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Il fascino inconfessabile della Prussia

di Siegmund Ginzberg - 23/05/2007

    
Una serie di saggi sulla storia della Prussia ha riportato l’attenzione della storiografia sullo Stato tedesco che ha avuto grande influenza sulla storia europea in età contemporanea.
Siegmund Ginzberg illlustra un particolareggiato percorso non solo nella recente storiografia, ma anche nell’immagine che l’Occidente ha coltivato della Prussia fin dalla fine del Settecento.
Allo stereotipo della Prussia come stato militarista, si contrappone una più variegata immagine, la quale permette di guardare con maggiore obiettività alla sua storia e a quella di Federico il Grande, re dal 1740 al 1786.


Quando negli anni Ottanta, ancor prima del crollo del Muro, tornò a campeggiare [...] la statua equestre di Federico il Grande - sì quella che nel piedistallo ha la testa di Kant, il filosofo che aveva definito l’illuminismo come «il secolo di Federico», perennemente esposta all’ingiuria dell’evacuazione dello sterco, giusto sotto la coda del cavallo - qualcuno l’aveva imbrattata con la scritta: «Prussia di merda». L’oltraggio vandalico fu subito cancellato. Ma l’episodio riassume l’ambivalenza della Germania sull’antenato prussiano. Trasversale, anche in famiglia, tra parenti: Thomas Mann era affascinato dalla figura di Federico, scrisse in piena Prima guerra mondiale un saggio su Federico e la grande coalizione, sostenendo che non c’era contraddizione tra grande cultura tedesca e pugno di ferro. Suo fratello Heinrich, l’aveva contraddetto, con un libro intitolato: La triste storia di Federico Secondo.
Il filo di ambivalenza, verrebbe quasi da dire schizofrenia, riguardo la Prussia percorre in qualche modo tutto il labirinto della storia tedesca ed europea. Voltaire era infatuato di Federico «pacificatore della Germania e dell’Europa», lo considerava la migliore speranza per la diffusione dei “lumi”, al punto da trascorrere tre anni alla sua corte. Ma poi ne fu deluso e ci litigò di brutto. «Sarebbe stato cento volte meglio restasse il protettore dei filosofi, piuttosto che trasformarsi nel perturbatore dell’Europa», il modo in cui ne scrisse al suo amico D’Alambert. Kleist, attratto e al tempo stesso inorridito dalla Prussia (pensate al suo Principe di Homburg), finì suicida. Anche in Karl Marx, che in Prussia aveva lasciato un cognato capo della polizia [...], accanto alla repulsione per lo stato di polizia al cui confronto l’Inghilterra esce vincente, affiora a tratti nostalgia, se non ammirazione per la disciplina, come dire, la serietà della loro terra d’origine (anche se prussiani erano diventati solo dopo l’annessione della Renania, che fu anche la ragione per cui il padre ebreo di Marx dovette farsi protestante).
Non erano stati la sinistra, i sindacati, e nemmeno il capitalismo illuminato, ma fu un uomo di destra, il prussiano Bismarck, ad inventare stato sociale, assistenza sanitaria e pensioni, nonché il modo far quadrare i conti per continuare a pagarle. Il colmo di dichiarazione d’amore, come dire, “socialista”, per la Prussia la raggiunge Oswald Spengler nel suo Preussentum und Sozialismus, il libro che è in pratica la continuazione del suo Declino dell’Occidente. Vi denuncia il marxismo, i sindacati, la contrattazione e la concertazione operaie come cedimento al capitalismo britannico, per contrapporvi la virile "via prussiana". Peccato che poi quel tipo di "socialismo" sarebbe sfociato nel “nazional-socialismo”.
