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L'irrazionalità della Borsa

di Raffaele Ragni - 17/05/2007



Intervenendo di recente all’assemblea degli azionisti della Telecom, il comico Beppe Grillo - che da tempo denuncia in maniera semplice ed efficace le disfunzioni del capitalismo finanziario - ha dichiarato pubblicamente di aver ricevuto ben tre lettere da Lamberto Cardia, presidente della Consob, che gli dice di stare attento perché, con le sue esternazioni, rischia di turbare la Borsa. Si teme in sostanza che la diffusione di idee diverse dal paradigma dominante possano avere effetti destabilizzanti su equilibri già di per sé precari. La preoccupazione di Cardia, rivolta in forma di monito o di minaccia ad uno dei più amati showman italiani, induce a riflettere sull’irrazionalità che muove il mercato dei capitali, a vantaggio degli speculatori e a danno dei risparmiatori.
Tutti gli eventi speculativi seguono la stessa dinamica. Un prodotto o un settore, per motivi non necessariamente razionali, attirano l’attenzione degli investitori. I prezzi cominciano ad aumentare. L’avvenuto incremento, e quello prospettato nell’immediato futuro, attraggono nuovi acquirenti. I prezzi continuano a lievitare. Alcuni sono convinti che la situazione sia sotto controllo ed i rendimenti siano destinati a crescere ancora a lungo. Altri capiscono il carattere speculativo del fenomeno, cavalcano l’onda e contano di tirarsi fuori prima del crollo. Ad un certo punto interviene un mutamento nelle aspettative degli operatori, che fa arrestare il rialzo. Chi stava speculando, decide di smettere. Chi sperava in una crescita prolungata, vede svanire le proprie illusioni. Tutti cominciano a vendere ed i prezzi diminuiscono. Si diffonde il panico, le vendite aumentano vertiginosamente ed i prezzi crollano.
La crisi trae quindi origine da un comportamento irrazionale degli operatori: cominciare a scambiare titoli ad un prezzo sempre più elevato rispetto al loro valore reale e poi improvvisamente cambiare opinione. E’ l’irrazionalità tipica di ogni attività commerciale. Ogni bene può assumere un valore di scambio che si discosti, anche notevolmente, dal suo valore d’uso. Ma nella compravendita di prodotti finanziari la formazione dei prezzi è influenzata da fattori esogeni. Essi non dipendono dalle principali fonti di valore di un titolo (aspettative sui dividendi e grado di rischio), ma dall’entità del premio richiesto dagli investitori per correre il rischio. A parità di valore reale gli speculatori possono imporre un premio maggiore o minore rispetto al passato, utilizzando un diverso tasso di sconto con cui attualizzare il valore dei dividendi. Le loro decisioni sono influenzate da calcoli precisi sul rendimento atteso, ma anche da sentimenti irrazionali su situazioni congiunturali.
Uno dei fattori che contribuiscono ad alimentare l’euforia che precede il panico è la brevità della memoria finanziaria. Anche laddove si ripetono circostanze identiche, le nuove generazioni di esperti -economisti e speculatori- tendono a sottovalutare il pericolo, ingannati dai mutamenti nel frattempo avvenuti, sia nella varietà dei prodotti finanziari che nell’organizzazione ed ampiezza dei mercati. Qualsiasi tentativo di governare l’irrazionalità dei mercati risulta vano o di limitata efficacia. Valga come esempio la crisi del 1929. Applicando diagrammi e formule matematiche, la scuola neoclassica allora dominante aveva la pretesa di rendere l’economia una scienza esatta, ma non riuscì a prevedere il grande crollo di Wall Street.
