Una Terra plurale
di Luisa Bonesio - 05/12/2005
Fonte: filosofiatv.org
1. Terra pluriversa
Il titolo vuole richiamare l'attenzione su quella che è la posta in gioco e insieme l'apparente aporia di un pensiero della Terra e delle identità: l'unità e la pluriversità che un nomos che sia davvero tale deve contemperare. Imperativo che è innanzitutto simbolico, sacrale ed ecologico: il tutto (della Terra) si dà di volta in volta in aspetti e configurazioni dotati di significato che sono sempre singolari, pur riconnettendosi (per contiguità o disgiunzione) ad ogni altra. Come ho avuto più volte modo di affermare, la Terra è una, pur dandosi in una molteplicità di volti, rivelandosi in una pluralità di modi: idiomi, paesaggi, culture, nature, forme comunitarie, stili; e qualsiasi riduzione o semplificazione di questa complessità costituisce un attentato all'integrità stessa del nostro abitare sulla Terra.
La Terra è "sacra", dunque, in ogni sua manifestazione, innanzitutto nel suo essere il luogo che ci ospita e rende possibile la nostra vita, accanto a tutte le altre forme di vita; ogni suo luogo è investito di sacralità e degno di essere trattato dall'uomo con attenzione, misura e rispetto. E analogamente accade per le culture umane: molteplici, essenzialmente differenti, ognuna caratterizzata dal suo stile singolare, dalla propria fisionomia e inconfondibile intonazione, ma proprio per questo, de-finita e in costitutivo rapporto con le altre (oltre che con Altro in generale: natura e divino). Ogni cultura, come ogni luogo in cui vive, è un valore, è per i propri appartenenti "sacra", è il centro del Mondo. Pensare che il proprio luogo sia il Centro del Mondo, o addirittura l'Axis Mundi, comporta un atteggiamento religioso e sacrale, dunque un pensiero non strutturato dalle categorie quantitative, astratte e calcolatorie tipiche della razionalità moderna.
Così l'infinità dei centri del mondo (per i nomadi aborigeni dell'Australia la propria terra, il centro del mondo è il punto dove viene confitto il palo che sostiene la tenda, giorno dopo giorno, in luoghi sempre diversi) non è un controsenso, come lo sarebbe se si pensasse ad uno spazio geometrico, omogeneo, calcolabile: in ogni punto è riconoscibile il luogo di comunicazione con Altro, lo spazio di fondazione di un abitato, di erezione di una dimora, purché -naturalmente- adempia a certi requisiti simbolici e ontologici. Così abitare, costruire, coltivare saranno atti consapevoli di accadere in un contesto denso di implicazioni e significati, e dunque non manomettibile arbitrariamente.
«Installarsi in un territorio, costruire un'abitazione, richiede [...] una decisione vitale sia per l'intera comunità, sia per il singolo individuo. Poiché si tratta di assumere la creazione del "mondo" che si è scelto di abitare»1.
È una decisione che va presa sempre di nuovo, in ogni minimo atto o scelta della nostra vita individuale e collettiva, e che in realtà è sempre più difficile -e insieme massimamente urgente- perché noi abbiamo pressoché del tutto smarrito ogni sapienza della terra, ogni ethos dell'abitare, in una caoticizzazione degli spazi e nel livellamento di qualsiasi nomos. E occorre ricordare che sono state proprio le comunità più ricche, più industrializzate, più protese all'incremento indefinito del profitto quelle che più si sono rese responsabili della distruzione del nomos della Terra. Sono i territori più ricchi e industrializzati, quelli più disordinati, degradati, invivibili, il cui volto è quello di un paesaggio da cantiere e da officina, quando non di rapina; è qui che si è fatto strame della sapienza della terra, della misura dell'abitare.
Perché, come ricorda Cacciari,
«Ethos significa il soggiornare, la duratura forma della dimora; Nomos gli è direttamente connesso, poiché némein vuol dire anche abitare (non soltanto afferrare-spartire la terra), ma saperla abitare»2.
