnerabili ai disturbi da uso di sostanze, alla dipendenza in generale e/o all’abuso ed alla dipendenza da una specifica sostanza psicotropa. Gli screening genetici mantengono, ovviamente i limiti propri di metodologie che offrono indicazioni, solo in termini di probabilità e mai di certezze, circa il verificarsi dell’evento e/o del comportamento nel singolo individuo. Un approccio preventivo di questo genere ha, ovviamente, forti implicazioni etico-sociali e medico-legali, in termini di consenso esplicito e volontario alla diagnosi ed alle terapie, con gli inevitabili rischi connessi di stigmatizzazione sociale e di discriminazioni possibili. Uno dei principali problemi che l’umanità dovrà affrontare, nel prossimo futuro, sarà rappresentato dalla necessità di confrontarsi, in senso etico e terapeutico, con le basi genetiche delle malattie.
La patologia funzionale dei sistemi cerebrali di modulazione della gratificazione
In psichiatria, il termine “anedonia” descrive la condizione del paziente completamente incapace di provare piacere d’ogni tipo. Ribot, nel 1897, introdusse il termine per descrivere una “patologica insensibilità al piacere”. (50) Egli applicò tale definizione a soggetti che erano incapaci di provare piacere in attività sessuali, alimentari, relazionali ed affettive. Bleuler, nel 1911, definì l’anedonia come una caratteristica basilare delle schizofrenie, “un segnale esterno del loro stato patologico”. (51) Kraepelin, nel 1913, parlò dell’anedonia come sintomo fondamentale della “dementia precox”, condizione clinica in cui i pazienti hanno “una caratteristica indifferenza verso le relazioni interumane… con perdita… di soddisfazione… nella ricreazione e nei piaceri, quale primo sintomo manifesto che segna l’esordio della patologia”. (52) In seguito, l’anedonia è stata riconosciuta non solo come espressione sintomatica di una patologia psicotica, ma anche come sintomo presente e rilevante nell’ambito dei disturbi dell’umore. Nel 1980, il DSM III ha indicato l’anedonia come uno dei core symptoms della depressione maggiore. (53) Ettenberg, nel 1993, ha definito e valutato quantitativamente l’anedonia, mediante specifiche scale. (54) Il DSM IV (1994) considera l’anedonia un sintomo nucleare della depressione maggiore, ma anche un sintomo negativo della schizofrenia. (55) Nella Letteratura scientifica internazionale la definizione stessa d’anedonia appare complessa e, talora, contraddittoria. Alcuni studiosi l’hanno interpretata, infatti, come una condizione o uno stato psicopatologico, mentre, altri, invece, hanno considerato l’anedonia una caratteristica personologica, un tratto di personalità. L’anedonia, inoltre, è definita, nel DSM IV, come perdita di reattività agli stimoli piacevoli, ma anche, come diminuzione degli interessi o appiattimento affettivo. Si può, così, evidenziare nell’ambito dell’anedonia, tre componenti distinguibili: 1. l’incapacità di desiderare il contatto con stimoli solitamente gratificanti; 2. l’incapacità di approcciare gli stimoli solitamente gratificanti; 3. l’incapacità di provare piacere, in seguito a stimoli o attività solitamente gratificanti. Secondo alcuni Autori (56) l’anedonia dovrebbe mantenere una caratteristica cronicità, al fine di differenziare il sintomo, propriamente psicopatologico, da uno stato, transitorio e reattivo, caratterizzato da una riduzione delle attitudini volitivo-motivazionali e/o relazionali, che può derivare da ordinarie e temporanee problematiche della vita quotidiana. In altri termini, sarebbe opportuno differenziare, clinicamente, uno stato psicopatologico tendenzialmente cronico, da una condizione transitoria e reattiva. In quest’ambito concettuale, come in altre condizioni psichiatriche, si suggerisce di distinguere, in una gradazione