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La medicina tra catastrofi sanitarie e malati immaginari

di Pasquale Rotunno - 17/05/2007

 
I medici restano la categoria professionali di cui i cittadini si fidano di più. Questo è avvenuto perché la pratica clinica è diventata efficace ed è aumentata la capacità di alleviare il dolore fisico e la sofferenza psicologica. La medicina fa progressi straordinari. Gli annunci di scoperte in grado di guarire malattie più o meno gravi si succedono a ritmo incessante. Eppure lo statuto epistemologico della medicina è ancora incerto. Convivono diversi metodi d’approccio alla malattia. Ciascuno singolarmente non in grado di spiegare la complessità dei fenomeni riscontrabili nell’organismo umano. Le metodologie mediche non possono aspirare ad uno statuto di validità universale. In quanto “partono da assunzioni metodologiche non coerenti con la natura dei fenomeni che cercano di descrivere o spiegare”. I medici dovrebbero quindi acquisire la consapevolezza che “nella medicina convivono diverse strategie metodologiche”. Per superare tale indeterminatezza epistemologica, Gilberto Corbellini, professore di Bioetica e Storia della medicina all’Università di Roma “La Sapienza”, suggerisce un ripensamento unitario dei problemi della medicina a partire da un approccio evoluzionistico.

Nel suo nuovo saggio, dal titolo un po’ provocatorio, “Ebm. Medicina basata sull’evoluzione” (Laterza, pp. 190, euro 14), Corbellini invita a “interrompere il processo di frammentazione conoscitiva che sta colpendo la medicina occidentale”. C’è bisogno di una teoria che eviti “tanto le false aspettative quanto le assurde paure” che oggi alimentano un dibattito culturale spesso fuorviante. Non siamo mai stati meglio, ma la salute ci preoccupa sempre di più. Con il crescere del benessere aumenta la domanda di salute. “Un intreccio di perverse dinamiche di mercato e politiche deresponsabilizzanti o utopistiche di promozione della salute incentiva sia il salutismo sia la medicalizzazione”. Potenziali clienti (o pazienti) e fornitori di servizi (medici e imprese farmaceutiche) trasformano in malattie da trattare clinicamente e/o farmacologicamente alcune condizioni che non sono necessariamente malattie, ma processi naturali della vita (si va dalle disfunzioni erettili alla depressione, alla calvizie). Le grandi sfide che la medicina deve fronteggiare rischiano invece di essere ignorate. Ad esempio, la mortalità infantile nei paesi in via di sviluppo è ancora a livelli impressionanti ed è dovuta alle malattie trasmissibili, alle condizioni materne e perinatali e ai deficit nutrizionali. A fronte di un quadro epidemiologico complesso, la medicina vede vacillare i propri fondamenti metodologici.

Dal tempo di Ippocrate ad oggi, sono emersi principalmente tre tipi di approccio alla malattia. Il metodo clinico si è basato sull’osservazione, diretta o strumentale, dei dati clinici. Attraverso lo studio dei singoli malati cerca di spiegare e classificare le malattie, e di riconoscerle in altri pazienti con gli stessi sintomi. A partire dai dati vengono avanzate ipotesi diagnostiche che suggeriscono trattamenti più o meno efficaci. In questo percorso il medico non procede in modo esclusivamente razionale, ma utilizza anche l’intuito. Il secondo approccio fu quello sperimentale. L’introduzione del metodo sperimentale era volto a trovare relazioni che legano un fenomeno alla sua causa prossima. Ciascuna malattia andava cioè ricondotta a una causa unica, necessaria e sufficiente. Tale metodo consentiva di rendere scientifica la medicina; non solo per quanto riguardava la spiegazione causale delle malattie, ma anche rispetto alla ricerca di una terapia, che doveva essere mirata alla causa. Il famoso medico Claude Bernard diffuse il suo credo epistemologico centrato sull’esperimento e concepiva come scientifica solo la comprensione deterministica del funzionamento dell’organismo, oggetto dello studio fisiologico. Le difficoltà che la sperimentazione fisiologica incontrava nello studio delle funzioni organiche complesse hanno lasciato spazio all’utilizzo dei criteri induttivi. Si è così affermata la tradizione dell’epidemiologica clinica. Questa non s’interessa ai meccanismi funzionali che producono la fenomenologia clinica osservata. Ma utilizza le tecniche statistiche per correlare ipotetici fattori causali con le condizioni cliniche. Il ragionamento probabilistico viene ad assumere un ruolo sempre più rilevante in medicina. Tanto da diventare, in tempi recenti, con l’Ebm (“Evidence-based medicine”) il “nuovo paradigma” della medicina. L’Ebm non considera necessarie né sufficienti le conoscenze fisiopatologiche per avere indicazioni da seguire nella pratica clinica. Rispetto al vecchio paradigma sperimentale, che considerava sufficiente per un buon esercizio della pratica medica l’esperienza personale del medico e la conoscenza della fisiologia applicata ai problemi clinici, l’Ebm richiede la standardizzazione delle scelte sulla base di una riproducibilità delle osservazioni tramite test ripetuti.