Dunque innumerevoli centri del mondo, che è come dire innumerevoli luoghi in cui la Terra diventa la terra per una comunità di abitanti, assume un suo inconfondibile volto; nel quale l'interazione di cultura e natura si dà in forme geograficamente e simbolicamente determinate, in quelle che Jean Gottmann chiamava "iconografie regionali", offrendo specifiche possibilità e risorse, prestandosi ad entrare in un'alleanza con gli stili di azione e di trasformazione, dando luogo a paesaggi che, nell'inconfondibilità delle proprie fisionomie, costituiscono i sigilli e le segnature dell'identità tradizionale delle comunità. Un'unità -quella della Terra- variamente differenziata, portata a visibilità, ad espressione, a significato: tutti questi significati, tutte queste sfaccettature, tutti gli idiomi, tutti gli stili, tutti i volti delle culture sono necessari all'integrità della Terra e sono "garantiti", da un punto di vista sacrale, proprio da quell'orizzonte più ampio e comprensivo costituito dall'insieme del Tutto in cui ogni parte trova la sua legittima e sensata collocazione. Così ogni arroganza -ogni pretesa di arrogarsi il tutto, o di valere per il tutto- è violenza scardinante, che vota alla distruzione la cultura che se ne fa portatrice, non riconoscendo che l'equilibrio delle parti nel funzionamento del tutto è insieme delicato (è facile per un'umanità degenerata non riconoscerlo e violarlo) e inflessibile (cioè si ristabilisce comunque, anche contro la sprovvedutezza dell'uomo): equilibrio significa che nessuno è interamente padrone di ciò che lo precede, lo seguirà e che permette la sua stessa vita. Dunque sentire la propria terra come centro ha senso solo se si riconosce l'orizzonte di Altro in cui ogni nostro mondo è costitutivamente collocato: innanzitutto l'Altro del divino e della natura, ma anche l'alterità, la differenza, delle culture e delle comunità diverse dalla propria. Se ognuno di noi e ogni cultura sa collocarsi al centro, sarà al contempo in comunicazione con tutto, e proprio per questo rifiuterà di farsi omologare e di imporre un unico stile di vita. Sentirsi al centro del proprio mondo non vuol dire, evidentemente, essere la circonferenza della realtà, ma adottare una misura intrinseca al luogo in cui una cultura si riconosce, produrre sempre nuove e coerenti azioni territorializzanti.
Qui sta quella che è stata chiamata «la saggezza della terra», l'ecosofia: ossia il saper riconoscere, tanto più profondamente e urgentemente in quest'epoca di accecamento e di stolidità materialistica, di gretto senso comune, quell'ordine in cui soltanto ogni tassello può trovare la sua piena e significativa collocazione. Sapere riconoscere che cosa vuole la Terra, quale è la legge del cosmo, di quella splendente bellezza troppo gravemente deturpata dalla nostra arroganza razionalistica. Perché appunto la cultura moderna è quella che arroga a sé tutta la legittimità della conoscenza, tutto il potere della trasformazione, tutta la violenza di sterminare le differenze, di annullare le sue radici terrestri e divine, di omologare in nome della tecnoscienza e del profitto tutti i significati e i volti del mondo.
E invece occorre riconoscere l'ordo, la misura, la legge che consente la piena realizzazione di ogni aspetto, in un equilibrio sempre nuovo e dinamico di affermazioni molteplici: questo significa riconoscere la sacralità della Terra e dunque avere in ogni nostro atto una consapevolezza "rituale" (ordo, rta, tao, dharma, kosmos sono i nomi con i quali le civiltà hanno designato l'ordine e l'armonia cosmica), prendendo d'altra parte atto che noi, moderni o postmoderni profani e laicizzati, materialisticamente indirizzati, non possiamo certo confidare in accesso immediato e diretto alla sacralità della Terra, come se non ci trovassimo in un'età che ha smarrito pressoché ogni sapienza religiosa e rituale, ma solo consapevolmente intraprendere la via della contemplazione, della misura, della cura, del rispetto, del silenzio e della gratitudine. Né possiamo pretendere il diritto all'esclusiva o alla strumentalizzazione della sacralità, come farebbe qualsiasi integralismo o un pensiero insufficiente, ingenuo e votato all'autodistruzione.