sintomatologica, la gravità del sintomo, da livelli para-fisiologici e transitori a condizioni cliniche croniche ed invalidanti. E’ opportuno, perciò, superare, sul piano anche semantico, il termine “anedonia” che richiama, in senso privativo, la sola assenza di piacere, per utilizzare, con maggiore proprietà linguistica, il termine di “disedonia”, che potrebbe includere tutte le possibili variazioni, qualitative e quantitative, della capacità di gratificazione del soggetto. (57) In particolare, in numerose condizioni psicopatologiche, possono essere evidenziate clinicamente e correlate neurobiologicamente, variazioni qualitative e quantitative della funzione edonica: 1. nella componente preparatoria (desiderio); 2. nella componente incentivante-motivazionale (attivazione, eccitazione, approccio); 3. nella componente consumatoria (piacere, soddisfazione, orgasmo). In questa prospettiva, Koob e Le Moal (58), nello studio delle dipendenze patologiche da sostanze psicotrope, hanno parlato di “disregolazione omeostatica edonica
Correlati neurobiologici della disedonia
Già nel 1954, Olds e Millner evidenziarono l’esistenza di strutture endocerebrali funzionalmente correlate alla gratificazione e al cosiddetto “reward” (ricompensa-rinforzo). In condizioni sperimentali, infatti, i ratti erano in grado di apprendere l’uso di una leva, che induceva una stimolazione elettrica intracerebrale “gratificante”, in un fenomeno definito “intracranial self-stimulation”. Numerosi studi successivi hanno confermato un ruolo preminente, in tale fenomeno, mediato dai sistemi mono-aminergici cerebrali, soprattutto dalla dopamina. (59-61) Wise, successivamente, propose un’ipotesi dopaminergica della ricompensa/ anedonia. (62-64) Secondo tale ipotesi le proprietà di rinforzo degli stimoli gratificanti e motivazionali, incondizionati, quali cibo, acqua, sesso e droghe d’abuso non solo sarebbero mediate dal tono dopaminergico meso-cortico-limbico, ma tale sistema modulerebbe anche l’apprendimento condizionato di rinforzi secondari. Numerose evidenze sperimentali hanno supportato tale ipotesi. (65) La teoria di Wise è stata accettata ampiamente dalla comunità scientifica, nonostante alcune evidenze negative, raccolte in ambito sperimentale e farmacologico. Tali osservazioni sono state rielaborate, nell’ambito di definizione clinica della “anhedonia” da Ettenberg nel 1993. (54) I circuiti neuronali dopaminergici meso-cortico-limbici svolgono un ruolo rilevante nei meccanismi della ricompensa ed in tutte le condizioni cliniche, in cui la capacità di provar piacere risulta alterata, ma è stato evidenziato sperimentalmente il coinvolgimento funzionale d’altri importanti sistemi neurotrasmettitoriali. (66-67) In particolare, alcuni studi farmacologici hanno evidenziato l’importanza relativa: - del tono oppioide a livello del Nucleo Accumbens (68); - del tono GABAergico a livello tronco-encefalico (69); - del tono noradrenergico e serotoninergico (70). Con l’uso di un agonista muscarinico Fritze e Beckam (1988) hanno costruito un modello animale in grado di riprodurre sperimentalmente una sindrome anergico-anedonica. (71) Sano ha correlato l’anedonia a deficit dei gangli della base. (72) Ebmeir & Ebert hanno evidenziato, mediante tecniche di neuroimaging, una correlazione tra anedonia ed interessamento anatomo-funzionale della corteccia fronto-limbica. (73) Altri studi hanno evidenziato risposte anomale agli stimoli oppioidi, correlate all’anedonia. (74) Papp et al., inoltre, hanno dimostrato che la morfina non riesce a provocare un condizionamento di “place preference” in un modello animale. (75) Senza dubbio la dopamina sembra funzionalmente correlata alle fasi anticipatorie, appetitive, preparatorie e motivazionali al comportamento d’approccio allo