Ma anche in Hitler, che non è prussiano di Berlino ma austriaco di Vienna, c’è una sorta di duplicità, schizofrenia riguardo la Prussia. Teneva il ritratto di Federico Secondo dipinto da Graff appeso dietro la sua scrivania. Se l’era portato persino nel bunker della fine. Era nella chiesa di Federico a Potsdam che aveva proclamato il Terzo Reich. La propaganda nazista era incentrata sulla “prussianità”, Hitler cercava costantemente l’identificazione con Federico capo militare. [...] Ma poi è contro la tradizione prussiana che si dirige la sua collera quando è proprio un gruppo di generali, quasi tutti prussiani, eredi dichiarati delle tradizioni militari di Federico il Grande, a tentare di farlo fuori nel luglio 1944.
Quando gli alleati, verso la fine della Seconda guerra mondiale, cominciarono a discutere sul che fare di una Germania che aveva combinato tanti sconquassi [...] anziché abolire la Germania, se ne fecero due. Il 25 febbraio del 1947, il decreto numero 47 emesso congiuntamente delle autorità di occupazione americana, britannica, francese e russa abolì invece la Prussia, «da sempre culla del militarismo e della reazione».
Era prevalsa l’identificazione Prussia = militarismo = catastrofi per la Germania e l’Europa. Si insisteva molto su questo da Mosca. Ma si tratta di una tesi già avanzata con forza all’indomani della Prima guerra mondiale in Inghilterra e in America. Lo storico di Cambridge Ramsay Muir non aveva dubbi già nel 1915 che il conflitto fosse «il risultato di un veleno che ha agito sull’Europa per due secoli, e la cui fonte principale si chiama Prussia». Ed è dello stesso anno lo studio sulla società industriale in Germania in cui Thorstein Veblen attribuiva l’origine di tutti i guai alla prevaricazione dello Stato prussiano sulla modernizzazione economica. Molte analisi si fondavano sulla contrapposizione tra due Germanie, una buona, di capitalismo avanzato e liberale (l’anticipazione del “modello renano”), pacifica, a Sud e a Ovest, e una cattiva, chiusa, militarizzata, burocratizzata, a Nord e a Est. La dicotomia sarebbe rimasta a caratterizzare la contrapposizione tra le due Germanie nel secondo dopoguerra e, mutatis mutandis, le contraddizioni tra l’ex Germania dell’Est e l’ex Germania occidentale dopo la riunificazione. [...] Sono trascorsi sessant’anni da quell’esorcismo, dalla cancellazione dell’odiato simbolo del militarismo. Allora non si versarono lacrime per la memoria della Prussia. C’era ben altro cui pensare. Ora sembra piuttosto prevalere la riabilitazione, anzi, una struggente nostalgia, quasi un “mal di Prussia”. Prussia e prussiano non sono più parolacce. E la riabilitazione, argomentata e convincente, si estende a Federico Secondo e a Bismarck. Così convincente, che viene da chiedersi se non sarebbe stato meglio tenersi la Prussia e abolire magari qualcos’altro. Sono cose che succedono. [...]
Dettaglio non trascurabile è che molti dei ripensamenti in positivo, più recenti e più autorevoli, sulla Prussia vengono non dalla Germania ma dal resto dell’Europa. Il ponderoso studio dello storico dell’Università di Cambridge Christopher Clark (The Rise and Downfall of Prussia: 1600-1947, pp. 776, Allen Lane, 2006), ci racconta una storia più complicata di quelle che ci erano state raccontate sinora su come una distesa di boschi e paludi intorno a Berlino divenne lo Stato per eccellenza, o, come talvolta la si è voluta rappresentare, un’immensa caserma. Si affida a una mole impressionante di fatti e documenti per demolire o mettere in luce nuova miti e luoghi comuni. Della Prussia si è parlato come di «perfezione dell’assolutismo». Ma Clark ricorda ad esempio che per molto tempo la Prussia era rimasta uno stato piccolissimo, con una burocrazia ridotta. A metà Settecento l’amministrazione centrale di Federico Guglielmo Primo, il padre di Federico il Grande, aveva poche centinaia di funzionari, e anche l’efficienza lasciava a desiderare: una circolare poteva metterci settimane per arrivare da Berlino a uno dei distretti vicini, si fermava, veniva discussa e passava di mano in mano nelle taverne, fino «ad arrivare a destinazione così sporca di grasso, burro e catrame che fa impressione toccarla».
