L'ultima parola è della natura
di Giuseppe Moretti - 04/12/2005
Fonte: filosofiatv.org
Penso capiti in molti oramai andare in luoghi preferiti nella natura per rilassarsi, meditare o per una passeggiata. Può essere un bosco o un tratto di costa di mare, un sentiero di montagna o semplicemente un giardino fiorito. Io preferisco il fiume. Sono anni che vado al fiume ma non mi basta andarci e sedermi in riva ed osservare la corrente che và, oppure l’improvviso ‘sguazzare’ di qualche pesce o il volo a pelo d’acqua dei cormorani. A me piace andare incontro al fiume e cioè: camminando controcorrente. Non so il motivo di questo ma a livello di sensazioni posso dire che è diverso dall’andare in giù seguendo il corso della corrente. Forse ha a che fare con la voglia di toccare con mano l’interdipendenza fisica con l’’altro’, il fiume, in questo caso. Oppure, si potrebbe dire che risalire la corrente è un po’ come andare – metaforicamente – alla fonte, alla sorgente delle cose, della vita, del nostro essere qui su questo pianeta. Oppure, più modestamente, è per sfuggire alla devastazione che mi circonda, perché, se è vero che anche lì i segni sono evidenti: l’acqua è inquinata, i rifiuti non mancano, i tentativi di addomesticarne il corso e di costringerlo tra alti argini sono macroscopici; ebbene lì in riva al fiume non si può non fare a meno di ammirarne la bellezza e la forza primordiale, ed è netta la sensazione che gli sforzi per dominarne la selvaticità in fondo non sono altro che una arrogante illusione perché, alla fine, è del fiume l’ultima parola.
Già, “la natura batte per ultima”, come ama dire il poeta Gary Snyder. I popoli antichi della terra erano consapevoli di questo e di fronte a ciò mostravano timore ma anche riverenza e plasmavano le loro società stando bene attenti a non oltrepassarne i limiti; ne avevano codificato l’importanza trasferendola nei miti e nelle leggende cosicché le generazioni successive potessero imparare e portare rispetto. Poi venne la scienza, la tecnologia, il progresso, il benessere e con essi la capacità mentale, scientifica e tecnologica di decidere chi e quali esseri e cose possono co-esistere con l’uomo e le sue invenzioni. Da qui una guerra infinita è iniziata contro la natura e a tutto ciò che è indipendente da noi: il selvatico.
In un recente rapporto sullo stato degli ecosistemi, il Millennium Ecosystem Assessment”, commissionato dalle Nazioni Unite e realizzato in quattro anni da 1360 scienziati di 95 nazioni, risulta che 15 dei 24 ecosistemi esaminati sono in declino e che andando avanti come negli ultimi decenni, si prevede che fra 40 anni si presenterà una situazione critica per la sopravvivenza di un ecosistema adatto alla vita umana e animale. Gli scienziati ammoniscono che “la natura non è qualcosa da visitare nelle gite domenicali e che la conservazione degli spazi naturali non è un lusso ma una questione di sopravvivenza”, e dichiarano che “esistono le risorse scientifiche per far fronte alla sfida”.
Già, gli scienziati, loro si dichiarano “pronti alla sfida” e i politici discutono per riformare i sistemi di produzione in senso ecologico, ma le misure sin qui prese sembrano più palliativi che una reale volontà di cambiamento. Anzi, le forze dominanti, i poteri forti – sia economici che militari, l’individuale alle spese del collettivo, sono tutt’altro che sconfitte. E le forze che per loro natura dovrebbero essere portavoce del bene comune —della comunità— sembrano del tutto incapaci di comprendere che, dopotutto, siamo solo un segmento della più ampia rete ecologica. E quelli che testardamente avvertono che quello che facciamo alla Terra lo facciamo a noi stessi, vengono presi per ingenui utopisti sognatori del nulla. Eppure i 9/10 della storia dell’uomo su questo pianeta è stata vissuta come se la natura tutta fosse importante.
In una intervista a Mathis Wackernagel, l’inventore dell’Impronta Ecologica, la scienza che studia l’impatto delle attività umane sull’ambiente, gli è stato chiesto come vede sotto questo profilo la situazione dell’Italia, la sua risposta è stata che “per essere pari tra consumo e biocapacità del vostro territorio, avreste bisogno di quasi 4 Italie, e se tutto il mondo vivesse come si vive in Italia, ci vorrebbero due pianeti e mezzo”. Naturalmente sappiamo anche che ci sono situazioni peggiori del nostro paese. Poi, più avanti nell’intervista, fa una distinzione tra coscienza e cultura ambientale “Se c’è cultura ambientale un’amministrazione pubblica riesce a parlare di limiti ecologici. Se c’è solo coscienza e non cultura è facile che venga negato il collegamento tra quello che si decide di fare e lo stato reale dell’ambiente”.