stimolo gratificante, nonché all’apprendimento condizionato di rinforzi secondari. (76) Gli altri sistemi neurotrasmettitoriali sarebbero coinvolti soprattutto nelle fasi pre-motivazionali (desiderio) e/o consumatorie (piacere), del rapporto con lo stimolo gratificante. L’attività funzionale del sistema cerebrale di ricompensa e la connessa capacità edonica, secondo alcuni studiosi, potrebbe essere distinta in tre componenti fondamentali: a.l’impatto edonico; b.l’apprendimento della ricompensa; c.l’efficacia dell’incentivo a stimolare o deprimere “il piacere”. (77)
L’impatto edonico sarebbe correlato all’attivazione elicitata dallo stimolo incondizionato. L’apprendimento della ricompensa sarebbe da correlare all’apprendimento associativo tra stimolo condizionato e stimolo incondizionato. La terza componente rileverebbe, negli incontri successivi con lo stimolo, quanto esso sia stato gratificante tanto da essere successivamente ricercato. È evidente come queste diverse componenti siano evidenziabili anche nell’uomo, soprattutto, in rapporto ai fenomeni di craving per le sostanze d’abuso, ma anche per cibo, alcol, sesso, gioco d’azzardo, nonché in altri quadri clinici dello spettro impulsivo come cleptomania e tricotillomania. (78-79)
Comorbidità psichiatrica delle dipendenze da sostanze
In ambito clinico, le dipendenze da sostanze si connotano per una loro intrinseca complessità. Esse, infatti, derivano dal convergere, sul singolo individuo: 1. delle sostanze d’abuso con le loro peculiarità farmacologiche, 2. delle condizioni di specifica vulnerabilità psicobiologica del paziente; 3. dell’influenza di numerosi fattori ambientali. Edwards et al. (80), in un lavoro della World Health Organization, hanno evidenziato che tra disturbi mentali e uso di sostanze possono intercorrere tre diversi tipi di associazione logica: - i disturbi mentali causano l’assunzione di sostanze; - i disturbi mentali conseguono all’uso di sostanze; - tra disturbi mentali ed uso di sostanze esiste solo un’associazione casuale. L’assunto che una sostanza induca, di per sé, un quadro psicopatologico va sempre adeguatamente e criticamente verificato. Nell’associazione clinica ed epidemiologica tra abuso di sostanze e quadro clinico psicopatologico, infatti, possono sussistere diversi rapporti etio-patogenetici: 1.una sostanza può indurre una sindrome psicopatologica ex novo; 2.una sostanza può evidenziare un disturbo psicopatologico latente; 3.una sostanza può causare la ricaduta in un preesistente disturbo mentale; 4.il quadro psicopatologico può indurre all’assunzione più o meno frequente della sostanza; 5.la relazione tra quadro psicopatologico ed abuso di sostanze è spurio (cioè un quadro psicopatologico precede l’uso di sostanze, ma, talora, subisce per effetto delle sostanze una evidente patomorfosi); 6.può non esservi relazione tra quadro psichiatrico ed assunzione di sostanze.
Alcuni requisiti logici devono essere soddisfatti, inoltre, per passare dal livello epidemiologico d’associazione al livello interpretativo o causale: - forza dell’associazione: il rischio relativo deve essere sensibilmente elevato; - specificità dell’associazione: il rischio relativo deve riguardare quadri clinici ben definiti e non equivoci; - temporalità dell’associazione: il fattore causa deve precedere il fattore effetto; - stabilità dell’associazione: l’associazione deve essere verificata da osservatori diversi in circostanze, luoghi ed epoche differenti; - plausibilità e coerenza: l’insieme delle osservazioni non deve essere incoerente e contraddittorio; - evidenza sperimentale: qualora un disegno sperimentale in quest’ambito sia eticamente accettabile; - gradiente biologico dell’associazione: identificazione di una relazione dose- risposta, qualora esistente.
