Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Napoleone e la fine di Venezia - Riflessioni sul libro di F.M. Agnoli

Napoleone e la fine di Venezia - Riflessioni sul libro di F.M. Agnoli

di Gennaro Incarnato - 17/05/2007

 

L’interessante ed attualissimo lavoro dell’Agnoli1 porge l’occasione per una serie di riflessioni. In

primo luogo va letto con attenzione per la dovizia di particolari proposti al lettore. Uscito , per

fortuna , dopo la infinita serie di lavori provocati dai vari centenari e commemorazioni, una vera

ossessione, offre la possibilità di un bilancio. Non è la rievocazione nostalgica di un mondo

scomparso destinata , anche essa, questa volta per fortuna, a sostituirsi e giustamente alle

celebrazioni degli eventi collegati alla sua caduta. È ricordato con garbo in un bel lavoro del

Granzotto Gianni, “Maria Teresa, Maria Teresa”(1982); quell’equilibrio creatosi nel corso dei

secoli tra le mai sopite ambizioni austriache sul nord Italia e la forza ancora notevole di Venezia nel

XVIII secolo. C’era una sorta di corridoio, in pratica possesso della Serenissima Repubblica, di

fatto aperto per lo meno al passaggio delle truppe austriache per accedere ai domini della

Lombardia. Era un mondo dal fragile equilibrio. Gli appetiti delle potenze europee lo stavano

logorando da tempo. Non tutto il dramma può essere attribuito alla Rivoluzione. Il male è sempre

esistito. Agnoli ha troppa educazione ed esperienza di vita per ignorarne le lontane origini. Non

possiamo paragonarlo e metterlo sullo stesso piano di una vecchia signora dell’epoca della

Restaurazione solita ad andare a dormire ripetendo l’assurdo ritornello: “ J’ai tombé dans le

ruisseau et la faute s’est à Rousseau , j’ai tombè dans la rivière et la faute c’est à Voltaire.” Non si

può essere tanto ciechi ed ingenui. Non tutti i mali possono essere attribuiti alla Rivoluzione ,ai suoi

ideologi e precursori. È invece innegabile il suo influsso sui valori etici. La ghigliottina era stata il “

“razoir national”. Anni dopo la morte di Robespierre, Reubell, membro del Direttorio ai tempi di

Campoformio, scriveva del Robespierre: “ Je ne lui reproche que d’avoir été trop doux”. Gli faceva

eco Cambon, il finanziere della Rivoluzione: “Voulez-vous faire face à vos affaires? Guillotinez!”

“Voulez-vous payer les dépenses de vos armées? Guillotinez!”2. Questi principi ispiravano e, non

poteva essere diversamente, sia il Direttorio che Napoleone. La cesura tra la fase violenta,

sanguinaria dei primi anni della Rivoluzione e la fase costruttiva, il suo sbocco legalitario e

creativo di un mondo più giusto, cara alla più recente storiografia non è accettabile. Il Direttorio,

Napoleone, erano gli eredi più diretti ed autorevoli nei fini e nei metodi di quei primi anni feroci,

non ne erano né la deviazione né la corruzione. Anche se fu la Rivoluzione ad imporre una

irreversibile accelerazione, non vanno dimenticate però le brame delle potenze europee. Queste non

vollero vedere il dramma , anche se i loro funzionari capirono ed avvertirono, anche quelli di

Venezia, soprattutto quelli. Una forte ed attenta diplomazia era da sempre la migliore arma di difesa

dei più deboli e Venezia era ormai da tempo tra questi. Nei primi anni della Rivoluzione,Austria,

Prussia e Russia erano ancora intente a digerire lo sfortunato boccone rappresentato dalla Polonia.

Sulla sua scomparsa nelle dimensioni a cui era ormai ridotta, se questa fosse un bene o un male c’è

ancora molto da discutere. Due Guerre Mondiali e la difficile nascita di un Europa senza frontiere

dovrebbero aprire gli occhi a tutti e spingerci a considerare con occhio diverso la vita del

Settecento prima della Rivoluzione. Essa giunse sulla pianura lombardo-veneta solo nel 1796. Era

la Francia ambigua del Direttorio. Davvero non erano più gli eredi di Robespierre e dell’ateismo di

stato gli uomini del Direttorio? Questa tesi viene portata avanti dalla versione più moderna

dell’interpretazione della Rivoluzione. In particolare per quanto riguarda l’Italia. Di ciò discuteremo

in seguito. Il volume dell’Agnoli si apre con il dilagare delle truppe austriache e francesi nel

corridoio rappresentato dalle città di Bergamo, Brescia, Verona, e prima ancora Crema. Napoleone

ed il generale austriaco conte Wurmser3 vi giocarono una specie di balletto incentrato sul cardine

1 F.M. Agnoli, Napoleone e la fine di Venezia con introduzione di Paolo Granzotto, Rimini, il Cerchio, 2006, p.21, €.

16. Purtroppo privo di indice analitico.

2 Cit., in , Maxime Leroy, “ Histoire des idèes sociales en France”, Paris, Gallimard , 1946, vol. I, p. 312

3 Va ricordato che quest’ultimo, uomo coraggioso ed esperto, aveva allora 73 anni. Aveva cominciato al servizio della

Francia , era nato a Strasburgo, città e regione di confine. Morì, forse esausto, nel 1797 dopo la caduta di Mantova. Un

avversario ancorato ad una concezione più umana della guerra rispetto al cinico Napoleone che aveva appreso la lezione

della guerriglia in Corsica. Faceva parte del suo patrimonio genetico. Lasciandosi dietro cannoni e provviste rese agili e

rappresentato dalla fortezza di Mantova ripetutamente assediata, liberata dall’assedio e di nuovo

circondata. I governanti di Venezia erano consapevoli della situazione. Comunque ne erano stati

avvertiti da tempo, sin dal 1790, dai loro accorti diplomatici. Fu subito uno scontro di mentalità

messo in evidenza con acutezza, umana partecipazione e rigore dall’Agnoli. Il vecchio mondo di

Venezia condannato, a nostro avviso più in apparenza che in realtà, a morire quello nuovo degli

appetiti imperiali e di quelli della Rivoluzione agli inizi di uno scontro dalle conseguenze immense.

