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La vicenda Unicredit-Capitalia: come prendere per il naso i consumatori e vivere felici

di Carlo Gambescia - 22/05/2007

 

Il totale consenso della stampa all’acquisizione di Capitalia da parte di Unicredit, dovrebbe essere sufficiente per capire come l'operazione abbia incontrato il gradimento dei “poteri forti italiani”. Poteri che governano l’economia italiana, attraverso le banche, e ne giustificano il crescente controllo, usando quei giornali che - chiudendo il cerchio - dipendono proprio dalle banche. Il perno intorno al quale ha ruotato l'intera operazione è Mediobanca: la cassaforte del capitalismo italiano, come di solito si scrive, che si regge sul cosiddetto “patto di sindacato”.
Patto che prevede, che le azioni delle banche, attualmente al 22,4 % (gli industriali italiani sono al 25,7 %; gli stranieri al 9,5%), con l’arrivo della nuova “superbanca”, che avrà una partecipazione superiore a quella degli altri soci di sindacato, possano essere redistribuite all’interno del gruppo di appartenenza societaria (le banche stesse), favorendo così l'accrescimento del potere del mondo bancario, all’interno del patto, e prevedibilmente sull’intera economia italiana (su tali aspetti istituzionali http://www.mediobanca.it/uploaded_files/documents/Estratto%20aggiornato%20gennaio%202007.pdf ).
Questi i fatti. Altro che vittoria della libera concorrenza… E guai a farsi trascinare, in quella specie di "tifo" semisportivo per le varie consorterie creditizie, solo apparentemente in guerra fra di loro.
Perciò, la vera questione concerne un processo di concentrazione bancaria interno al mercato italiano, ormai pressoché conclusosi. E attraverso il quale è sorto un duopolio, che pone da una parte il neonato gruppo Unicredit Capitalia, al primo posto assoluto, e dall’altra il gruppo Intesa San Paolo. Mentre tutto il resto del mondo bancario, e ci riferiamo in particolare a Mps, Unipol, Mediolanum, e alle due grandi popolari Bpvn-Bpi e Bpm-Bper, è condannato a rimanere a un livello di capitalizzazione, grosso modo, 6-8 volte inferiore a quello delle due “superbanche”. E seppure queste banche riuscissero a coalizzarsi, al massimo potrebbero far sorgere un terzo polo, fortemente diviso al suo interno ( attualmente le banche in Italia sono meno di 800, i gruppi bancari 85 in tutto, e le associate 230, le non associate 554). Quanto alle cosiddette banche medie e soprattutto piccole, sparse sul territorio (solo le BCC sono 439), queste non hanno alcuna possibilità di influire non su un "mercato poliarchico", ma d'ora in avanti duopolistico ( per questi dati si veda http://www.mbre.it/ – Pubblicazioni Mediobanca - le principali società italiane 2006 – download – Banche File PDF- ; nonché www.abi.it/ - banche in Italia – sistema bancario - tabelle di sintesi ).
Pertanto la struttura bancaria italiana risulta di tipo piramidale, con una cospicua distanza fra vertice e base: abbiamo due superbanche, un gruppetto di banche medio-grandi (non più di 6, includendo la B.N.L), infine un esercito di banche, grosso modo meno di 600, dalle dimensioni medie e soprattutto piccole, relegate a livello locale, e prive di qualsiasi potere decisionale sul piano delle grandi scelte creditizie.
Questa è la fotografia della situazione. Che sicuramente non depone a favore dello sviluppo di una libera e trasparente concorrenza all’interno, e di una conseguente, e crescente, diminuzione dei costi per clienti. Inoltre, asserire che in futuro, l’aumento della concorrenza internazionale, tra i “giganti” mondiali del credito (incluse le due “superbanche” italiane), favorirà i consumatori italiani, significa prenderli per il naso. Dal momento che, come gli economisti seri sanno bene, le imprese che operano sul mercati esterno, usano “caricare” su quello interno i costi, proprio per conseguire una maggiore competitività internazionale. E il “ricarico” è tanto più alto quanto minore è la concorrenza interna e quanto più aspra diviene quella esterna. In passato, le imprese esportatrici puntavano sulle svalutazioni competitive della moneta nazionale, oggi invece sulle delocalizzazioni. Nel primo caso, il consumatore vedeva il valore della moneta nazionale diminuire a vista d’occhio; nel secondo, rischia invece di perdere il suo lavoro. E di ritrovarsi, come nel primo caso, privo di risorse economiche.
Altro che gioire, come propone Dario di Vico sul Corriere della Sera, presentando l’operazione come frutto dell’ “affermarsi di una moderna cultura industriale orientata all’efficienza e alla competizione”… Qui gli unici che possono gioire sono i grandi banchieri. Agli altri, i consumatori presi per il naso, non resta che piangere.
Che vergogna.