Alcuni dati epidemiologici ed osservazionali evidenziano nella popolazione nordamericana la copresenza di una dipendenza da sostanze, in oltre il 50 % dei soggetti affetti da una malattia mentale, rispetto al 6% evidenziato nella popolazione generale. Il rischio di presentare una dipendenza da sostanze, nei soggetti con patologia psichiatrica è stato calcolato essere 4.5 volte superiore, rispetto a chi non ha malattie mentali. La prevalenza lifetime della dipendenza da alcol è stata calcolata essere il 22% nei soggetti psichiatrici e del 14% nella popolazione generale, con un rischio di dipendenza più alto di 2.3 volte tra i pazienti psichiatrici. (81) Alcuni studi recenti hanno evidenziato la presenza lifetime di depressione maggiore, in una percentuale del 38-44 % dei soggetti con dipendenza da alcol, rispetto al 7% della popolazione generale. Inoltre, circa l’80% dei soggetti con dipendenza alcolica presenta almeno alcuni sintomi depressivi. (81-83) Un soggetto con dipendenza alcolica ha un rischio 3.3 volte superiore, rispetto ad un soggetto non alcolista, di sviluppare una psicosi schizofrenica, mentre un soggetto psicotico ha un rischio valutato di 3.8 volte superiore, di sviluppare una dipendenza da alcol rispetto alla popolazione generale. (81) I pazienti schizofrenici fumano tabacco in percentuali molto superiori a quelli della popolazione generale. E’ stato stimato che, negli USA, fuma una percentuale variabile tra il 26 ed il 88 % di pazienti psichiatrici, con diversa diagnosi, contro un 20-30 % della popolazione generale. (84-86) Alcune osservazioni cliniche evidenziano una relazione tra depressione e fumo di sigarette. In studi epidemiologici nordamericani, oltre il 60% dei forti fumatori aveva una storia di malattia mentale, mentre l’incidenza della depressione maggiore era circa il doppio tra i forti fumatori rispetto alla popolazione generale. (84) La depressione maggiore risulta essere presente lifetime nel 38% degli assuntori di cocaina e solo nel 8-13% dei non assuntori. (81, 84, 87, 88) Un alto grado di comorbidità tra uso di psicostimolanti e disturbi psicotici è stato ripetutamente segnalato. L’uso di psicostimolanti risulta essere 2-5 volte superiore tra gli schizofrenici rispetto a soggetti non schizofrenici. (89) La dipendenza da sostanze, in soggetti con malattie mentali, è molto più frequente rispetto a quanto avviene nella popolazione generale. Ciò può conseguire ad una comune base neurobiologica, per entrambi le condizioni patologiche, oppure ad una diversa interazione, a qualche altro livello fisiopatologico. L’approfondimento delle nostre conoscenze sui fattori etiopatogenetici delle malattie mentali e della dipendenza da sostanze potrebbe facilitare non solo la comprensione dei fattori fisiopatologici comuni implicati, ma avere anche importanti ripercussioni sul piano terapeutico e preventivo.
Quando coesistono una malattia mentale ed una dipendenza da sostanze può essere che:
1. abbiano comuni fattori patogenetici a livello neurobiologico; 2. l’uso di sostanze possa alleviare alcuni sintomi della malattia mentale oppure alcuni effetti collaterali della sua medicazione; 3. l’uso di sostanze possa indurre o precipitare la malattia mentale o indurre effetti neurobiologici con elementi patofisiologici comuni col disturbo psichiatrico. Evidenze scientifiche a sostegno di tutte queste tre ipotesi, sono state raccolte. Molte sostanze psicotrope possono indurre sindromi psichiatriche affini a quelle presenti in condizioni cliniche spontanee. E’ noto che le amfetamine e la cocaina possono indurre quadri psicotici deliranti. Gli allucinogeni possono indurre dispercezioni complesse affini a quelle presenti in alcune forme di psicosi. Diverse sostanze d’abuso possono indurre variazioni del tono dell’umore di tipo subeuforico e/o ipomaniacale, talora con successivi effetti depressivi, in fase d’astinenza. Le sostanze d’abuso possono variamente alterare le funzioni cognitive, che risultano patogeneticamente correlate a diverse patologie mentali. Queste considerazioni lasciano ipotizzare comuni meccanismi patogenetici alla base d’alcuni disturbi psichiatrici e delle dipendenze da sostanze. Numerose evidenze scientifiche supportano l’ipotesi di un