Proprio per questo fatto l’analisi riproposta dall’Agnoli è sempre attuale e va seguita con estrema

attenzione. A proposito va sottolineata , riletta e commentata con grande attenzione la “voce”

Treccani e quanto scritto sull’Enciclopedia a proposito della caduta di Venezia. Intelligente per

quanto riguarda le considerazioni sull’eterna vitalità della città è ispirata ad un patriottismo

generoso ma acritico ed inficiato da non poca retorica. Siamo nel 1938. E’ tuttavia un punto di

partenza dal quale non si è molto scostata, come vedremo, la storiografia dell’Italia, cosiddetta

nuova, uscita dalla seconda guerra mondiale. Le radici giacobine sono identiche. Spesso furono

perpetuate con abito nuovo dagli stessi uomini o dai loro allievi prediletti. Agnoli sottolinea subito

il buon governo di Venezia in confronto della politica, dettata da pure considerazioni di opportunità,

dell’Austria. Venezia aveva sempre respinto la proposta di scambio del territorio di passaggio tra il

Ducato di Milano e l’Impero. Gli austriaci avevano offerto una parte dell’Istria in cambio. Pur

avendo interesse a questa zona ,Venezia si oppose “perché pensava di non poter tradire fedeli

sudditi, in particolare i ceti umili e la totalità degli abitanti delle campagne, per i quali San Marco

non era mai stato semplicemente il padrone, o un remoto e pressoché sconosciuto sovrano, ma il

nostro “adorato principe” (p.25). In realtà il patriziato veneto vi aveva le sue splendide dimore a

cominciare dalla bellissima villa di Passariano dove di fatto si svolsero le trattative di

Campoformido,non Campoformio , come precisa Agnoli con più esattezza. Passariano era la villa

dell’ultimo doge Manin4. Nei drammatici rapporti tra Venezia e Napoleone nel periodo 1796-1797

Agnoli ha messo in evidenza un aspetto da sottolineare subito con vigore. I parlamentari tra l’antica

repubblica e il giovane ambizioso generale, allora non era più di tanto, vengono affidati al Battaia

“conosciuto per le sue aperture al partito filofrancese”. È l’eterna illusione italiana, si spera di

ammansire le belve, dalle quali siamo circondati e minacciati, mandando a parlamentare persone ad

esse vicine per ideologia. Doppio errore; saranno cattivi avvocati convinti, nella migliore delle

ipotesi, di parteggiare per un causa persa. Il nemico li considererà sempre ostili perché stranieri e

per giunta deferenti. Alzerà di conseguenza le sue pretese. Così fece Napoleone col mansueto

Battaia. Altrettanto è sempre avvenuto in seguito. Il buon mezzano, proprio come hanno

sperimentato i suoi epigoni, tornò a casa con la faccia soddisfatta. La delusione doveva essere

immancabile. Agnoli, forse senza accorgersene , ci dà sin dall’inizio del suo lavoro la conferma

della vera forza dell’Austria. Le battaglie si possono anche perdere, gli uomini, le scorte, le armi si

devono salvare. Il 5 Agosto 1796 il generale conte Wurmser viene sconfitto da Napoleone a

Castiglione. Malgrado le perdite “riuscì a salvare buona parte delle truppe”.(p. 33)

veloci le sue truppe. A quale prezzo? Lo spietato sacco dei beni delle popolazioni. L’esortazione alla violenza ed alla

rapina alle sue truppe. Queste finirono col rendersi odiose all’intera Europa. Alla fine , oltre al logorio e

all’esaurimento, inevitabile con un simile ritmo di vita, svegliarono uno spietato nazionalismo causa di tutti i drammi

successivi.

4 I Manin di origine antica fiorentina , erano poi diventati nobili friulani , con ampi e profondi interessi nei domini di

terra ferma. Una scelta non sempre retriva come tende invece a sottolineare la storiografia più recente. Di fatto questa

interpretazione è vecchia. È la solita solfa contro l’Italia pacifica dei “ sepolcri imbiancati”. Il suo universalismo la

rendeva e la rende odiosa a chi ci vuole attivi, impegnati in un triste confronto con gli altri popoli. Se ne può tracciare

una sorta di filo rosso che dalla “ vergine cuccia” del Parini, passando per l’onesto borghese Carducci, arriva a Gramsci,

di cui, dopo tante assurde canonizzazioni, allora percorso d’obbligo dei pentiti o impuniti dei nostri giorni, nessuno

parla più, non senza essersi rinforzato attraverso l’interpretazione dell’oggi riscoperto Gioacchino Volpe. Questi poi,

insieme al Carducci pur essendo uno storico del periodo fascista, resta un vero gran signore rispetto agli untorelli dei

nostri giorni. La sua tardiva riscoperta finisce col diventare sospetta. Da un lato è una chiamata in correo dei nostri

attuali storici. Dall’altro un ponte , - come dire? – una sorta di “ uscita di sicurezza” per un eventuale ritorno al passato.

Con l’aria che tira non si può mai sapere.

La stessa condotta viene seguita dal suo successore Alvinczy a Rivoli. Con minor fortuna però. Poi

nel corso della epopea di Napoleone tutti ricorsero alla guerra di massa e senza risparmio di vite

umane. La Rivoluzione aveva anche dato inizio alle “ romantiche” carneficine delle guerre

patriottiche. I francesi vengono presentati subito per quel che sono da cronisti del tempo. Ciò sia nel

Veneto descritto da Agnoli che nel resto d’Italia. In particolare le descrizioni in seguito riportate

sono pressoché eguali a quelle dell’esperienza vissuta dal Regno di Napoli due anni dopo. C’è una

grossa differenza nei domini di Venezia, essi di fatto si consideravano ospiti di passaggio e non

nemici dichiarati. Ciò aggrava le loro colpe. “Tutti questi soldati francesi, con certa ladra furtiva

guardatura guardano dietro ad alcuni e alle botteghe, che sembra segnino fra se stessi , e persone

e luoghi”(ivi, p.34). Tutto ciò mentre: “Nei nobili, nel militare vi sono Frammassoni, vi sono chi

servì, serve e servirà i francesi”. Pure le popolazioni lasciate a se stesse dal governo veneto

desideroso di non cadere in provocazioni, danno subito prova di capacità di reazione alla brutalità

francese. “Questi ladroni commettono orrori nelle vicine campagne, le communità sono costrette a

suonare a campana a martello, il che viene fatto con ottimo successo , perché scappano i francesi,

benché in corpi di tre, in quattrocento”. Così il marchese Francesco Agdollo, confidente degli

Inquisitori nell’estate del 1796 (30 Luglio). Le popolazioni premono , invano, sul governo perché si

dia il via alla lotta ai prepotenti francesi. Così il sindaco della comunità della Valpolicella rivolto al

citato Agdollo. Si sottolinea la capacità militare di un popolo. “ Questo popolo montano ,

coraggioso e fedele, trasportato per la caccia, e fornito d’armi e munizioni relative, non sospira che

un vostro cenno a fronte di qualunque pericolo” (p.35). Il sindaco citato pagò poi con la vita. La sua

proposta non era una tirata retorica. Però con la Valpolicella ci stiamo avvicinando ai monti. La

reazione nelle fertili pianure non fu dello stesso tipo. Questo è un fatto non sottolineato a dovere nel

lavoro in esame.