2. La desacralizzazione contemporanea
Ma noi contemporanei siamo in grado di acquisire e attuare questa consapevolezza? L'intera vicenda dell'Occidente moderno, di cui l'ideologia della globalizzazione non è che l'ultimo atto e la più recente parola d'ordine, dovrebbe far propendere per una conclusione negativa. Si potrebbe forse pensare che è proprio l'estremo Occidente, quello che ha imboccato per primo la strada della modernizzazione e dello sradicamento, della lotta contro la natura e la memoria, quello che potrebbe infine intravedere la possibilità di strade diverse. D'altra parte, però, "Occidente" ha cessato di corrispondere ad una realtà geografica ben definita per diventare l'uniforme del mondo, lo stile della sua omologazione, nella quale ha perso anche se stesso, la sua anima culturale, il suo stile, finendo con il trasformarsi nell'imperativo capitalistico dell'accrescimento fine a se stesso. Noi, Occidentali ed Europei, abbiamo visto abrase le nostre stesse identità storiche man mano che si espandeva il modello unico della Megamacchina, come inevitabile contraccolpo per aver cancellato, in nome del nostro "progresso", le altre culture. Non possiamo far finta che sia colpa di qualcun altro se il mondo è a tal punto uscito dai cardini, se sradicamento e anomia, deserto e brutalità crescono in modo direttamente proporzionale alla nostra fame di benessere, di consumo, di gadgets, di chiusura difensiva nel nostro soffocante privato di atomi della moltitudine. Non ci è consentita la comoda scappatoia di additare qualcun altro a responsabile dello scempio in cui sono stati ridotti i nostri paesaggi, le nostre tradizioni, sprecate -talora irreversibilmente- le possibilità più preziose dei luoghi.
Né basta prendere atto dell'insopportabilità dei nostri stili di vita, della sciattezza delle ideologie economicistiche e generalistiche per imboccare automaticamente un'altra strada, o ancor meno stordirsi con parole tanto più roboanti quanto vuote e controproducenti. Non basta rivendicare radici culturali dopo che per decenni la cultura è stata posposta al profitto, al mito del denaro, delle merci, come se fosse un orpello di cui fare a meno: è anche qui che va cercata la ragione di un vuoto culturale e una perdita di identità che si sono prodotti parallelamente alla crescita economica. Fino adesso, del resto, si è preferito puntare più sulle autostrade e gli hub piuttosto che sulle università e il patrimonio culturale: è un problema di gerarchia e di valori decisivo in tema di identità e profilo territoriale.
Allora, quando ci si rende conto del pericoloso azzeramento che ha sfiorato una cultura mantenutasi viva e attiva fino a qualche generazione fa, si possono imboccare tre strade principali: la prima è quella di ciò che chiamo "il patetismo museale", l'imbalsamazione del "bene culturale" o "ambientale", la fissazione, ad uso turistico e commerciale, del folklore e di usanze o stili artificiosamente ripetuti all'interno di un contesto eterogeneo.
La seconda strada è quella dell'invenzione di un'identità, che nella maggior parte dei casi si ricollega a radici quanto più remote possibili, a tempi che possono sprofondare nella preistoria. Operazione sintomatica, che si è espressa soprattutto là dove era stata forte la sovrapposizione da parte di una cultura diversa (p. es. nei paesi baltici, dove l'archeologa Marija Gimbutas è venerata come un nume tutelare), fortemente reattiva e naturalmente non priva di un suo fascino rétro o new age.
La terza strada consiste nel rendersi conto che la tradizione culturale non è qualcosa che rimanga mai immobile, monoliticamente uguale a se stessa e dunque riattingibile in qualsiasi momento della storia, ma è piuttosto una trasformazione e una forza dinamica, un'eredità che si trasmette soltanto in una continua rideclinazione -anche se entro dei limiti che non ne facciano smarrire il profilo specifico-; ed è qualcosa che oggi, più che mai, si trova esposta al rischio della sua totale cancellazione, ad opera di quelle non-ideologie che innervano la nostra vita in ogni suo aspetto nell'apparenza dell'"oggettività": economicismo, materialismo, fede indiscussa nella potenza tecnica.
