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L’anarchia palestinese è il risultato della tattica destabilizzante di Israele e Stati Uniti

di Roberto Zavaglia - 22/05/2007

Al peggio per i palestinesi non c’è mai fine. In questi giorni quel popolo martoriato subisce, nella striscia di Gaza, le conseguenze dello scontro tra i miliziani di Hamas e di Fatah che potrebbe degenerare in una guerra civile. “E una nuova Nakba”, ha detto un anziano abitante di Gaza, riferendosi alla nascita di Israele nel 1.948, che gli arabi definiscono con quella parola che significa catastrofe. Gli appelli al cessate il fuoco dei capi politici non sortiscono effetto: le tregue durano poche ore. I miliziani sembrano sottrarsi a qualsiasi autorità, in una spirale di vendette reciproche alle quali non sono estranei i vincoli dei clan familiari. Gaza è una città fantasma, con la popolazione chiusa in casa e spesso impossibilitata a procurarsi il cibo.

  La dirigenza di Israele si starà fregando le mani per avere raggiunto il suo obiettivo, ideato  fin dai giorni del ritiro dalla “Striscia”, di provare al mondo che i palestinesi non sanno governarsi da soli. Gli israeliani si stanno dando da fare per esacerbare la tensione: a centinaia di guardie presidenziali di Abu Mazen è stato concesso a di entrare a Gaza attraverso il valico di Rafah. L’aviazione, inoltre, ha colpito un comando militare di Hamas e ha ucciso diversi militanti del movimento islamico. Israele non è imparziale, come non lo sono gli Stati Uniti che, secondo il quotidiano inglese “Guardian”, hanno concesso 84 milioni di dollari alle milizie di Fatah, oltre ad armi, munizioni e addestramento.

  Gli Usa avevano premuto per la formazione del governo di unità nazionale palestinese, nonostante il precedente esecutivo monocolore di Hamas fosse legittimato dalla schiacciante vittoria elettorale.  Il premier Ismail Haniyeh aveva accettato nella speranza di veder cessare l’embargo che strangolava la popolazione, togliendo consensi al suo partito. Ma le sanzioni non sono state cancellate, palesando che statunitensi ed israeliani mirano, in realtà, a nuove elezioni in cui sperano che i palestinesi, per porre fine all’embargo, si rassegnino a dare la maggioranza al più malleabile, in ogni trattativa, Fatah. La storia, ancora una volta, mescola il grottesco alla tragedia. Erano stati infatti gli israeliani a favorire il “risveglio islamico” nei Territori, che avrebbe in seguito portato all’affermazione di Hamas, per indebolire la dirigenza laica di Arafat, sperando nel diffondersi di un inoffensivo quietismo religioso.

   Sottolineare le colpe di statunitensi e israeliani, non significa ignorare quelle dei palestinesi per le drammatiche avvisaglie di guerra civile a cui assistiamo. La dirigenza di Fatah, posta alla prova del “governo” dell’Anp, ha mostrato la sua crisi, favorendo la corruzione e non riuscendo a condurre i negoziati con fermezza e coerenza. Le disgrazie dei popoli arabi dalla fine della Seconda guerra mondiale dipendono anche dalla scarsa qualità di gran parte delle loro classi politiche, più abili nella retorica e nella gestione spregiudicata e autoritaria del potere che capaci di visioni di ampio respiro. Hamas, con i suoi limiti di movimento “fondamentalista”, ha rappresentato la risposta alla decadenza del tradizionale nazionalismo palestinese, riuscendo a negoziare con forza ma non con quella pregiudiziale chiusura che le cancellerie occidentali gli attribuiscono. Di fatto, i suoi principali dirigenti hanno già accettato i confini della linea verde.

  A Gaza, però, anche il miglior governo del mondo avrebbe potuto fare ben poco per migliorare la condizione dei circa un milione e trecentomila cittadini stipati nel territorio. Gli israeliani non hanno lasciato infrastruttura civili ed economiche a una regione che dipendeva, quasi del tutto, dai rapporti commerciali con Israele. I pochi valichi della “striscia” sono controllati dagli israeliani che, a loro piacimento, li chiudono lasciando che i prodotti agricoli dei palestinesi marciscano al sole. Gaza è un territorio sigillato dal nemico che vi compie incursioni, distruggendo quel poco che c’è e confisca perfino le tasse di frontiera spettanti all’Anp. Il governo ebraico impedisce, inoltre, la costruzione di un porto e controlla con le sue navi la costa. Se aggiungiamo all’embargo, anche l’arresto di 41 deputati del Parlamento palestinese e che, dal 2.000 ad oggi, gli israeliani hanno ucciso 815 bambini palestinesi, ci dobbiamo stupire dell’anarchia imperante a Gaza? La situazione continua a peggiorare anche in Cisgiordania. Il governo Olmert, nei mesi scorsi, ha autorizzato la costruzione di nuove case per i coloni, mentre i posti di blocco che ostacolano la circolazione degli abitanti sono aumentati. Il muro è penetrato sempre più all’interno delle terre palestinesi e intere città ne sono circondate, con gli abitanti ridotti a prigionieri. Una di queste è Betlemme ma i cattolici, così numerosi al Family Day, non manifestano per una città che qualche significato, per loro, dovrebbe pur averlo.

  Fausto Bertinotti, nella sua visita in Israele, ha poeticamente dichiarato che “ il mondo ha bisogno di ponti su cui incontrarsi e non di muri che impediscono di vedersi, ma non mi permetto di entrare nelle questioni interne di uno Stato”. In questa epoca di ingerenze a sproposito nelle sovranità nazionali altrui, il presidente della Camera dovrebbe però ricordarsi che il muro è una questione internazionale da quando il Tribunale Internazionale di Giustizia ne ha condannato la costruzione. Il nostro governo, poi, avrebbe la possibilità di mostrare la conclamata “discontinuità” con la politica estera del precedente esecutivo. Alla nuova maggioranza basterebbe annullare l’accordo militare sottoscritto, quasi in segreto, da Berlusconi con Israele. Secondo fonti ben informate sulle questioni militari, questo patto è stato successivamente implementato con il contributo congiunto, da parte di Italia e Israele, di 181 milioni di dollari per lo sviluppo di un nuovo sistema di guerra elettronica. Prodi sa dirci qualcosa al proposito? Forse agli italiani interesserebbe conoscere se le proprie tasse  servono per perfezionare gli armamenti con i quali Tsahal ammazza i palestinesi.

  Al di là delle parole, il nostro, come gli altri governi occidentali, non ha intenzione di fare passi concreti per risolvere la questione palestinese. E’ possibile che le lotte intestine di Gaza incentivino questa passività, nella speranza che le varie milizie cancellino, con la loro sconsideratezza,  l’identità politica di una nazione. I palestinesi sprofondano sempre più nel loro inferno, ma l’indifferenza verso questa tragedia non è una buona assicurazione per il futuro del resto del mondo.