Venezia non era soltanto minacciata dai francesi. Il suo territorio faceva gola anche ai giacobini

milanesi. Ciò non per un precursore spirito unitario. Il vecchio spirito municipalista non aveva

abbandonato i giacobini milanesi. Il conte Porro, al pari di altri aristocratici, era favorevole alla

Rivoluzione. Si auspicava una repubblica democratica nell’Italia Settentrionale. Naturalmente

questa avrebbe avuto Milano per capitale. Sarebbe stata, con l’annessione di Venezia ( p.50) e dei

suoi domini, una vendetta della Lombardia sempre sconfitta in passato da Venezia. Andrebbe

approfondito il ruolo del banchiere Vivanti. Porro lo accusa di voler lucrare con forniture militari

sia sui francesi che sugli austriaci. Vuole sfruttare l’attesa di novità dei ceti dirigenti dei domini

veneti di Terraferma. “Fra gli abitanti della Terra Ferma che hanno preso gusto al regime dei

francesi si trovano molti grandi proprietari terrieri, ricchissimi e alcuni anche titolati”( p.52). Questi

avrebbero rancore verso Venezia perché esclusi dal libro d’Oro dell’aristocrazia della dominante.

Sappiamo che le varie città, Verona per citare un caso, avevano già un rigido libro d’Oro locale.

Non intendevano aprirlo ai nuovi venuti dei ceti emergenti , volevano solo il loro accesso anche a

quello di Venezia. Il Porro era in realtà l’ingenuo strumento del Landrieux. Giovanni Landrieux, in

un precedente lavoro Agnoli lo definisce un agente deviato, era in quel momento a capo del servizio

segreto della Armèe , Bureau de Police Politique. Questi definiva il Porro “assai riscaldato

demagogo”. Gli concedeva “cosa rara in Italia” la buona fede. Come se non bastasse in Lombardia

si trovava anche il Berthier, generale fedelissimo, a quei tempi, a Napoleone. Poi i suoi entusiasmi

si raffreddarono e finì di morte violenta e misteriosa alla vigilia del crollo finale di Bonaparte.

Si può rivolgere ad Agnoli l’accusa di essersi fondato solo su fonti di parte o datate? Certo fa

grande ricorso al dimenticato Botta. Ne cita però le raccolte di documenti. Botta non piace ai nostri

storici sempre, sempre, ricordiamolo anche sotto il fascismo. Progressivi? Eccoli accontentati. L’A.

non ignora gli studi attenti di Carlo Zaghi. Storico preciso del periodo napoleonico e giacobino,

aveva con onestà segnalato il carattere di “rivolta dei nobili” dei giacobini del nord-Italia, in

particolare della Lombardia. Brillante , un “liberal” nel senso più appropriato del termine, una sorta

di “ free lance”, fu tuttavia il direttore del “Risorgimento” quotidiano napoletano dell’immediato

dopoguerra di ispirazione liberale e comunque impegnato a tenere un equilibrata equidistanza,

sempre un po’ in anticipo sui tempi, fu nostro maestro di “decolonizzazione” agli inizi degli anni

’60 ai corsi di Scienze Politiche della Federico II a Napoli. Precedentemente aveva collaborato con

il professore architetto Canino alla apertura della Mostra d’Oltremare dopo l’impresa di Etiopia5.

Allora era un rigoroso studioso della nostra avventura africana. Solo un condizionamento alla

imperante ideologia? Gli studi sul giacobinismo iniziarono nel 1934. Non solo in Italia interessi

coloniali e giacobinismo sono contigui. Stupisce il successivo ravvedimento. Nel periodo

precedente la guerra le simpatie per le conquiste giacobine non escludevano un forte sentimento

nazionalista spesso indirizzato contro la Francia. L’acuto Zaghi nel 1940 poteva scrivere sulla

Nuova Antologia” un interessante e tutto sommato controllato articolo “Italia e Francia nel 1890-

91”. Con fermezza, anche con garbo però e senza concessione a beceri rancori sottolineava l’eterna

avversione francese alla nascita di un’Italia capace poi di giungere fino al punto di pretendere di

essere anche una potenza coloniale. Nel migliore dei casi i francesi ci consideravano degli ingrati.

Zaghi ha avuto l’onestà di ripubblicare questi suoi lavori nel volume “la spartizione dell’Africa”

(Napoli 1968). Ritornando ai suoi studi su Napoleone ed il giacobinismo in Italia, prende posizione

contro gli insorgenti di Lugo messa orribilmente a sacco dall’Augereau nel 1796. Definisce il

popolo, “popolaccio” e ne stigmatizza il fanatismo. Condanna i capi denunciandone prima la

demagogia poi la fuga vile lasciando inerme la popolazione. Non dimentica però di sottolineare la

politica di furti, di violenze portata avanti dai francesi tutti, in particolare Massena. Si pone con

sensibilità ed intelligenza il problema del “ Mistero del generale La Hoz” nel suo tuttora valido “ La

Rivoluzione francese e l’Italia”, Napoli,1966. Il passaggio del generale della Repubblica Cisalpina

alle file degli insorgenti, “dei reazionari” culminato con la morte sotto le mura di Ancona, non è una

spia del dramma vissuto dalla società italiana in quel periodo così controverso? La delusione dei

giacobini nei riguardi dei loro pretesi amici e sostenitori fu enorme. L’onesto Zaghi conclude “…

gli unitari- i fautori della libertà italiana- bollati con l’epiteto di anarchici” , considerati più

pericolosi degli stessi austriaci e delle vecchie classi conservatrici. Insomma la Rivoluzione della

penisola caldeggiata da Parigi non era in funzione italiana, ma rispondeva unicamente ad obiettivi

ed interessi francesi e i patrioti cisalpini, chiamati a condurla, non erano in ultima analisi, che una

semplice pedina nella spietata battaglia di conquista territoriale e di egemonia politica della quale

erano destinati ad essere essi stessi le prime vittime6 . Le conclusioni alle quali era giunto C. Zaghi,

opportunamente ricordato dall’Agnoli, sono confermate con qualche variante, id est un giudizio più

favorevole ai nostri giacobini in un recente studio. Esaminando il caso di Brescia in realtà si getta

luce anche su un aspetto non citato da Agnoli. Il clima rivoluzionario, l’adesione degli aristocraticigiacobini

della Terra Ferma alla invasione francese veniva da lontano. A parte il risentimento di

un’aristocrazia provinciale contro l’oligarchia dominante a Venezia entravano in ballo concreti ed

immediati interessi economici spia del malessere creato da un mezzo secolo di riforme portate

avanti anche nella Repubblica Serenissima di Venezia. A Brescia per lo meno, ma non è azzardato

estendere queste considerazioni anche ad altri domini della Terra Ferma , “ le terre dei

5 Si veda il bel romanzo, solo in apparenza è tale di fatto una vera autobiografia utile per una ricostruzione di ambienti,

uomini e cose:” Elena Canino, Clotilde tra due guerre”, Firenze, le lettere 2005, p. 321. Zaghi, già professore, vi appare

come un intelligente seppur cauto critico della politica estera fascista.