Dominata dalla sindrome del giovedì nero, le fase espansiva del secondo dopoguerra conobbe brevi periodi di euforia contenuta, dalla metà degli anni cinquanta alla fine degli anni settanta. Poi Wall Street ricominciò a popolarsi di giovani operatori dalla memoria corta - i go go boys degli anni settanta e gli yuppy traders degli anni ottanta - cosicché, quando la politica economica di Ronald Reagan sembrava aver scacciato la crisi congiunturale innescata dall’impennata del prezzo del petrolio, ritornò il grande ottimismo che prelude al crollo. Come da copione, il crac avvenne lunedì 19 ottobre 1987. Le analogie con il 1929 erano sorprendenti. Le premesse erano analoghe: entrambe le crisi avvennero in pieno boom di acquisizioni e furono precedute da massimi storici nei prezzi delle proprietà immobiliari. La reazione delle autorità monetarie fu diversa: invece di attuare una restrizione monetaria, immisero liquidità consentendo agli operatori di onorare gli impegni anche se avevano subito forti perdite. In sostanza, nel momento stesso in cui il sistema bruciava ricchezza fittizia, le banche ne producevano altra, ugualmente fittizia. L’intervento dei creatori di moneta fece allontanare la grande paura. Da allora diversi fattori hanno evitato una nuova grande depressione. In primo luogo l’economia bellica, alimentata dalla mobilitazione permanente contro il nemico oggettivo di turno, guidata dagli USA nel ruolo di gendarme planetario. In secondo luogo fattori congiunturali come il boom delle economie asiatiche, l’apertura dei mercati comunisti, il miracolo cinese basato sul dumping sociale ed ambientale. Dopo il crollo del 1987, ci sono state due crisi a cadenza decennale, che sembra richiamare la teoria dei cicli ed in particolare il ciclo medio Juglar: la crisi asiatica del 1997-98 e il recente crollo di febbraio del 2007, che secondo alcuni osservatori è solo una prima avvisaglia del grande crac prossimo venturo. Tuttavia, né i crolli periodici né i danni collaterali della globalizzazione economica (inquinamento, povertà, sradicamento) sembrano avere effetti destabilizzanti. Almeno per il momento. Alla sindrome del giovedì nero è subentrato un forzato ottimismo, appena scalfito dallo spettro della recessione. Il mercato dei capitali rimane caratterizzato da gravi elementi di squilibrio e gli operatori finanziari ne sono consapevoli. Alimentano tuttavia un clima di fiducia per legittimare il proprio ruolo ed accumulare ricchezza. L’ideologia economica dominante, dal dubbio fondamento scientifico, serve da complice alla speculazione. Il problema maggiore, ancora insoluto, è quello delle fluttuazioni cicliche e delle variazioni di valore reale della moneta. Esse compromettono l’efficacia nella sfera produttiva, l’equità nella distribuzione del reddito, la sicurezza dell’occupazione, il corretto utilizzo delle risorse, e finiscono col generare tensioni sociali. L’intera economia mondiale si fonda su una gigantesca piramide di debiti alimentati dal meccanismo dell’interesse composto. Nel passato non si era mai assistito ad una simile accumulazione di promesse di pagamento, né ad una simile difficoltà di ottemperare ad esse. La speculazione selvaggia ha trasformato il mercato dei capitali in un grande casinò, dove i tavoli da gioco sono dispersi ad ogni angolo del mondo. Essa è facilitata dalla facile disponibilità di credito, che permette di acquistare senza pagare e di vendere senza possedere. La monetizzazione delle promesse di pagamento -che avviene ogni qualvolta le transazioni di beni possono essere regolate successivamente al loro scambio effettivo- è la base del commercio, ma diventa un problema grave nella misura in cui le banche creano continuamente mezzi di pagamento, sovrabbondanti e diversificati. Il campo d’azione della speculazione è proprio questo. Gli speculatori giocano nel lasso di tempo tra la compravendita e il pagamento, scommettendo sui diversi aspetti della transazione ad un prezzo che varia in base al bene scambiato ed al rischio dell’operazione. La scommessa, incorporata in un contratto, diventa essa stessa bene di scambio ed oggetto di quotazione. Al commercio di beni e titoli rappresentativi di beni generati nelle sfere del sistema (produzione, distribuzione, domanda) in base alle reali esigenze degli operatori (imprese, Stati, famiglie), si aggiungono beni generati su un particolare mercato (il mercato della moneta) da un particolare categoria di imprese (le banche) in base alle esigenze di una particolare categoria di intermediari (gli speculatori). Alle ricchezza reale, prodotta dal lavoro umano ed utile alla vita sociale, si aggiunge un’enorme massa di ricchezza fittizia, prodotta dalla mente finanziaria e funzionale all’arricchimento di una ristretta oligarchia.