Apprendiamo anche che la Prussia protestante era più tollerante di altre lande europee e, ben prima di essere trascinata nel gorgo delle stupidaggini razziali e dell’ultranazionalismo nazista, era stata terra di asilo, rifugio di perseguitati dal resto d’Europa, compresi moltissimi ugonotti francesi [...]. È innegabile che gli junker avessero sposato entusiasticamente la causa nazista. Ma è leggendo questo libro che abbiamo appreso che la Prussia, con il suo governo di coalizione guidato dal socialdemocratico Otto Braun, restò un bastione di stabilità nel marasma della Repubblica di Weimar, fu l’unico tra i Länder tedeschi a mantenere la democrazia anche dopo l’ascesa di Hitler al potere. Finché furono i nazisti a doverla sciogliere. [...]
L’ultimo libro su Federico Secondo che ci è capitato in mano, non parla delle sue campagne militari, ma dei sui rapporti con la musica e, in particolare con Bach, che gli dedicò la sua Offerta musicale. Evening in the palace of Reason, si intitola, è scritto da James Gaines, un autore americano che vive a Parigi. La sorpresa che ne emerge è che tra i due, il re e il musicista, l’illuminista e il laico sarebbe il primo. Con un padre come il suo, che perché «servisse di lezione» al figlio e gli togliesse ogni grillo di ribellione non aveva esitato a far decapitare sotto i suoi occhi il suo migliore amico, il tenente von Katte, Federico avrebbe potuto anche diventare un mostro. Ma non fu peggio di altri despoti dei suoi tempi. Lui almeno cercava di assumere come consigliere Voltaire (anzi, «possederlo» disse una volta, anticipando le nostre campagne acquisti nel calcio e per le tv), leggeva Montesquieu e Newton. La rivalutazione della sua figura precede persino quella della sua Prussia. Credo sia da considerarsi insuperata la splendida biografia di Theodor Schieder (tradotta da Einaudi). [...]
In Germania la nostalgia di Prussia è molto più discreta che altrove. Che mi risulti, nessuno pensa seriamente al ritorno alla “Grande Prussia”, dall’Elba al Reno. Tanto meno al ritorno delle tradizioni militari. Non c’è un culto del Kaiser, degli elmi chiodati e delle corazze dei cavalieri teutonici (l’immagine che della Prussia aveva dato Sergei Eisenstejn nell’Alexandr Nievskij) paragonabile al culto del Mikado, dei samurai e dei valori guerrieri nell’altro paese sconfitto, il Giappone. A Berlino non si è mai pensato, nemmeno nell’anticamera del cervello, all’atomica, come invece si fa a Tokyo.
Ci sono cose che arruffano il pelo all’Est, la Polonia non vuol sentir parlare di risarcimenti ai tedeschi espulsi dopo la guerra, la Russia non sopporta che Kaliningrad venga nuovamente chiamata Königsberg, come si chiamava quando ci nacque Immanuel Kant. L’ultima volta che nel resto dell’Europa occidentale ci si era preoccupati del “risorgere della Prussia” era stato in occasione di una serie di mostre ed eventi culturali nel 1981, quasi dieci anni prima della caduta del Muro. La proposta di costituire un nuovo Land, Stato federale, che comprendesse Berlino e il Brandeburgo non aveva in sé nulla di particolarmente clamoroso. Ma si era scatenato un putiferio quando nel 2002 un ministro del Brandeburgo aveva suggerito pubblicamente che tanto valeva chiamare la nuova entità amministrativa Prussia. [...]