6 C. Zaghi, ripubblicò questo lavoro ed altri nel volume, “La Rivoluzione francese e l’Italia. Studi e ricerche”, Napoli,

1966. la citazione è a pagina 414 nel breve articolo dedicato alla figura di La Hoz. Carlo Zaghi “un pioniere” autonomo

come amava definirsi pur essendo morto in età molto avanzata ebbe un riconoscimento accademico definitivo solo

molto tardi. Dal punto di vista della carriera “in articulo mortis”. In Italia originalità ed indipendenza non pagano. Lo

studioso era un carattere indipendente ed originale. Anche quando collaborava col Canino alla apertura della Mostra

d’Oltremare ebbe insieme al Canino non pochi contrasti con il Tecchio che della Mostra era il vero

responsabile ed era naturalmente fascista convintissimo. Va inoltre ricordato che gli ottimi studi di Georges Lefebvre

sulla Rivoluzione Francese e su Napoleone , pubblicati in Italia solo nel secondo dopoguerra risalgono in realtà agli

anni ’30 del ‘900. Tutti i giudizi del “pioniere” Zaghi vi sono anticipati. L’onesto Lefebvre anzi rincara la dose contro i

furti e la slealtà del Direttorio e di Napoleone. Zaghi era un uomo colto non doveva ignorare queste opere . Edite

finalmente in italiano nel secondo dopoguerra, era il tempo della lotta di classe e dei blocchi contrapposti, esse sono

cadute poi nel dimenticatoio. Nessuno studioso dell’Italia rispettabile e costruttiva dei nostri giorni le ricorda.

centoventisette conventi soppressi nell’ultimo trentennio della Repubblica erano finite nelle mani

dell’ aristocrazia dominante della Terra Ferma”. Così Filippo Ronchi7 . Tutto conferma una tesi

anch’essa applicabile al resto d’Italia e nel caso specifico ai giacobini, meglio dire ai filofrancesi,

del 1796-97 e degli anni precedenti nei domini veneti. Ciò anche se il Ronchi, studioso del

bresciano, cerca di dimostrare la presenza tra essi di famiglie non propriamente aristocratiche.

Sarebbero gli emergenti dal ceto manifatturiero. A riprova di questa tesi vengono citati i Lechi, i

Mazzuchelli ed Arici. In realtà anch’essi erano titolati. Il loro blasone non era antico quanto quello

degli altri filofrancesi tuttavia risaliva , è il caso dei Lechi, al XVI secolo altrettanto quello dei

Mazzuchelli. L’autore, certo non sospettabile di nostalgia e rimpianto per l’Antico Regime ,

conclude con onestà. “ La passione antitirannica nella rielaborazione compiuta da questa parte della

nobiltà locale, in opposizione al dominio veneziano, non intende intaccare, però, i rapporti sociali di

predominio sulle classi subalterne”8. Così , mettendo una pietra sopra sul giusto affetto di contadini

e popolari per la vecchia oligarchia veneta che per lo meno li difendeva da questi nuovi e più rapaci

signori, un aspetto invece sempre presente nell’Agnoli, conclude da buon risorgimentista

ricordando la partecipazione di questi aristocratici-giacobini alle sanguinose campagne

napoleoniche “ integrandosi nei massimi quadri della gerarchia militare”. Era la Rivoluzione che

essi, a dire del Ronchi, poco esperti ed aggiornati dell’epoca di Robespierre e degli estremisti, erano

disposti ad accettare. Questa versione era stata apportata loro da Napoleone ed era perfettamente

consona ai loro limitati ideali. Resta da sottolineare , ed il Ronchi, al pari di tanti storici dell’ultima

vulgata della Rivoluzione , non sembra porsi il problema quanto del più deteriore giacobinismo

fosse stato assimilato e fatto proprio da Napoleone e dai circoli a lui vicini, a cominciare dalla sua

ambiziosa ed avida famiglia che ne era la vivente espressione. Questa, per ora e forse ancora per

molto tempo, è questione non urgente per una storiografia da decenni impegnata a liberarsi, per lo

meno in apparenza, dal volto spietato e feroce del vecchio giacobinismo per fare spazio a quello

costruttivo, decisionale, e diciamolo “manageriale”, tanto sottolineato nei nostri tempi.

Interessante la figura del conte Rocco Sanfermo. Consigliere di Massimo Priuli podestà di Verona.

Entrambi dovevano trattare nella difficile situazione della città. Il conte venne accusato “ di

debolezza o addirittura di eccessive simpatie” per la Rivoluzione. In realtà, per lo meno in quella

circostanza, la sua fedeltà viene salvata da Agnoli. Avendone studiato i precedenti di ministro

veneziano in Savoia, gli rende in qualche modo giustizia. Aveva compreso sin dal ’90 e poi

avvertito la Repubblica nel 1794 le finalità di sovversione e di sacco dei francesi. “In entrambe le

circostanze non era stato ascoltato” ( p. 35). Nella seconda occasione aveva capito bene la politica

estera del Comitato di Salute Pubblica. Era volta a creare una rete di spie e provocatori nel nord

Italia per destabilizzarla. Gli faceva eco il citato Agdollo autore dell’osservazione: “Nei nobili, nel

militare vi sono dei Frammassoni, vi sono, chi servì, serve e servirà i francesi”. Seguita dall’altra.

“Tutta la forza dei francesi consiste nella base dei loro principi, cioè nei Franchi Muratori, di

questi se ne trovano in tutte le città , e fatalmente nei gabinetti, nella truppa e quasi in ogni ceto di

qualche educazione: essi facilitano le aderenze, in Maneggio, il Tradimento” Agdollo confermava

nel suo rapporto del 1796. La Repubblica , l’Italia intera erano mature per cadere nelle braccia della

Francia? Vi si gettavano addirittura , se non la invocavano? Se è così ecco pronta l’interpretazione

degli storici, non dico filogiacobini, ma dei cosiddetti “realisti”. Sono i più pericolosi, perché i più

numerosi. Gente priva di saldi principi morali alza le vele dove tira il vento. Se i francesi e i loro

sostenitori vinsero allora, se ne deduce, la storia andava nella loro direzione. Gli altri? Stolti,

dannati, reazionari. Perché perdere tempo e dire che l’Italia, non solo il maltrattato Regno di Napoli,

erano “in bilico”. Chi si opponeva ed era la maggior parte del popolo, non meritava né

considerazione e , peggio ancora, non meritava umana comprensione. La storia , quasi una

prostituta, va con chi vince. Agli studiosi, pochi in verità, partecipi del dramma di questo popolo

non viene data considerazione. Ai “nostalgici”, sono la maggioranza degli oppositori

7 F. Ronchi , Il bresciano alla vigilia dell’invasione napoleonica, in “Rassegna Storica del Risorgimento” lugliosettembre,

199, p. 353

8 F. Ronchi, op. cit. p. 354

dell’interpretazione accettata dalla nostra storiografia in questo momento, viene con relativa

facilità, più spesso con spocchiosa arroganza, dalle vestali della Rivoluzione in prima linea,

rimproverata la mancanza di metodo e di aggiornamento. Questo, a loro avviso, consisterebbe nel

rinvenire una carta, ve ne sono di ogni sorta, testimone di una precoce coscienza unitaria e politica,

negli in verità, scalcinati, giacobini.