Le prime due strade sono molto più simili di quanto non sembrino di primo acchito: entrambe condividono l'idea -inevitabilmente a rischio di mistificazione- che si possa riconquistare una presunta purezza delle origini, un'identità che si potrebbe riprodurre a dispetto delle infinite mescolanze storiche verificatesi e del cambiamento delle epoche, dei simboli e dei pensieri. Naturalmente qui fa gioco proprio la lontananza temporale e l'effettiva intraducibilità dei simboli di civiltà talora prive di testimonianze scritte: è un po' come una primigenia età dell'oro della cultura, cui sarebbe davvero ingenuo pretendere di riallacciarsi, come se fosse possibile un salto all'indietro che oscilla tra il blasfemo e il caricaturale, del tutto simile, anche se non probabilmente nelle intenzioni, a tante mistificazioni new age. In questo senso, invenzione della propria tradizione e sincretismo multiculturale provengono dallo stesso orizzonte di sradicamento e omologazione, e tradiscono, in due direzioni antitetiche, quello che è il nostro compito epocale: situarci con consapevolezza nell'orizzonte dei tempi e dei luoghi. Gli uni, facendo di una magari reale scaturigine storica un'essenza atemporale cui potersi ricollegare feticisticamente; gli altri, adeguandosi senza riserve alla caoticità indifferenziante dell'attualità, facendosi agenti, magari benintenzionati, della distruzione delle culture. Si può esprimere lo stesso concetto in un altro modo, più filosofico: gli uni non si rendono conto che il nichilismo è l'orizzonte della nostra epoca, che non può essere semplicemente ignorato, perché esso continua ad agire fino a che un diverso pensiero non si sia sostituito ad esso; gli altri, invece, scambiano il nichilismo, il suo sterile paesaggio di distruzione, per un'ineluttabilità, quando non per un progresso, e non ne vedono la tremenda potenza annichilente. E c'è anche un'altra coppia di concetti che esprime questa duplice, ma in fondo complementare, insufficienza di analisi: nostalgia/oblio, entrambi stati d'animo paralizzanti, che non consentono la comunicazione con l'altro o con se stessi3 e che idolatrano un luogo o, al contrario, lo riducono a pura accidentalità.
Non si tratta dunque di individuare l'identità in un contenuto immutabile e statico, accontentandosi di celebrare meccanicamente capisaldi storici, momenti di gloria, numi tutelari, espressioni di tradizioni riscoperte o inventate tardivamente. Di fronte a una concezione nostalgica, attivamente o passivamente museale, della tradizione come contenitore di elementi immutabili, ciò che è stata chiamata la tradizionalità deve essere intesa
«come una trama di differenze che si rinnovano e si rigenerano nel quadro di un patrimonio costituito da un aggregato di esperienze passate, messe in gioco nel proprio superamento. In questo senso la difesa non può né deve essere volta alla protezione di forme di esistenza postulate come intangibili; essa deve piuttosto preoccuparsi di proteggere le proprie capacità di trasformarsi in modo creativo»4.
Qui, in questo compito di fare della tradizione un lievito vivente di identità forte ma aperta, non rinserrata difensivamente e autisticamente in se stessa, si aprono molte prospettive di intervento e di lavoro, nella vita dei singoli come in quella delle comunità. Innanzitutto tornando a pensare e a occuparsi di quella coordinata spaziale che la razionalizzazione livellatrice giudica inessenziale o puramente accidentale, e che invece costituisce, assieme a quella epocale, la trama di ogni situarsi storico e culturale consapevole: è rispetto a queste coordinate che occorre stabilire l'orientazione del mondo.
