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Home / Articoli / La deriva oligarchica del sistema-Italia. L'autoreferenzialità del potere di una casta...

La deriva oligarchica del sistema-Italia. L'autoreferenzialità del potere di una casta...

di Stenio Solinas - 22/05/2007

Usciti da un’epoca di identificazione ideologica siamo entrati in un ciclo perverso dove oligarchie,personalismi e comitati d’affari spadroneggiano soltanto in funzione del mantenimento del potere.

Abbiamo le comunità

montane al livello

del mare. Per mantenere

il Quirinale

spendiamo quattordici

volte quello che

serve in Inghilterra

per Buckingham Palace. Al ristorante del

Senato, un primo del tipo «lasagnetta al ragù

bianco e scamorza» costa la metà degli spaghetti

al pomodoro della mensa dei netturbini

romani. Si hanno più detrazioni fiscali se

si decide di regalare dei soldi a una forza

politica che non a qualsiasi ente umanitario...

E ancora: da quando i finaziamenti pubblici

furono aboliti con un referendum, si sono in

realtà quadruplicati, in vent’anni gli organici

di presidenza nelle regioni si sono moltiplicati

per tredici volte, il Governatore della

Campania ha un bilancio per le spese di rappresentanza

che è dodici volte tanto quello

del Presidente della Repubblica federale

tedesca, provincie, indennità, autoblu spuntano

dappertutto come avviene per i funghi

dopo una giornata di pioggia. La casta (Rizzoli,

284 pagine, 189 euri), così hanno intitolato

il loro libro Sergio Rizzo e Gian Antonio

Stella, ovvero l’analisi di come i politici italiani

siano divenuti intoccabili, di come la

nostra classe dirigente sia soprattutto una

classe digerente: digerisce privilegi e poteri,

prebende e favori. «Che futuro ha un Paese

così?» si chiedono retoricamente i suoi autori.

Che futuro volete che abbia un Paese che

ha il più alto numero di parlamentari eletti e

che li paga il doppio dei loro colleghi tedeschi

e inglesi, quattro volte quello che prendono

gli spagnoli?

La partitocrazia, si sa, è una sorta di vizio

endemico della società politica italiana.

Democrazie mafiose di Panfilo Gentile, già

la denunciava negli anni Sessanta, ma fin

dall’assemblea costituente e poi dalle elezioni

del 1948, da destra come dal centro e da

sinistra si erano elevate le voci critiche di chi

paventava una degenerazione del sistema, la

sua trasformazione in nomenklatura privilegiata

e quindi, per molti versi, in regime.

Negli anni Settanta, l’invadenza della politica

assunse connotazioni squisitamente ideologiche,

la tessera come appartenenza da un

un lato, riconoscimento e simbolo di potere

dall’altro. Si lottizzava negli enti parastatali

come nei giornali, nell’impresa pubblica

come nella televisione di Stato. Negli anni

Ottanta il fenomeno divenne incontrollabile

per l’elefantiasi delle strutture che l’avevano

provocato: partiti sempre più costosi, necessità

economiche sempre maggiori, indebitamento,

corruzione e concussione sempre più

necessari. Come finì ce lo ricordiamo tutti, la

Prima repubblica, Tangentopoli, la società

civile, la scomparsa di alcuni grandi partiti

storici e dei loro omologhi in miniatura,

repubblicani, socialdemocratici, liberali, che

grazie al tipo di repubblica parlamentare

vigente si erano ritagliati negli anni un ruolo

inversamente proporzionale alla loro grandezza.

Nulla di nuovo sotto il sole, verrebbe dunque

da dire. Eppure una differenza sostanziale

c’è e vale la pena di sottolinearla. Usciti da

un’epoca di forte identificazione ideologica,

in cui lo strapotere dei partiti indicava in

qualche modo una radicalizzazione e un radicamento

della lotta politica, siamo entrati in

un ciclo dove oligarchie, partiti personali,

comitati d’affari ne hanno preso il posto

all’insegna della pura e semplice gestione del

potere. Il passaggio, va da sé, non è stato

dovuto a una volontà di cambiamento, a uno

sforzo riformatore mal condotto o, più semplicemente,

finito male. Dietro la scomparsa

del vecchio sistema ci fu l’eccezionalità

europea del crollo dei blocchi e quindi delle

ragioni politiche che fino ad allora lo avevano

giustificato. La caduta del Muro di Berlino

significò la scomparsa del comunismo

come teoria e come prassi, e questa a sua

volta significò l’inutilità della controparte

costruita per fronteggiarlo: un sistema per

mezzo secolo bloccato si ritrovava di colpo

libero e costretto a nuove alleanze, privo di

finanziamenti certi, obbligato a scegliere

strade alternative.

