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I libri della settimana: Zagrebelsky, Imparare la democrazia. Sartori, Democrazia

di Carlo Gambescia - 23/05/2007

G. Zagrebelsky, Imparare la democrazia, Einaudi 2007, euro 11,50; G. Sartori, Democrazia, Rizzoli 2007, euro 19,00

La democrazia può essere insegnata? Non è facile rispondere. Si può dire, semplificando al massimo, che a differenza degli antichi, che preferivano “studiare” la democrazia e le sue degenerazioni, i moderni hanno preteso, da subito, senza troppi approfondimenti, d’insegnare la propria a tutti cittadini, come la migliore e l’unica. Un esempio del primo tipo è dato dall’opera politica di Aristotele. Mentre del secondo, dal pesante pedagogismo liberal di un Dewey. Quanto all’Italia, si pensi a certa pedagogia politica democratico-risorgimentale, non sempre di buona lega. Il che non significa che tra i moderni siano mancate figure dedite allo studio della democrazia. Ne citiamo solo uno, croce e delizia, di generazioni di studenti di storia delle dottrine politiche: Charles-Louis De Secondat, Barone di Montesquieu. Un pensatore affascinato dallo studio della “natura” e del “principio dei Governi”, spesso malamente assimilato, appunto dagli studenti …
Non vorremmo però annoiare il lettore con spocchiosi rimandi e citazioni. Ma il punto è che non abbiamo potuto fare a meno di pensare a questa partizione, quando ci siamo ritrovati tra le mani due libri: il primo, di Gustavo Zagrebelsky, Imparare la democrazia (Einaudi, Torino 2007, pp. 186, euro 11,50); il secondo, di Giovanni Sartori, Democrazia. Cosa è (Rizzoli, Milano 2007, pp. 392, euro 19,00). Si tratta di notissimi professori universitari: il primo è un giurista, ma con interessi filosofici, storici e sociali; il secondo, probabilmente, è il maggiore politologo italiano.
Pertanto, Zagrebelsky, può essere definito un “moderno”, perché interessato alla pedagogia della democrazia, mentre Sartori, ricorda un pensatore “antico”, per il suo sforzo di capire cosa sia la democrazia. Ma entrambi - e sia detto con il massimo rispetto per due insigni professori - non offrono alcuna una definizione del politico in senso puro, schmittiano: come astoricità delle tre categorie di individuazione del nemico, decisione e conflitto. Il che, purtroppo, non facilita, come vedremo, né lo sviluppo di una pedagogia democratica né di una matura teoria della democrazia.
Iniziamo dal testo di Zagrebelsky. Il giurista ha una visione nobile della democrazia, come idea regolativa, fondata sull’ uguaglianza e sull’ espansione dei diritti. E soprattutto, come missione che riguarda da vicino ogni cittadino responsabile. Di qui, a suo avviso, l’importanza di una pedagogia democratica, basata sull’esempio e sulla diffusione di una comune consapevolezza civica e civile: la “ sua ricompensa [dell’ideale democratico] sta nello stesso agire per realizzarlo” . Tuttavia l’analisi del giurista, resta sospesa tra la norma (come deve essere la democrazia) e la descrizione dei fatti (com’è in realtà). Non c’è ponte tra i due aspetti. Per quale ragione? Perché l’impianto normativo-pedagogico del libro non può consentirlo. Ad esempio, si pensi all’accento posto da Zagrebelsky sull’importanza ideale del dialogo in democrazia, come fatto pedagogico per eccellenza. Il che è vero in teoria, ma non sempre in pratica. Esistono, infatti, all’interno della nostra stessa cultura politica sostenitori di altre forme di democrazia: socialista, locale, diretta, federale, eccetera. Vanno insegnate anche queste, oppure no? E poi, si pensi alle questioni ecologiche, sulle quali spesso le popolazioni locali insorgono in nome di interessi particolari. Sono anche queste forme di democrazia, oppure no? Per non parlare del conflitto in atto fra le democrazie occidentali e i cosiddetti fondamentalismi religiosi. I quali si appellano, a loro volta, a un’idea di democrazia “comunitarista”, totalmente differente dalla nostra… Zagrebelsky sembra ignorare il fatto, che il politico (e di conseguenza anche la democrazia liberale, che è una delle sue manifestazioni storiche) implica sempre la decisione, e le decisioni, spesso producono conflitti. Contrasti, che il dialogo non sempre può evitare. Perciò indicare la democrazia come fondata solo sul dialogo è una visione, limitata all’ Occidente moderno, molto nobile, ma incompleta sul piano culturale e della teoria politica .
Sartori, invece, da buon pensatore “antico”, o comunque da attento studioso di Croce, riconosce che la politica richiede il consenso ma, purtroppo, anche il conflitto. Di qui la sua diffidenza hobbesiana verso gli uomini e le pedagogie politiche. A differenza di Zagrebelsky, Sartori distingue molto bene tra piano normativo e descrittivo. E soprattutto non si fa molte illusioni sulla marcia inesorabile dell’eguaglianza sociale: la democrazia sul piano descrittivo è una “poliarchia elettiva, mentre su quello normativo “dovrebbe essere” una “poliarchia selettiva” o meglio una “meritocrazia elettiva”. Tradotto: un sistema si può reputare democratico, solo quando sia basato su una molteplicità di poteri elettivi, ma nell’insieme rigorosamente fondati sulla meritocrazia. Il che però, da buon pragmatico, lo porta a ridurre il “politico” puro, in metodologia delle procedure elettive, selettive e decisionali. Se Zagrebelsky crede solo nel dialogo, e ignora il conflitto, Sartori, spera di “anestetizzarlo”, proceduralizzandolo fin dove possibile. La sua, come è noto, è una politologia fondata sull’ingegneria istituzionale. Un approccio, che nonostante sia di altissimo livello scientifico, finisce però per identificare la forma pura del politico (fondata sull’individuazione del nemico, la decisione e il conflitto) con la forma storica attuale, il sistema politico, liberale e rappresentativo, che invece rappresenta e recepisce solo i contenuti di un certo periodo storico. Confondendo così la forma pura o astorica del politico (dunque immutabile) con il suo contenuto storico, (sempre mutevole). Un errore non da poco.
Perciò è una grave limitazione pretendere di “ingabbiare” per sempre la “forma” politico, nei contenuti, pur importanti, della democrazia dei moderni, liberale e rappresentativa. Senza tenere presente, anche nell’ “insegnarla”, quella degli antichi, partecipativa e comunitaria, e spesso conflittuale, ma anche altre sue manifestazione passate e, sicuramente, future. Il dialogo è sicuramente importante, ma il conflitto, spesso, è il sale della democrazia. E non sempre può essere “addomesticato”. E sarebbe bene non dimenticarlo mai.