coinvolgimento funzionale di meccanismi fisiopatologici comuni tra questi disturbi. Ciò potrebbe permettere nuovi approcci terapeutici e preventivi, ad entrambi questi disturbi, in rapporto al progredire delle conoscenze in ambito neuroscientifico. Il sistema meso-cortico-limbico, in rapporto alle sue peculiari funzioni di selezione ed apprendimento, di risposte comportamentali adattive, agli stimoli ambientali motivazionali, potrebbe svolgere un ruolo nella fisiopatologia di diverse patologie mentali, oltre che nella dipendenza da sostanze psicotrope. In quest’ottica, la comorbidità psichiatrica delle dipendenze da sostanze assume una nuova dimensione clinica. E’ verosimile ipotizzare, infatti, che il sistema meso-cortico-limbico, fortemente correlato alla funzione edonica, possa presentare una sua disfunzione precedente, almeno in alcuni pazienti, l’insorgere e l’associarsi di una dipendenza e/o di altri disturbi psicopatologici. Una disregolazione omeostatica edonica (disedonia) potrebbe, perciò, precedere e/o associarsi, oltre che conseguire, agli effetti indotti dall’assunzione di sostanze psicotrope. (57)
Considerazioni clinico - terapeutiche conclusive
La presenza e l’incidenza della comorbidità psichiatrica, tra gli utenti dei servizi psichiatrici territoriali, sembra essere tanto frequente da rappresentare la condizione clinica più diffusa, soprattutto tra i pazienti in trattamento da vari anni, ma anche per una significativa quota di patologia incidente. (90, 91) E’ verosimile che parte di questa “comorbidità”, vale a dire della presenza contemporanea, di segni e sintomi sufficienti, per numero e durata, a porre correttamente diagnosi per diversi disturbi clinici, nello stesso paziente, dipenda dalla stessa struttura del sistema nosografico multiassiale, proprio del DSM. (53, 55) Ciò nonostante risulta evidente, in un numero crescente di pazienti, la presenza di diversi quadri clinici d’Asse I e d’Asse II, variamente associati tra loro e, molto frequentemente, associati e correlati all’assunzione, all’uso più o meno continuativo ed alla dipendenza da alcol e sostanze psicotrope illecite. Nello studio della comorbidità psichiatrica delle dipendenze da sostanze risulta spesso difficile definire, sul piano diagnostico, il ruolo svolto dall’uso di sostanze nell’etiopatogenesi del disturbo psichiatrico e, viceversa, l’effetto svolto da un’eventuale psicopatologia, in atto o latente, sull’insorgere della dipendenza. Risulta significativa l’associazione tra Disturbi da Uso di Sostanze (D.U.S.) da un lato e disturbi dell’umore, disturbi di personalità, disturbi d’ansia, disturbi del controllo degli impulsi, disturbi dell’alimentazione e, in minor misura, disturbi psicotici, dall’altro. Nella Letteratura scientifica internazionale è stato ripetutamente verificato, per esempio, che i soggetti con disturbo bipolare dell’umore presentano una comorbilità psichiatrica, d’Asse I, in oltre il 50 % dei casi. Nella pratica clinica è, perciò, più facile imbattersi in un soggetto bipolare in comorbidità, che in un soggetto affetto dal solo disturbo bipolare dell’umore. I dati epidemiologici confermano, inoltre, nei pazienti bipolari, con comorbidità psichiatrica d’Asse I, un esordio precoce del disturbo, una più rapida evolutività, maggiore morbilità e mortalità, peggiore prognosi ed outcome, nonché una bassa compliance ed una ridotta efficacia terapeutica. La diagnosi in Psichiatria, diversamente da quello che avviene in Medicina, resta una definizione sindromica, convenzionalmente determinata. La diagnosi categoriale nulla permette di inferire circa i substrati patofisiologici sottesi ai diversi quadri clinici in comorbidità. Sulla base di numerosi studi sperimentali e clinici, si è, di recente, passati, anche ai fini terapeutici, da un inquadramento nosografico rigidamente categoriale, alla definizione di patologie di spettro, di “continuum psicopatologico” e, di recente, alla definizione di dimensioni psicopatologiche, sottese ai diversi quadri diagnostici classici. La ricerca di comuni meccanismi patofisiologici, sottesi a quadri psicopatologici apparentemente lontani sul piano nosografico, non solo ha permesso la definizione di patologie di spettro transnosografico (per esempio ansia-depressione), ma anche l’utilizzo efficace di strumenti terapeutici specifici, che agiscono su comuni fattori patofisiologici (p.es. farmaci serotoninergici). Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un formidabile e tumultuoso incremento delle conoscenze neuroscientifiche, circa i correlati patofisiologici delle dipendenze da sostanze. Numerosi studi confermano il coinvolgimento funzionale d’alcuni neuropeptidi a livello amigdaloideo e meso-cortico-limbico, quali CRF, NPY e somatostatina, nella vulnerabilità all’uso di sostanze e nella risposta allo stress. La dipendenza da sostanze risulta essere correlata a numerosi indici neurobiologici, di vulnerabilità genetica, che coinvolgono diversi recettori per i neurotrasmettitori ed i neuropeptidi, enzimi e citocromi. Gli studi di genetica delle dipendenze da sostanze hanno permesso di identificare, già, diversi geni canditati e specifici, nella vulnerabilità a specifiche sostanze d’abuso. (32) Studi clinici ed epidemiologici hanno evidenziato dati discordanti rispetto all’ipotesi dell’automedicazione, p.es. utilizzo di psicostimolanti da parte di soggetti in fase ipomaniacale oppure utilizzo di sedativi e/o narcotici da parte di soggetti depressi. L’assunzione reiterata di droghe d’abuso: 1. alza la soglia di gratificazione; 2. induce eventi neuroadattivi che producono una disregolazione omeostatica edonica (disedonia). Alcuni modelli animali (ratti tossicofili Fischer F344) confermano che alterazioni della regolazione omeostatica edonica (disedonia) potrebbero pre-esistere, all’assunzione di sostanze, e trovare paradossale compenso funzionale, nell’uso di droghe. L’uso di droghe potrebbe avere l’obiettivo di ripristinare un corretto livello edonico (funzionalità del sistema mesolimbico dopaminergico, della neuromodulazione peptidergica, etc.) cioé di ripristinare una disregolazione dell’omeostasi edonica pre-esistente all’assunzione di droghe. In un’ottica più ampia, la disedonia potrebbe rappresentare una sorta di “dimensione delle dimensioni” psicopatologiche ed essere sottesa a numerosi altri disturbi comportamentali, in ambito psichiatrico, quali: bulimia/anoressia, gioco d’azzardo, disturbo del controllo degli impulsi, personalità borderline, etc. (57) L’incidenza epidemiologica della comorbidità psichiatrica, tra diversi quadri psicopatologici d’Asse I e d’Asse II, e di questi con i Disturbi da Uso di Sostanze, risulta essere così evidente da rappresentare il vero nucleo della pratica quotidiana, in psichiatria. Nonostante ciò, veramente scarsi sono, in letteratura scientifica internazionale, gli studi riservati a questa specifica condizione. Gli studi internazionali di Evidence-Based Medicine, svolti nel rispetto di tutte le raccomandazioni per la corretta sperimentazione dei farmaci, introducendo una serie di criteri di selezione del campione trattato, giungono, paradossalmente, a testare i farmaci su soggetti sostanzialmente diversi, sul piano clinico, da quelli cui è, di fatto, rivolta la terapia, nella pratica quotidiana. I dati di Letteratura risultano, comunque, di fondamentale importanza nello studio e nella ricerca dei comuni meccanismi patofisiologici, sottesi ai diversi quadri psicopatologici, presenti in comorbidità. Questa ricerca rappresenta la premessa razionale all’utilizzo efficace di farmaci e/o trattamenti specifici, che possono avere effetti terapeutici, agendo sulle comuni dimensioni psicopatologiche, sottese ai diversi quadri sindromici. In questo senso, la terapia psichiatrica sta orientandosi sempre più verso un approccio terapeutico dimensionale anziché categoriale. Gli stessi farmaci possono così agire su sintomi apparentemente lontani, sul piano nosografico, ma molto strettamente interrelati sul piano patofisiologico. Basti pensare, a titolo esemplificativo, all’effetto degli S.S.R.I. su ansia, panico, DOC, bulimia e depressione. La ricerca di fattori patofisiologici comuni ed il loro trattamento non solo facilita la risoluzione di diversi sintomi clinici, contemporaneamente presenti, ma svolge un formidabile effetto anche nel migliorare la compliance terapeutica, riducendo o evitando il ricorso ad un’eccessiva e, spesso, problematica poli-farmacoterapia. L’introduzione