Già, cultura, come se da un sistema economico e culturale com’è quello dominante oggi, proiettato verso lo sfruttamento globale delle risorse e quindi della Terra, delle genti e quindi dei loro diritti, ci si potesse aspettare una cultura del rispetto e del limite. Forse non è ancora ben chiaro il percorso per arrivare a questa cultura ‘altra’, ma indubbiamente quello di cui c’è bisogno è andare oltre le ideologie, i dogmi e i nazionalismi per arrivare, finalmente, a coniugare economia ed ecosistema, politica ed ecosistema, cultura ed ecosistema, educazione ed ecosistema, salute ed ecosistema, casa ed ecosistema…, come se fossero due parole dello stesso significato.
Gli ecosistemi sono parte del pentagramma della Terra, così come lo sono le bioregioni, grandi e piccole al loro interno. Essi/esse sono espressione dell’evoluzione naturale del pianeta: creati, modellati, rivoltati più volte, frutto di bilioni di anni di processi biologici, idrologici, geologici ed atmosferici, alimentati dall’energia del sole, in perfetta autosufficienza e senza sprechi; esseri e organismi ad arricchire la magia della vita e il ciclo degli elementi alla base dei fenomeni complessi: espressione dell’integrità e diversità del tutto. Una irripetibile serie di combinazioni che nessuna mente può eguagliare è alla base di tutto quello che c’è e che abbiamo. Noi siamo perché esiste quest’ampia rete ecologica dove ogni singolo essere o cosa ha dignità e significato. Le nostre economie, culture, tradizioni, manufatti, religioni, sistemi energetici, scoperte scientifiche ecc…, ma anche arte, intuito, creatività e stili di vita sono intrinsecamente parte di essa e della quale, quantunque la nostra presunzione, sappiamo ben poco. Noi siamo perché esiste il lupo, la montagna e la verde valle.
Questa è una verità così disarmante nella sua elementarità che viene il sospetto che davvero non si ha la percezione della tragedia che la civiltà consumista ha spianato. Di fatto i confini dopo i quali la natura è costretta a ’battere per ultimo’ sono da tempo erosi: i fiumi straripano e si riprendono le loro valli, le montagne franano e rimodellano il territorio, animali tenuti in cattività in condizioni inaccettabili decimati da virus e agenti patogeni via via sempre più difficili da fronteggiare, ed è il bosco paziente che ancora una volta si prende cura dei campi un tempo coltivati e ora abbandonati.
La Terra è una e irripetibile, i grandi ecosistemi e le bioregioni sono espressione di delicati equilibri verso i quali i popoli sono chiamati e ridare voce attraverso le loro leggi, le loro culture, politiche e le forme di governo che si sono dati. Ma è a livello personale che si deve compiere l’atto più profondo, più coraggioso e, oggi, altamente difficoltoso e cioè: recuperare noi stessi all’interno di un senso delicatamente profondo e saggiamente spirituale di appartenenza alla Terra. Allora, forse, potrà nascere quella cultura improntata al senso del limite e alla saggezza ecologica che sappia, al tempo stesso, rispettare i diritti della Terra e delle future generazioni.
Così, risalendo il fiume la mia mente và a tutti quelli (pochi o tanti che siano) che nel nostro paese, come nel resto del mondo, stanno ri-abitando con fiducia e immaginazione campagne e centri urbani incuranti dei fasti del consumismo e delle trappole del liberismo più sfrenato, pur di rinverdire il pianeta e ridare un senso alla propria vita e un’altra possibilità alla giustizia sociale ed ecologica. E sono i nuovi contadini che preferiscono produrre di meno rispettando di più; i nuovi insegnanti che sperimentano l’insegnamento della natura; i nuovi ‘dottori’ che sanno curare il corpo e la mente; quelli che danno sempre una possibilità alla pace; quelli che danno voce a chi non ce l’ha e che si oppongono alla distruzione della biodiversità. Quelli che sanno vivere con meno; quelli ‘lungo la via, fuori dal sentiero’; e poi gli artisti, i poeti, i musicisti, che tengono viva l’immaginazione ed elevato lo spirito, ma anche tutti gli altri, donne e uomini, che sanno bene dove è rivolta la ‘testa del mostro’ e perdio! lottano duro per annichilirne il ‘potere’.
La loro è una sorta di ‘rivoluzione silente’, che procede senza far chiasso ma è al tempo stesso così profonda da sviluppare un’etica che alla fine, si spera, coinvolga le persone a percorrere quello che i popoli indigeni della Terra da sempre chiamano, il sentiero della bellezza.