L’impeto napoleonico , fu facilitato dal barbaro concetto del Carnot, la guerra deve nutrire la

guerra, cioè l’esercito si nutre sul posto ai danni delle popolazioni. Dava ai francesi l’apparente

sensazione della vittoria. La prudente ritirata degli austriaci tesi a salvare le truppe e le basi

logistiche, li faceva apparire sconfitti. Alla fine i veri vincitori furono i secondi. La Francia si

logorò e nel complesso non si riprese mai più. La “moribonda” Venezia, mostrava il suo volto

umano anche nel corso della crisi. Alle popolazioni affamate furono inviati quindicimila ducati per

sopperire alla mancata macinazione della “farina gialla”9 , il granoturco principale alimento della

popolazione. Questa crisi era causata dalla impossibilità di far funzionare i mulini a causa delle

operazioni belliche in corso nel territorio veronese. Al buon governo di Venezia non faceva

riscontro un atteggiamento deciso contro la prepotenza dei francesi. Questi nel frattempo

occuparono anche Bergamo col pretesto di atteggiamento ostile della popolazione alimentato come

al solito anche da provocatori francesi. Fin qui seguiamo con convinzione l’appassionata

ricostruzione di Agnoli. Ad un certo punto ci sorge la domanda dettata da esperienza di vita e di

studi. L’A. non ci propone certo una versione aggiornata del “Popolo agli Inizi del Risorgimento”.

Anche se le fonti sono spesso dello stesso tipo di quelle usate per il Regno di Napoli dal Rodolico

(1926). Se ne distacca quasi con amarezza. La sua onestà intellettuale gli fa cogliere il limite di

quegli umani, forse troppo umani, funzionari veneti. È l’eterna tragedia italiana: “vorrei ma non

potrei”. L’Ottolini al quale è affidato il castello di Bergamo è impotente. Vorrebbe resistere e la

pavida Repubblica lo blocca. Il popolo è ostile ai francesi ma non si va oltre qualche sporadico

scontro. Questo è cercato se non provocato dai francesi, temuto come il male peggiore dal governo

veneto. La partigiana follia di giacobini borghesi ed aristocratici complica le cose. Il cinico

Napoleone si comporta come un volgare arricchito in procinto di comperare i beni di una famiglia

decaduta, così Agnoli. Questa è l’Italia tutta, la Lombardia e la Repubblica Veneta nel caso in

questione. I patrioti, “patriotti”, come amavano definirsi, borghesi ed aristocratici pensano, nella

migliore delle ipotesi, questa è molto rara, di strumentalizzare l’avido cafone corso. In genere, è il

caso più frequente, in particolare nel Regno di Napoli, sono poveri illusi, giovani inesperti.

Avevano già suscitato l’orrore del Galanti ormai in punto di morte. Vedono in Napoleone l’uomo

del futuro. Il popolo, l’unico elemento ancora vigoroso della società italiana, è capace solo di furori.

La sua stessa grande civiltà gli impedisce, per fortuna possiamo ben dirlo, di vedere un futuro privo

di classi egemoni che ne prendano la guida ed allo stesso tempo non lo spingano al macello o a folli

avventure. Ciò avverrà molto tardi. Sarà il frutto amarissimo della Grande Guerra. Il vero intrigo

delle Pasque Veronesi è presentato con chiarezza dall’A. Non a caso ci troviamo a fronte di un

esperto magistrato10. È un gioco cinico in cui quasi nessuno esce fuori con le mani e la coscienza

netta. Questa non si poteva pretendere dal corrottissimo Direttorio ed in particolare dal Barras che

avrebbe garantito l’indipendenza di Venezia dietro un compenso di ottocentomila lire salite poi ad

otto milioni. Era un terribile gioco. Da un lato Napoleone dalle idee chiarissime , dall’altro

personaggi senza scrupoli quale il Landrieux, questi, come tanti francesi, aveva cominciato come

realista. Tutti i francesi erano rotti ad ogni sorta di esperienze e desiderosi di cavare dall’affare

Venezia il massimo dei risultati senza restarci impaniati. Il lucido Bonaparte era il peggiore. Aveva

9 Era quella che i napoletani ancora agli inizi del’900 chiamavano “ A’ farenella pe’ e’ galline”. La divisione del paese

in polentoni e mangiamaccheroni era già in atto ai tempi dell’invasione. Tra le due diete non è affatto detto che quella

dei sudditi di Ferdinando, considerato ignavo dagli storici di parte , fosse la peggiore. Da noi non si ebbero gravi

epidemie da sottoalimentazione con granturco guasto, la famosa “ pellagra”. Un flagello sociale forse superiore alla

stessa malaria del centro Italia e del Mezzogiorno.

10 Le sue riflessioni in materia risalgono al 1998 con il volume “Le Pasque Veronesi”.

un disegno in parte chiaritogli dagli ingenui Cisalpini. Consapevole della debolezza del Direttorio ,

cercò di scaricare tutte le responsabilità sul Landrieux. Gli italiani non ci fanno figura migliore.

Iseppo Giovanelli, la più alta autorità veneziana a Verona, corrotto dai francesi con denaro, aveva il

compito di organizzare un attacco controllato ( in corsivo nel testo p. 58) alla guarnigione francese

di Verona, in modo da offrire una giustificazione per Napoleone agli occhi dell’Europa per la fine

della Repubblica. Ne scaturì un macello con duemila morti. Cifra dichiarata dal Bonaparte

interessato ad aumentare il numero per giustificare l’attacco a Venezia. Chi ne poteva trarre il

massimo utile se non Napoleone ? Così lo accusò poi il Landrieux. Questi cadde in disgrazia.