Sull’onda dell’eccezionalità, per tutti gli anni

Novanta il sistema cercò, a suo modo, di

adeguarsi al nuovo che l’aveva reso possibile.

Un decennio dopo ci si accorge come

quel nuovo sia divenuto vecchio, il bipartitismo

sia stato lasciato da parte, la stessa logica

di un bipolarismo riveduta e corretta in

un’ottica partitocratica che la snatura, con

riforme elettorali che peggiorano il tutto, con

una cornice costituzionale di fatto sempre

meno rappresentativa. Ed è in questo decennio

che la partitocrazia ha preso la forma prima

ricordata, con i partiti sempre più comitati

d’affari e gruppi di pressione, con i loro

esponenti sempre più distaccati dalla società

che dovrebbero rappresentare, persi e presi in

uana serie di privilegi che li rassicurano e li

proteggono.

È questo che rende differente la «casta» di

cui parlano Rizzo e Stella nel loro pamphlet.

È una differenza di tipo antropologico, nel

senso che il trasformismo politico non ha

nemmeno più bisogno di ammantarsi di giustificazioni

etiche e/o ideologiche, ma trova

nella pratica stessa del cambiamento di campo

la sua liceità, la sua ragion d’essere: si

può essere eletti con i voti e negli schieramenti

della destra e ritrovarsi a sostenere i

governi della sinistra, e viceversa, proprio

perché un bipolarismo sbrindellato a caccia

di qualsiasi alleanza lo permette, e proprio

perché la personalizzazione dello scontro, il

leaderismo portato all’ennesima potenza

favorisce la personalizzazione della politica,

la creazione di miniorganizzazioni che si

aggregano per vincere e poi subito si staccano

per meglio monetizzare il loro apporto.

La «personalizzazione» della politica copre

le magagne e le mancanze della politica stessa.

Berlusconi da un lato e Prodi dall’altro

permettono di giustificare un sistema di

alleanze e una formula di governo che altrimenti

non starebbero in piedi. Si tratta di un

finto bipolarismo che maschera il pluripartitismo

di cui è intessuto. I progetti di un partito

unico o federazione di partiti, da un lato

e dall’altro dello schacchiere politico, sono

velleitari e contingenti. La sinistra postcomunista

pensa a un Partito democratico in

cui, quando Prodi non ci sarà più, sarà dal

suo interno che verrà il candidato moderato

in grado di rappresentarla al potere. La destra

post-fascista vede nel grande rassemblement

la possibilità di tenere i voti che l’uscita di

Berlusconi lascerà sul tappeto. Nessuno sembra

rendersi conto che, scomparsi i due primi

attori, il copione non sarà più lo stesso, il

centro-destra non necessariamente resterà

unito, il centro-sinistra idem. Si corre verso

un centro-centro interscambiabile dove il disbrigo

degli affari correnti viene scambiato

per azione politica e l’occupare le stanze del

potere per progetto.

La «personalizzazione giustificava anche l’animosità

e la apparente differenziazione. Il

suo venir meno metterà alla luce una società

politica omogenea in cui destra e sinistra

che già non esistevano più, invece di sperimentare

qualcosa di diverso hanno preferito

reinventarsi in un moderatismo abulico che

non inventa nè investe nel futuro, paralizzato

com’è dall’idea di poter venire ricacciato ai

margini del sistema. È tutto questo a favorire

e a radicare la casta di cui sopra: la consapevolezza

che esiste una eterna provvisorietà,

che non si possono fare riforme di struttura,

perchè non converrebbero a chi le fa, e che

quindi si è condannati a continuare in questo

modo. «Che futuro ha un Paese così?» era la

domanda iniziale. Come Paese nessuno,

naturalmente. Per il resto, sopravviveremo

anche a questo.