I flussi monetari tra Paesi diversi sono da venti a trenta volte maggiori dei corrispondenti flussi relativi allo scambio di beni e servizi. Secondo le stime, le transazioni sul mercato valutario mondiale ammonterebbero ad oltre 300.000 miliardi di dollari. Gli economisti fingono di ignorare che ogni giorno, all’apertura del mercato valutario, ingenti risorse scompaiono nel nulla. Gli speculatori giocano sull’andamento dei tassi di cambio e d’interesse. Essi approfittano dei momenti di incertezza che abitualmente si verificano - ad esempio, durante i primi minuti di transazioni - e riescono ad accumulare ingenti ricchezze comprando e rivendendo moneta, ripetutamente e ad estrema velocità. Ciò a danno delle imprese, che utilizzano valuta per la compravendita di beni e servizi, e degli Stati, che sono costretti a recuperare il valore sottratto dagli attacchi speculativi sulla propria valuta con rimedi dannosi per le comunità nazionali (es. svalutazione monetaria, nuove tassazioni, riduzione del potere d’acquisto dei salari). Le basi dei sistemi monetari e finanziari andrebbero rifondate, sia a livello nazionale che mondiale. Bisognerebbe cominciare col sottrarre moneta alla speculazione.
L’introduzione di una tassa anche minima sulle transazioni valutarie consentirebbe ai governi di riaffermare il predominio della politica sull’economia e di recuperare risorse per iniziative socialmente utili. Questo è lo spirito della cosiddetta Tobin Tax, che tuttavia da sola non basta. I principi su cui poggia il mercato dei capitali andrebbero interamente ripensati, a partire dall’organizzazione del sistema bancario. La riforma del meccanismo del credito dovrebbe impedire la creazione di moneta dal nulla e l’indebitamento a breve effettuato per finanziare prestiti a lungo termine. Ciò implicherebbe una rigida separazione delle funzioni bancarie. E’ l’esatto contrario di quanto avviene attualmente col predominio della banca universale, cioè di un’unica tipologia di banca che può compiere ogni genere di operazioni. Le attività bancarie andrebbero invece divise e attribuite a due distinte strutture. Da un lato le banche di deposito che, liberate da tutte le operazioni di prestito, dovrebbero occuparsi della gestione del denaro dei clienti e dei loro pagamenti. Dall’altro le banche di prestito, che dovrebbero indebitarsi a termini fissi ed a loro volta offrire risorse, purché le scadenze dei fondi prestati siano inferiori alle scadenze dei fondi raccolti.
Parallelamente occorrerebbe indicizzare tutti i contratti a termine per assicurare, sia la correttezza dei calcoli economici proiettati verso l’avvenire, sia condizioni eque per l’esecuzione dei contratti fra creditori e debitori.
L’indicizzazione, infatti, permetterebbe a tutti gli operatori di utilizzare un’unità di conto dal valore reale immutabile per tutte le loro decisioni che comportano l’arbitraggio tra presente e futuro.
Infine, se si volesse davvero raggiungere un equilibrio globale, bisognerebbe individuare un paniere di valori reali generati nella sfera della produzione su cui rifondare un regime di cambi fissi, come all’epoca del sistema aureo.
I cambi flessibili- anche se fanno riferimento formale ad un paniere di monete (es. l’ECU del vecchio sistema monetario europeo) o sono sostanzialmente legati all’andamento di una sola moneta (es. il dollaro)- sono la causa di tante disfunzioni, ma consentono alle banche di continuare a svolgere una funzione essenziale nel sistema mondialista: creare moneta per arricchire gli speculatori, usurpando funzioni sovrane che andrebbero esercitate dagli Stati per il benessere delle comunità nazionali.