È un compito preliminare ma fondamentale, prioritario e decisivo rispetto a qualsiasi azione che, in mancanza di esso, rimarrebbe cieca o controproducente: occorrono nuovi strumenti interpretativi e nuovi pensieri, molto più che immagini rassicuranti mutuate da un passato nobile, ma inevitabilmente tramontato in quella forma. Occorre un pensiero della pluralità, delle differenze, un logos del molteplice che innanzitutto ci aiuti a pensare quanto è stato più trascurato e sfregiato: le forme e le fisionomie della terra, la culturalità e la simbolicità dei paesaggi, la loro irripetibile singolarità di contro a un mondo ridotto a un unico denominatore comune, a una Terra sempre più simile a un deserto o a un immane campo di macerie -o forse all'incubo transgenico di un gigantesco McDonalds. Rendendosi lucidamente conto che lo specchio più fedele e veritiero di una cultura e del suo stile identitario sono i suoi passaggi, la forma e la qualità dei suoi luoghi, la bellezza attiva e vissuta piuttosto che la sua fissazione artificiale e maniacale, la loro cura o viceversa il loro essere usati solo come spazi inerti suscettibili di qualsiasi manomissione: è lì che si gioca il senso e la qualità di una cultura, più realmente e veritieramente che non nelle proclamazioni, nella retorica, nella finzione di tradizioni e radici che possono venire in mente solo a uomini sradicati dell'estrema modernità.
Sicuramente occorrono più responsabilità e pensiero per essere all'altezza del paesaggio ereditato in un tempo come questo, a rischio di un disastroso babelismo, che non per ammantarsi delle insegne di astratte e inverificabili ascendenze. Però è qui, nella cura dei luoghi, in una nuova consapevolezza di che cosa voglia dire il nostro abitare sulla terra e sotto il cielo, che si gioca in realtà la nostra tradizionalità, la capacità di vivere dinamicamente e sempre di nuovo un'identità che deve mantenersi riconoscibile e non essere maschera inerte di preoccupazioni che la smentiscono ad ogni passo, chiedendo libertà di agire in una direzione che è quanto di più antitetico si possa pensare rispetto alla salvaguardia di luoghi, memoria, identità. Siamo, in altri termini, chiamati a una coerenza e a un'inderogabile assuzione di responsabilità di fronte alla Terra, e alla molteplice singolarità di orizzonti geoculturali che la costituiscono. Occorre un nuovo patto di alleanza con la Terra, che la riconosca come parte inscindibile, anzi come presupposto stesso dell'identità singola e comunitaria.
Occuparsi della Terra non vuol dire apportare dei correttivi a questo modello di sviluppo affinché esso possa durare indefinitamente, quanto piuttosto stringere un patto di fedeltà verso se stessi e le proprie radici, sia che esse siano di antica data, sia che siano recenti o magari puramente elettive.
«La pace con la terra esclude la vittoria sulla terra, la sua sottomissione il suo sfruttamento a nostro uso e consumo. Richiede, invece, collaborazione, sinergia e nuova consapevolezza»5,
e tutto ciò comporta una capacità prospettica che talora è più difficile proprio per chi si immagina l'identità come un possesso più che come un compito sempre nuovo, come un patrimonio di cui poter disporre senza limiti né appropriatezza, nella presunzione di una proprietà e di una padronanza assoluta. Perché, come si diceva in precedenza, sapere abitare la Terra non vuol dire esserne padroni, tant'è che spesso sono proprio i locali a tradire crudelmente e autolesionisticamente le proprie terre: vuol dire invece operare una rigenerazione e una conversione del modo di pensare, in una progettualità che assuma in sé -e la mostri nelle sue realizzazioni- un respiro degno della sua sacralità.
Note
1- M. Eliade, Il sacro e il profano, tr. it. di E. Fadini, Boringhieri, Torino 1984, p. 38.
2- M. Cacciari, Geo-filosofia dell'Europa, Adelphi, Milano 1994, p. 111.
3- Cfr. l'interessante contributo di G. Monastra, Etnie: identità e sradicamento, (presente in questo sito).
4- U. Bernardi, L'insalatiera etnica, Neri Pozza, Vicenza 1992, p. 101.
5- R. Panikkar, Ecosofia: la nuova saggezza. Per una spiritualità della terra, Cittadella, Assisi 1993, p. 153.