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La tragedia dei cetnici nella Jugoslavia in guerra

di Sergio Romano - 19/05/2007

 

Ho letto con interesse la sua risposta in merito alla Seconda guerra mondiale in Jugoslavia. Parla degli italiani, dei tedeschi, dei partigiani di Tito e dei cetnici di Mihailovic.
Potrebbe darmi qualche informazione in merito a questi ultimi? Chi erano e da che parte stavano?
Anche recentemente ho sentito parlare di loro, ma vorrei farmene un'idea più precisa.

Giovanni De Padova, giovannidepadova@ yahoo.it

Caro De Padova, esiste da qualche mese un interessante libro di Stefano Fabei sui «Cetnici nella Seconda guerra mondiale». È pubblicato da una casa editrice di Gorizia (la Libreria Editrice Goriziana), fondata alcuni anni fa da un libraio della città, Adriano Ossola, e divenuta da allora uno dei maggiori centri editoriali europei per le vicende politiche e militari dell'Europa centrale, danubiana e balcanica fra Ottocento e Novecento. Nel libro di Fabei lei troverà un'ampia documentazione su questa formazione militare che si costituì nella Jugoslavia occupata dopo il blitzkrieg tedesco della primavera del 1941 e sulla sua tragica fine.
Cetnico, prima dell'inizio delle ostilità, era il nome di un movimento jugoslavo che si proponeva di perpetuare il ricordo delle bande armate (in serbo ceti) sorte spontaneamente all'epoca della dominazione ottomana. L'organizzazione aveva il patronato dello stato maggiore ed era addestrata a condurre operazioni di guerriglia contro le forze d'occupazione nell'eventualità di un nuovo conflitto. Fu così che dopo la capitolazione dell'esercito monarchico jugoslavo, nell'aprile del 1941, un colonnello, Draza Mihailovic, riunì 26 ufficiali, li portò con sé sull'altopiano di Ravna Gora, nella Serbia occidentale, e cominciò a costituire formazioni militari composte prevalentemente da volontari serbi. Vi furono subito contatti e, per un certo periodo, rapporti di collaborazione con le formazioni che Tito stava riunendo nell'intero Paese. Ma fu evidente, sin dai primi mesi dell'occupazione, che fra i cetnici di Mihailovic e i partigiani di Tito vi erano divergenze tattiche e strategiche. Mihailovic voleva mettere a segno qualche operazione contro gli occupanti, ma era frenato dal timore di scatenare crudeli azioni di rappresaglia contro la popolazione civile; mentre Tito pensava che le rappresaglie avrebbero attizzato il fuoco della resistenza. Mihailovic era serbo e interessato soprattutto al progetto di una «Grande Serbia», destinata a un ruolo egemone sull'intera penisola; mentre Tito predicava una dottrina a cui avrebbero potuto aderire, indifferentemente, serbi, croati, sloveni, macedoni e altre minoranze della vecchia Jugoslavia. Mihailovic era monarchico e voleva presidiare una parte del territorio per il giorno in cui la dinastia sarebbe tornata dall'esilio; mentre Tito voleva la rivoluzione e l'instaurazione di uno Stato comunista. Le divergenze divennero ancora maggiori quando la feroce politica anti-serba del regime croato di Ante Pavelic indusse Mihailovic a stringere rapporti di collaborazione con chiunque gli permettesse di proteggere i suoi connazionali.
Collaborò soprattutto con gli italiani e finì per combattere gli ustascia di Pavelic e le formazioni di Tito più di quanto non avesse combattuto contro le forze d'occupazione. Fu quello il momento in cui la Gran Bretagna smise di considerarlo un utile alleato nella lotta contro le potenze dell'Asse e puntò ogni sua carta sul maresciallo Tito.
Alla fine della guerra Mihailovic, caduto nelle mani dei partigiani, fu considerato, inevitabilmente, un traditore. Durante il suo processo, iniziato nel giugno 1946, si difese con un discorso sobrio e coraggioso in cui raccontò la storia della propria vita e cercò di spiegare quali e quante difficoltà avesse incontrato sulla sua strada durante i terribili anni della guerra. Fu ascoltato con rispetto, ma condannato a morte e fucilato con altre dieci «traditori» all'alba del 17 luglio.