Napoleone ne voleva fare un capro espiatorio? Fuggì. Poi tutto si calmò. Anche il destino di

Giovanelli è strano. Ma non tanto. Condannato a morte in contumacia gli fu poi conferita proprio

dal Bonaparte “una delle più alte dignità del Regno d’Italia”. Anche il Dandolo, ultimo e forse

unico esponente di rilievo della Municipalità, democratizzata, ovvero giacobina, di Venezia dopo

essere stato come al solito brutalizzato in una delle usuali “sceneggiate” di Napoleone11, si ebbe in

seguito una buona sistemazione in Dalmazia. Napoleone opponeva in Italia una sua guerra

personale peraltro più realistica ed intelligente ai piani del Direttorio. Questo oscillava tra avidità e

ideologismo anticlericale. La calata della armata dalle Alpi, “i pidocchi di Provenza” capitanati dal

giovane Bonaparte mirava , come testimonia il noto messaggio del Direttorio giustamente riportato

dall’Agnoli, a : “distruggere il governo papale di maniera che, sia mettendo Roma sotto un’altra

potenza, sia, il che sarebbe ancora meglio, stabilendovi una sorta di governo indigeno che

renderebbe miserevole e odioso il governo dei preti, il Papa ed il Sacro Collegio non possano

nemmeno concepire la speranza di tornare mai a Roma e siano obbligati ad andare a cercarsi un

asilo in un luogo quale che sia, dove non avrebbero più il potere temporale” (p.63). Era un piano

dottrinario e militarmente poco sostenibile. Napoleone capì il rischio di andare a perdersi “nel fondo

dell’Italia”. Lì avrebbe trovato magari un cardinale Ruffo alla testa dei popolani. Capì la possibilità

di colpire al cuore l’Impero Asburgico, non con la guerra sul Reno come si pensava a Parigi, ma

marciando direttamente su Vienna partendo dai territori veneti. La prospettiva di venire in possesso

della loro ricchezza di bottino bastò a convincere il Direttorio avido quanto screditato. I francesi

erano cinici, ladri e quasi sempre in contrasto tra loro. Avevano però una stella polare. Prendersi

gioco dei disprezzati italiani. Questi si credevano furbi ed in realtà erano solo deboli. Landrieux,

Bonaparte, il loro manutengolo locale. Era un imbroglione francese che si era fatto le ossa

commerciando in pietre false, il Lhermite, aveva un solo punto a suo favore, amicizie tra il popolino

di Bergamo. Quasi tutti i francesi provavano gusto a giocare gli italiani e la loro “decantata

astuzia”. Questa li rendeva sospettosi e allo stesso tempo ancora più decisi. Parte della nobiltà di

Bergamo era di orientamento giacobino, il Vescovo Dolfin “contagiato dal giacobinismo” non era

da meno. Restava il popolo fedele al buon governo della Repubblica. Nessuno seppe guidarlo. Non

lo erano gli esponenti della “piccola rappresentanza del notabilato bergamasco di prudente fede

veneziana” ( p.70). Questi cedettero al colpo di mano francese e giacobino/aristocratico su

Bergamo “per non esporre se stessi ed i loro cari alla demagogia prorompente ……sperando che

ritornerebbero i giorni migliori in cui potessero dimostrare la loro fiducia il Senato e Venezia” (p.

70). Così deve amaramente constatare lo stesso A. sulla scorta delle memorie del Landrieux

attentamente studiate. I francesi con una serie di colpi di mano si impossessano dunque di Bergamo.

11 Nella varia umanità al seguito di Napoleone in Italia il generale Gérard Christophe Michel Duroc svolge un ruolo un

tantino diverso. Ciò proprio a proposito delle “sceneggiate” di Napoleone. Erano queste un altro carattere , diciamo

mediterraneo per amor di patria, del corso. Duroc era come ricorda il Palmer nato in una famiglia aristocratica

impoverita. Al pari di Berthier, nato non a caso a Versailles, figlio di un topografo militare molto rispettato nell’esercito

di Luigi XV, aveva un raffinato tratto aristocratico. Era stato addirittura un emigrato per un breve periodo. Tornato in

Francia e compagno di Bonaparte sin dall’assedio di Tolone nel 1793, le sue maniere aristocratiche ed il tatto gli

permisero di appianare spesso le lacerazioni provocate dagli scatti isterici di Napoleone. ( Rifts caused by Napoleon’s

tantrums). Aristocratico, fece scelte apparentemente diverse da quelle dei parvenu al seguito di Napoleone. Questi

tesero a nobilitarsi sposando delle aristocratiche. Il nobile Duroc mirò al sodo sposando la figlia di uno dei più abili

banchieri spagnoli. Si arricchì. Non godé a lungo del frutto del suo guadagno. Un giorno dopo della battaglia di

Bautzen, il 22 Maggio 1813, una palla di cannone russa lo uccideva. V. A. Palmer , An Encyclopaedia of Napoleon’s

Europe, 1998.

Al governo veneto rispondono con incredibile faccia tosta. Manderanno il capo della cavalleria per

verificare cosa è veramente accaduto sul posto. Brescia come Bergamo. “ A non volere più San

Marco e a lavorare per la democratizzazione erano appunto i sior, i discendenti delle grandi

famiglie patrizie, che puntavano sulla Rivoluzione per riconquistare l’antico potere e gli antichi

privilegi” (p. 75). Tutto giusto. Meno convincente è , a mio avviso, la voglia di combattere per la

Repubblica di San Marco dei commercianti, degli operai , degli artigiani. La loro manifestazione si

spegne non appena il prudentissimo rappresentante del governo veneto fa uscire gli “schiavoni”, le

truppe dalmate, per riportare all’ordine la cittadinanza. Tutti, inclusi i soldati dalmati, sembrano

desiderosi di combattere per Venezia. Nessuno però né a Bergamo , né a Brescia, si ribella alla

prudente e arrendevole politica del Governo di Venezia, deciso quest’ultimo a giocare la carta della

neutralità. Forse conosceva la reale forza dei suoi pur sinceri e numerosi sostenitori. Leoni erbivori,

eroici a chiacchiere, inutili contro i feroci francesi e i pazzi, fanatici, giacobini. La maggioranza di

fatto fu sempre passiva per tutto il Risorgimento. A Salò l’albero della libertà viene piantato dal

giovane Conte Francesco Gambara, altro esponente aristocratico del giacobinismo locale. Lo stesso

agente provocatore, così possiamo catalogarlo sulla base dei dati raccolti dall’Agnoli, Landrieux

definisce “ intempestiva petulanza” quella dei giacobini bergamaschi. In realtà non mostra mai di

stimarli. Altre volte li definisce ubriaconi. Quanto agli insorti della montagna in nome di San

Marco, Agnoli, esperto di moti antigiacobini, ne coglie il limite. Inesperienza e mancanza di capi.