nella pratica clinica degli antipsicotici atipici ha fornito ai terapeuti nuovi e formidabili strumenti di trattamento, ma, come è sempre accaduto in psichiatria, anche e soprattutto, strumenti d’investigazione ed interpretazione dei correlati neurobiologici delle patologie mentali. Questi farmaci hanno dimostrato un’efficacia clinica, non solo nel trattamento dei disturbi psicotici, ma anche nel controllo della mania, nella prevenzione dei disturbi bipolari e nella modulazione d’altre dimensioni psicopatologiche, clinicamente rilevanti, quali ostilità, aggressività, impulsività ed instabilità emotiva. Tali osservazioni psicofarmacologiche, che sembrano avvalorare la presenza di comuni fattori patofisiologici alla base dei disturbi bipolari e dei disturbi dello spettro schizofrenico, sono state recentemente avallate da osservazioni, provenienti da studi di genetica, che hanno evidenziato una significativa sovrapposizione di diversi loci cromosomici, funzionalmente implicati nell’etiopatogenesi sia dei disturbi psicotici sia dei disturbi bipolari. Numerosi studi confermano l’efficacia terapeutica di diverse categorie farmacologiche nel trattamento delle psicopatologie correlate all’uso, all’abuso e/o all’astinenza da sostanze. Alcune osservazioni cliniche sostengono l’efficacia della farmacoterapia, non solo nel controllo dei sintomi propriamente psichiatrici, ma anche nel controllo dei comportamenti d’abuso, correlati al craving. Alcuni Autori hanno proposto un approccio terapeutico gerarchico alla comorbidità psichiatrica delle dipendenze da sostanze, prevedendo diversi livelli di priorità. Gli obiettivi della terapia secondo questo approccio sarebbero rappresentati, in ordine, dal trattamento di: disturbi indotti da sostanze (DIS) con terapia sintomatica > disturbi da uso di sostanze (DUS) con terapie sostitutive (agonisti), avversive (antagonisti), anticraving, astinenza > disturbi psichiatrici in comorbidità con terapia idonea specifica (stabilizzatori dell’umore, antipsicotici atipici, serotoninergici, etc.) > prevenzione delle ricadute con terapie anticraving e/o trattamenti integrati multimodali. (92) Nella nostra esperienza, gli approcci terapeutici alla comorbilità psichiatrica, in soggetti con abuso di sostanze, necessitano di specifiche modalità di trattamento. In particolare: 1. 1. l’approccio terapeutico deve essere sempre integrato, con l’uso di tecniche, metodiche e strategie mediche, psicologiche e socio-assistenziali, utilizzate in sinergia; 2. l’approccio terapeutico deve essere sempre centrato sulla persona e le sue specifiche problematiche. (93) L’utilizzo di un trattamento integrato multimodale, sufficientemente personalizzato, può prescindere da rigidità gerarchiche o sequenziali di terapia. Nella prassi clinica, spesso, il trattamento efficace, talora anche non farmacologico, d’aspetti sintomatologici nucleari, particolarmente disturbanti, può avere ripercussioni favorevoli sia nella gestione dei quadri di comorbidità psichiatrica sia nel controllo dei disturbi da uso di sostanze. (94-96) In particolare, gli antipsicotici atipici rappresentano un gruppo eterogeneo di farmaci che hanno complessi meccanismi d’azione, agendo su recettori diversi per la dopamina (D2, D1, D3, D4) e per la serotonina (5-HT2A, 5-HT2C, 5-HT1A, e 5-HT1D). L’utilizzo degli antipsicotici atipici dovrebbe perseguire l’obiettivo di riequilibrare i sintomi, facendo, magari, combaciare il profilo d’azione recettoriale del farmaco, con il quadro di verosimile impegno funzionale del disturbo clinico. (97) Una nostra recente esperienza ha confermato, per esempio, l’efficacia della quetiapina nel trattamento dell’impulsività in soggetti borderline, con grave comorbidità d’Asse I e con DUS, con buona compliance ed ottimi risultati clinici complessivi, per tempi d’osservazione e terapia, significativamente lunghi (nove mesi consecutivi). ( 98) Importanti indicazioni nella ricerca delle basi patofisiologiche comuni ai diversi quadri di comorbidità psichiatrica, ma anche nella personalizzazione dei trattamenti, potrebbero essere fornite, nel prossimo futuro, dagli studi di farmaco-genomica, in rapido sviluppo. (32)
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