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Le sfide bioetiche della globalizzazione (recensione)

di Pasquale Rotunno - 24/05/2007

 


I rischi della globalizzazione a livello economico sono ormai evidenti. Meno noti sono i riflessi della globalizzazione nel campo della bioetica. Essi riguardano in primo luogo il piano culturale, imponendo criteri di giudizio tipicamente anglosassoni. Il bioeticista Salvino Leone esamina la questione nel volume curato da Francesco Compagnoni e Alberto Lo Presti, “Etica e globalizzazione” (edito da Città Nuova, pp. 236, euro 18).
Tutta la bioetica anglosassone, ad esempio, quando analizza il rapporto medico-paziente muove dal “principio di autonomia”. Condivisibile, certo, ma diventato l’unico principio di azione medica, tanto che il Comitato nazionale di bioetica, in un suo documento, lo definisce “principio e fondamento dell’atto medico”. In realtà, come già i latini avevano intuito, “la legge suprema dell’agire medico”, anche se deve prevedere la libera accettazione del paziente, “non è il consenso in quanto tale ma il suo bene”, rileva Salvino Leone. Tante distorsioni nella prassi del “consenso informato” hanno origine proprio da tale assolutizzazione di matrice anglosassone, che dagli Stati Uniti si è diffusa al mondo intero. Un elemento che andrebbe invece valorizzato sul piano della globalizzazione bioetica è il “diritto alla vita”. Non basta affermarlo nelle Carte e Dichiarazioni internazionali, occorre definirne la portata effettiva. “Globalizzando” l’assoluto divieto della pena di morte o dell’uso della guerra come strumento per la difesa del diritto internazionale. L’Onu dovrebbe avere la forza di far rispettare tali principi e non subire pressioni da parte di gruppi di potere, primo tra tutti quello statunitense, come si è visto per la guerra in Iraq.
Il fenomeno della globalizzazione investe a pieno titolo anche la sfera sanitaria. Le implicazioni sociali della medicina sono una priorità nell’agenda sanitaria dei prossimi decenni. La prevenzione andrebbe collocata al primo posto. La mancanza di campagne vaccinali nei paesi in via di sviluppo comporta la morte ogni anno di tre milioni di bambini. Il trattamento del dolore, considerati i numerosi focolai di guerra, è un’altra emergenza. Insieme alla necessità di garantire un’assistenza pur minima a tutti. La globalizzazione selvaggia ha imposto le sue leggi e i suoi prodotti incurante dei veri bisogni della popolazione. Tali problemi non riguardano solo i paesi poveri. Negli Stati Uniti la “middle class”, troppo poco ricca per permettersi le costose assicurazioni sanitarie e troppo poco povera per usufruire dei minimali servizi per i non abbienti, è quella che soffre maggiormente i danni di una società che ha fondato le prestazioni sociali sulla possibilità di pagamento.
I dati sulla mortalità infantile nel mondo sono allarmanti. La mancanza di assistenza sanitaria per le madri e la mancanza di personale esperto durante il parto, sono all’origine della grande maggioranza delle morti che potevano essere prevenute. Le infezioni e le malattie parassitarie, quali la diarrea, e le infezioni respiratorie acute, seguite da malaria e morbillo, sono le altre principali cause di mortalità infantile. La malnutrizione contribuisce a oltre la metà dei decessi infantili. Acqua non potabile e condizioni igienico-sanitarie carenti sono altri fattori che contribuiscono al fenomeno. Certamente, osserva Leone, “in un mondo che cerca di imporre modelli culturali denatalistici è molto difficile coniugare l’attenzione alla gravidanza e al bambino con politiche di sterilizzazione o contrazione forzata delle nascite”. Si assiste, poi, all’eclatante paradosso che vede convivere la “fame nel mondo” e l’obesità. Nei paesi industrializzati, quello stesso mondo che vede sfilare in tv le immagini dei bambini denutriti soffre per l’obesità e le patologie ad essa correlate. Le campagne contro l’obesità si scontrano con il condizionamento pubblicitario che incrementa il consumo di merendine e grassi vari. L’AIDS è un esempio di pandemia persistente, vera e propria “malattia della globalizzazione”. La dipendenza dall’alcool, un tempo prevalente nel mondo occidentale, inizia a diffondersi anche nei paesi poveri. Per le droghe siamo di fronte a un fenomeno di per sé tipico dei paesi industrializzati, ma che in massima parte trova le sue principali fonti di approvvigionamento proprio nei paesi poveri. In questi, incrementa un mercato internazionale di criminalità organizzata e sfrutta il bisogno economico delle popolazioni autoctone e le condizioni di estrema povertà in cui queste si trovano.
Di tipo bioetico è anche la questione degli organismi geneticamente modificati. Essi hanno innegabili vantaggi, ma presentano pure controindicazioni. La prima riguarda la riduzione della biodiversità e l’alterazione degli ecosistemi. Inoltre vi è il problema dei brevetti genetici, cioè la possibilità che una pianta o parte di essa venga brevettata divenendo proprietà della ditta che l’ha prodotta. In un breve arco di tempo si potrebbe arrivare a una frammentazione dei prodotti della terra, più o meno geneticamente modificati, appartenenti a varie società, il più delle volte multinazionali, che deterrebbero un nuovo immenso potere. Il commercio riproduttivo è un’altra frontiera della globalizzazione. La maternità è messa in vendita: si assiste al fenomeno delle gravidanze su commissione. Considerate le condizioni di indigenza di certi paesi del mondo potrebbe divenire un evento non infrequente. Mentre si ha già notizia di un lucroso commercio d’organi. Sembra che uno dei destini dei “ragazzi di strada” in Sudamerica sia proprio quello di fornire organi che trafficanti senza scrupoli commerciano in Occidente. La globalizzazione ha investito pure l’ambito della sessualità: turismo sessuale e prostituzione incrementano profitti miliardari. Senza che s’intravedano interventi efficaci per sradicare tali fenomeni. Affrontare gli aspetti morali della globalizzazione significa domandarsi come poter accrescere da subito il rispetto della dignità umana, specialmente degli ultimi.