Era avvertito dagli stessi ribelli. Questi cercavano legittimazione e guida. Perciò si affrettarono a

cercare un capo. Al pari di quanto avevano fatto i Vandeani , si rivolsero alla vecchia nobiltà

realista, si recarono presso la casa del Conte Zuanelli. Dopo qualche resistenza “e non posso

(p.83), il figlio primogenito , il conte Giovanbattista, consentì a mettersi al loro comando.

Finalmente ci fu la rivolta della montagna. L’apporto dei montanari della Val Sabbia guidati da un

prete, don Andrea Filippi parroco di Barghe, ma non dimentichiamo c’erano altri religiosi ed un

vescovo, il Dolfin, giacobini o filogiacobini, inflissero una sonora lezione a francesi, polacchi e

giacobini locali (p. 85). Fu un fuoco di paglia. Landrieux mandò rinforzi. I montanari dovettero

ritirarsi. Ad una ad una le valli furono conquistate da francesi e giacobini. Fu anche la resa con la

richiesta di protezione direttamente ai francesi sempre meglio che ai giacobini locali. Violenze, furti

in particolare gli arredi sacri della Chiesa parrocchiale di Salò. La casa di don Filippi, questi si era

salvato con la fuga ed era stato condannato a morte in contumacia, rasa al suolo. Un anticipo di

quanto sarebbe accaduto dopo un paio d’anni nel Regno di Napoli, dove il tutto doveva poi ripetersi

nel 1860 con caratteri ancora più aspri. Ma in fondo si ribellano le valli di montagna12. Le prospere ,

si fa per dire, nel tardo ’700 non dovevano essere proprio tali, campagne circostanti Bergamo e

Brescia, cosa fanno? Il controllo dei francesi doveva essere totale. Nessuno si mosse. I poveri

montanari furono lasciati soli. Non ebbero nemmeno il conforto del numero, quello che aiutò i

contadini del sud a mettere in difficoltà i francesi nel 1799. Non va dimenticato come nel Regno di

Napoli l’armata francese ,era meno numerosa di quella di Napoleone nel ’96, fu capace di uccidere

70.000 regnicoli. Così racconta Amante , nel suo classico lavoro su Fra Diavolo. Le cose

peggiorarono nella seconda invasione, quella del 1806. I francesi erano più numerosi, la gente del

sud più disincantata. Si ribellarono a macchia di leopardo. Diedero filo da torcere a francesi e

giacobini per un decennio per ritrovarsi poi soli contro il re restaurato e gli eterni giacobini il cui

12 Già il 23 Maggio 1796 a Binasco e Pavia era avvenuta una rivolta popolare contro le contribuzioni e requisizioni

imposte dai soldati di Napoleone. “la canaglia armata “l’esercito guidato da Bonaparte che aveva sostituito il generale

Schérer, spesso ubriaco ed in rotta col Direttorio ( si veda Palmer Encyclopaedia cit. , ad vocem ) impiegò tre giorni per

domarla. Poco prima il 28 Aprile, a Cherasco, Napoleone aveva firmato un armistizio col vinto re di Sardegna. La

strada d’Italia gli era ufficialmente aperta. “ Da parte sua Buonaparte abbandonava i patrioti italiani (i giacobini locali)

che il re di Sardegna fece in gran parte arrestare”. Era il primo atto di disprezzo verso gli italiani creduloni. ( cit. in , J.

Godechot, La grande nazione, l’espansione rivoluzionaria 1789-1799, Bari, Laterza 1962, p.237. Quanto a Schérer fu di

nuovo a capo dell’armata d’Italia nel 1799. sconfitto dallo spietato Suvorov, un predecessore dei sanguinosi assalti alla

baionetta, fu in seguito accusato di peculato. Le accuse furono lasciate cadere da Napoleone ormai Primo Console. In

fondo Schérer, molto più cauto di Napoleone, gli aveva lasciato un’armata degna degli epiteti di “canaglia armata” e

“pidocchi di Provenza” ma meno disorganizzata di quanto si dice. Dopo la caduta di Carnot fu infatti anche ministro

della guerra.

amore il re cercava di recuperare non fidandosi né dei contadini né degli inetti, per non dire peggio,

e feroci realisti. Nella versione di Agnoli tutti gli eventi possono riassumersi nella famosa favola del

lupo e dell’agnello: << Super stabat lupus, inferior agnus >> (p. 98-99). Si veda in proposito la

lettera consegnata da Junot al doge il 15 Aprile 1797. Il cinismo e l’apparente realismo, non era

tale, restava solo in piedi il primo aggettivo, di Napoleone appaiono nella lettera diretta ai Direttori

molto più cauti del corso anche se legati ad una visione politica e geopolitica di corto se non

cortissimo respiro da riassumersi nell’ossessione per i “confini sul Reno”. Riva sinistra inclusa

ovviamente. Indipendentemente da ciò Napoleone scriveva di non preoccuparsi della sorte della

Repubblica: “ la sua influenza si trova ad essere notevolmente diminuita e questo è tutto a nostro

vantaggio e , d’altra parte, lega l’imperatore alla Francia e obbligherà questo principe, durante i

primi tempi della nostra pace, a fare tutto quanto potrà per esserci gradito” (p. 100) . Era un

accordo tra briganti a spese della Repubblica13. L’Austria vi accede in mala fede poco convinta di

aver fatto un buon affare. Resta però integra soprattutto nella sua base territoriale e nell’esercito

sottratto ancora una volta dai suoi abili ed umanissimi generali ad uno scontro frontale definitivo.

Napoleone era un baro e lo sapeva. Il suo esercito non poteva continuare la guerra. La sua vittoria fu

solo apparente. L’ostinata resistenza tedesco/austriaca alla fine, concorrendovi la sua megalomania

e la folle politica , lo avrebbero portato a S. Elena. Il 25 Marzo 1797, malgrado la perdita di fatto di

Bergamo e Brescia, dovuta senz’altro all’intervento francese in appoggio alla scarsa consistenza e

capacità dei giacobini locali, Venezia ancora perseguiva una politica di mentalità disarmata. Si

andava a chiedere al generale Balland, detentore della fortezza di Verona, ed allo stesso Bonaparte

il permesso di poter intervenire contro eventuali movimenti insurrezionali dei giacobini locali

fomentati con l’aiuto degli insorti di Brescia. Era l’assurdo. La Repubblica di fatto non era più

padrona in casa sua. I francesi fecero le mosse di cadere dalle nuvole. Napoleone, pur manifestando

sdegno per l’ostinazione veneta a non intervenire a favore della Francia nel conflitto in atto con

l’Austria, confermò l’assoluta estraneità dei francesi ai movimenti degli insorti locali auspicando

addirittura il successo del Senato Veneto nella eventuale sconfitta dei ribelli (p.109). In pochi giorni

sembrò assistersi ad un capovolgimento dei fronti. Il 29 Salò, precedentemente messa al sacco dai

francesi e giacobini, insorse e cacciò i secondi. Sembrava arrivato il momento della rivincita di