A giudizio di Corbellini, la metodologia statistica che oggi prevale in medicina sta diffondendo un’idea sbagliata del ragionamento scientifico; cioè che “la spiegazione biomedica sarebbe riducibile a una correlazione statisticamente significativa, indipendentemente dal fatto che operi una selezione tra ipotesi esplicative alternative”. Sopravvive l’idea che il metodo sperimentale e l’indagine statistica rispondano a due diverse filosofie della natura. In realtà, spiega Corbellini, non vi è contraddizione fra metodo sperimentale e analisi statistica. Anche nell’approccio statistico la ripetizione delle esperienze ha un ruolo oggettivo, poiché solo dopo ripetute osservazioni controllate l’analisi statistica può portare alla luce le regole sottostanti a determinati fenomeni. Qualcuno interpreta invece quella che è una particolare strategia metodologica nei termini di una visione metafisica della natura, basata sull’incertezza. L’enfasi posta sulla “medicina basata sulle prove” - incalza Corbellini - è “un esempio di uso retorico dei risultati ottenuti attraverso l’approccio statistico”; mentre la recente pubblicistica su caso e caos dimentica che questi concetti “sono strumenti del pensiero scientifico critico” interni a “una metodologia conoscitiva che non ha la funzione di fondare una visione del mondo, ma solo quella di consentire il controllo delle ipotesi”.


La spiegazione biomedica non è certamente deduttiva, in quanto in medicina non ci sono leggi universali circa l’origine del cancro o dell’infarto; ma nemmeno statistica. La statistica è importante per sviluppare la spiegazione medica in quanto individua le correlazioni, ma queste non hanno forza esplicativa: poiché possono essere frutto di cause alternative confondenti. Inoltre, non esistono malattie monocausali. Nemmeno quelle riconducibili a un singolo gene. Non va dimenticato che ciascun individuo è diverso dagli altri, in quanto portatore di un programma genetico individuale e di particolari interazioni con l’ambiente. Questo provoca variabilità nelle risposte alle indagini, e rappresenta una fonte di errori nelle conclusioni. In sostanza, “sia gli approcci sperimentali sia quelli dell’epidemiologia clinica - denuncia Corbellini - prescindono dal paziente individuale e dai vincoli biopsicologici che condizionano la concettualizzazione della malattia”. Invece, l’esperienza clinica e la biologia fondata sull’evoluzione ci dicono che “ogni paziente è geneticamente e fenotipicamente unico”. Gli stessi sintomi e segni di uno stato morboso possono assumere significati diversi in rapporto al contesto. Di fronte al pluralismo teorico e metodologico che caratterizza la conoscenza medica, diventa urgente organizzare un punto di vista utile a dar conto del pluralismo osservato. La proposta dell’autore è quella di assumere i concetti e le teorie della biologia evoluzionistica per spiegare in una prospettiva innovativa l’origine delle malattie. Tale prospettiva “introduce nella spiegazione delle condizioni di salute e malattia le cause remote, accanto a quelle prossime”. E’, infatti, la discordanza (“mismatch”) fra l’ambiente dell’adattamento evolutivo e quello attuale ad essere fonte di problemi per la salute. Il concetto di salute perfetta è del tutto utopistico; perché i sistemi biologi non realizzano mai un adattamento perfetto. Dal punto di vista evolutivo, non è rilevante la perfezione di un organismo, ma il suo successo riproduttivo.

Il medico ha sempre a che fare con casi individuali, cioè persone particolari che hanno una dotazione genetica unica e con esperienze altrettanto uniche. La malattia “non è il difetto a livello di una funzione tipica”. Si tratta piuttosto “dell’incongruenza fisiologica individuale rispetto a un dato ambiente, dovuta all’interazione tra una costituzione genetica unica ed esperienze altrettanto uniche”. Gli avanzamenti della genetica consentiranno alla medicina di capire meglio i meccanismi biologici implicati nel funzionamento degli organismi. Tuttavia, “è pura utopia aspettarsi la scoperta di un algoritmo in grado di dar conto esaustivamente delle dinamiche sottese alla naturale e irriducibile produttività e creatività dei sistemi viventi”. Gli stessi modelli meccanicistici non spiegano molti dei nuovi fenomeni riscontrati a livello biochimico nell’organizzazione cellulare. Le malattie non sono dunque entità, ma deviazioni quantitative a livello di processi metabolici. Le cause delle malattie non sono dannose in quanto tali, in assoluto: “dipende dalla natura delle interazioni coinvolte e dalla storia”. E, comunque, “danno luogo a diverse forme cliniche a seconda delle limitazioni delle capacità adattative individuali”. Una medicina fondata sul darwinismo, conclude Corbellini, può dar conto allo stesso tempo della portata e dei limiti degli approcci sin qui utilizzati in medicina. Ed “è in grado di spiegare sia perché è così difficile una definizione coerente della salute e della malattia, sia di giustificare l’efficacia di un atteggiamento pragmatico e strumentale nelle scelte medico-sanitarie”.