Venezia. Era la buona occasione aspettata dai francesi sia dal Landrieux espressione del Bureau

Secret che dal Bonaparte, anzi chiaramente auspicata e fomentata da quest’ultimo, per intervenire

dopo aver provocato ad arte incidenti e sommosse antifrancesi. Non mancò anche questa volta un

agente provocatore,il capitano Angelo Pico, un avvocato piemontese con una buona esperienza di

moti rivoluzionari alle spalle. Servendosi delle memorie del cauto brigadiere Antonio Maffei,

Agnoli gli attribuisce un tentativo rivoluzionario da portare avanti proprio la settimana precedente

la Pasqua. La provocazione fallì grazie all’ottimo funzionamento dei servizi segreti della

Repubblica di San Marco. Un infiltrato, pagò poi con la vita, informò le autorità pronte ad arrestare

quasi tutti i congiurati. Avrebbero dovuto assassinare i principali esponenti del governo di Venezia

a Verona. Si passò alla fase più diretta del piano di destabilizzazione quella preferita sin dall’inizio

dal Bonaparte. Provocare una rivolta popolare di tale entità da giustificare agli occhi dell’opinione

pubblica europea il desiderato attacco alla Repubblica di Venezia. L’occasione fu facile. Si

pubblicò un manifesto teso ad eccitare gli animi contro i francesi. Era un falso. Tale fu giudicato

anche dal Thiers. Così viene ritenuto dalla storiografia francese ancora oggi. Alla fine ci fu la

13 Il citato J. Godechot, un noto storico francese , scriveva nel 1962 ed è ancora attendibile, pur dividendo equamente le

responsabilità tra appetiti secolari dell’Austria e protervia di Napoleone, sarebbe più opportuno dire cinico calcolo,

finisce con l’ammettere: “ toccò all’armata francese sostenere il ruolo di provocatrice in tutto questo rivoltante affare

della spartizione della Serenissima”. J. Godechot, op. cit. pp. 249-49. Lo stesso Autore già a quella data confermava

pienamente la tesi dell’Agnoli, suffragata da più recenti studi ,sul ruolo svolto da provocatori del servizio segreto

francese, dal Landrieux in particolare, nelle sollevazioni di Bergamo , Brescia e Crema, assegnandogli poi un ruolo

chiave per i fatti di Verona. Ciò non viene sottolineato con altrettanta decisione nel lavoro pure specialistico di A.

Fugier, Napoleone e l’Italia , voll. II. Questi lascia qualche dubbio sulle responsabilità di Verona. La sua opera però

apparve in francese nel 1947. Fu pubblicata in italiano nel 1970 con un aggiornamento bibliografico a cura di R.

Ciampini. Su questo ed il saggio introduttivo dello stesso, in particolare sul primo, bisognerebbe tornare per

comprendere il persistere, se non le origini , di tanti equivoci da parte della storiografia italiana.

provocazione di colpi di cannone sparati sulla città da parte dei francesi. Furono suonate le campane

a stormo per reazione. Era la rivolta tanto attesa dai francesi. Il prezzo da loro pagato fu più alto del

previsto. Ciò però fece piacere a Bonaparte che ingigantì il numero dei caduti francesi; da 600 a

2000 morti. Venezia, nota Agnoli, avrebbe potuto giocare la carta della disperazione. Non ci si

mosse neanche in quella circostanza perdendo così l’ultima occasione per sedere al tavolo dei

vincitori nel 1814 (p.121).

<<Voi osate far leggi indipendentemente da me, che rappresento la Repubblica francese……Chi

siete voi? Meri agenti scelti da noi, un’amministrazione puramente passiva!>>. Così il generale

Despinoy sostituto di Bonaparte, momentaneamente assente, si rivolgeva alla Municipalità di

Milano già nel Maggio 1796. Le linee erano già tracciate. La disperata Municipalità Milanese, la

congregazione di Stato nelle quali gli elementi di ispirazione rivoluzionaria alla Marat, o alla

Robespierre erano emarginati a favore della “aristocrazia conservatrice illuminata” e della

borghesia moderata, aveva contribuito a far balenare nella mente di Napoleone un programma

pienamente portato avanti nel seguito delle operazioni militari del ’97. Questa prevalenza degli

elementi moderati rispetto ai fanatici seguaci di Robespierre é stata considerata di recente da

Antonino De Francesco un elemento innovativo e positivo. Ovviamente gli altri storici si sono

aggregati. L’abbiamo detto, oggi tutti o quasi , sono divenuti, savi, costruttivi e moderati. La cosa

era stata già sottolineata, con minore enfasi dal citato “pioniere” Zaghi. Per quanto riguarda il

Regno di Napoli solo ultimamente, dopo qualche sollecitazione di altri studiosi di diversa

impostazione, si comincia a prendere atto di questa realtà prima respinta. In nome di una purezza

ideologica? I giacobini milanesi volevano una repubblica, desideravano estenderla ai ducati

emiliani, alle legazioni pontificie, al Piemonte ed impossessarsi per lo meno della Terra Ferma della

Repubblica di San Marco. Senza accorgersene avevano contribuito a delineare il piano sviluppato in

seguito dal Bonaparte e finalizzato però a soddisfare la sua sconfinata ambizione. Difatti un anno

dopo, nel Maggio 1797 l’intera vicenda stava per concludersi e Napoleone era già, da un lato quasi

prossimo a Vienna, dall’altro lato, oltre all’episodio delle Pasque Veronesi era avvenuta anche la

provocazione/incidente dell’affondamento del Libérateur de l’Italie la piccola nave francese

penetrata nel porto di Venezia e l’uccisione del suo giovane ed irruento comandante Jean Baptiste

Laugier ( 20 aprile 1797). Questo evento diede al Bonaparte l’occasione tanto desiderata di

coinvolgere il governo veneto in un atto di guerra. Agnoli con prosa chiara, senza le contorsioni

tipiche dei nostri storici abituati ad arrampicarsi sugli specchi pur di dimostrare l’inevitabilità della

piega assunta dagli avvenimenti ,- il solito Napoleone a cavallo della storia magari strumentalizzato

dall’abile “machiavello” italiano-, ci riconduce all’orrido vero. Anche in seguito quando fu fondato

il Regno d’Italia, fra l’altro avrebbe riscattato il tradimento di Leoben/Campoformio strappando di

nuovo Venezia all’Austria, la sudditanza italiana era finalmente chiara al punto che il Beauharnais,

vicerè a Milano riceveva fino a tre lettere di istruzioni al giorno dall’infaticabile Napoleone ed

Antonio Aldini