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Sport moderno e ludi sacri

di Raffaele Ragni - 24/05/2007



Alcuni sport del nostro tempo sono spesso paragonati ad antiche pratiche ludiche. Un tipico esempio è il football. Diverse nazioni ne rivendicano la primogenitura con fondati richiami alle rispettive tradizioni. Gli Italiani lo fanno derivare dal calzo fiorentino o dall’harpastum che le truppe di Cesare portarono in Gran Bretagna, i Greci dall’episkiros con cui si dilettavano gli antichi Spartani, i Francesi dalla soule inventata dai Druidi, gli Inglesi dall’hurlinge over country giocato nelle campagne britanniche fin dal Medioevo, i Giapponesi dal kemari, e addirittura i Cinesi dal tsu-chu che era una sorta di addestramento militare introdotto nel 2500 a.C. dall’imperatore Huang-Ti.
In realtà lo sport, come noi lo intendiamo, è un fenomeno relativamente recente. Il vocabolo deriva dal francese medioevale desport, che significa divertimento, e compare nel lessico britannico già nel Cinquecento con riferimento prevalente alla caccia. Tra la fine del XVII e l’inizio del XIX secolo il termine appare sulle testate di alcuni giornali specializzati - come The Sporting Magazine (1792) e Le Sport (1854) - e la sua accezione si allarga fino ad includere, oltre alla caccia, tutte le attività di svago praticate dalle classi aristocratiche, come la scherma, l’ippica e il biliardo. Nonostante le sue origini antiche, il vocabolo fu riconosciuto dall’Académie Française nel 1878 ed assunse il significato odierno solo dopo il 1896, quando furono organizzate le prime olimpiadi moderne.
A promuoverle fu il barone Pierre De Coubertin, un aristocratico francese che, dopo un soggiorno di studio in Inghilterra, si convinse che la grandezza dell’impero britannico derivasse dal suo sistema pedagogico e, in particolare, dal largo spazio riservato all’attività sportiva. Fondando l’Union de Sociétés Françaises des Sports Athlétiques (1892), egli mirava a “forgiare una nuova razza guerriera” nella Francia di fine Ottocento. Strano destino quello del nobile De Coubertain, autore più citato che letto, noto al grande pubblico per avere coniato il celebre motto “l’importante non è vincere ma partecipare”. A lui, militarista e romantico, la Storia avrebbe riconosciuto il merito di avere inventato un modello sportivo che oggi viene considerato veicolo di pace e, al tempo stesso, occasione di business.
In realtà i ludi arcaici erano un fenomeno ben diverso dallo sport moderno. Sebbene avessero taluni caratteri della gara sportiva - come la prova di forza o di destrezza e la resistenza alla fatica - i ludi non erano competizioni, ma feste sacrali. La loro istituzione ebbe una stretta relazione con l’idea della lotta tra le forze solari e le forze telluriche. Ad esempio, i giochi pitici a Delfo ricordavano il trionfo del dio Apollo su Pitone, mentre un semidio, Eracle, avrebbe istituito i giochi olimpici traendo simbolicamente dalla terra degli Iperborei l’ulivo con cui si coronavano i vincitori. La loro celebrazione aveva inizio con solenni sacrifici. Eventuali interruzioni o alterazioni del rituale erano considerati principio di sventura e di maledizione, per cui era necessario ripetere i ludi per placare le forze divine. Trattandosi di cerimonie rigorosamente virili, era assolutamente vietato alle donne di parteciparvi e perfino di assistervi. Questo nesso col culto è andato completamente perduto nello sport moderno.
Il significato religioso dell’esperienza ludica era generalmente collegato ad una particolare divinità, e le competizioni avvenivano secondo modalità che celavano tecniche di evocazione religiosa. Ad esempio al dio Helios, figurato come auriga solare, erano sacre le corse su carro ed era anticamente dedicato un tempio in mezzo allo stadio. All’interno del circo, che rappresentava il corso delle stagioni, i carri dovevano compiere dodici giri, quanti erano i segni dello Zodiaco attraversati metaforicamente dal carro solare guidato dal dio. L’impeto dei cavalli, la vertigine della corsa, il desiderio di vittoria di ogni auriga, rievocavano il mistero della corrente cosmica lanciata nel ciclo della generazione. Al dio Marte i Romani consacravano il cavallo vincitore: la sua uccisione rituale serviva a propiziare il raccolto. Quel che appariva come dispiegamento dell’azione in una vicenda agonale, assumeva il superiore significato di un’evocazione propiziatoria, per cui il trionfo dell’atleta rinnovava la vittoria delle forze uraniche sulle forze infere tanto da trasformarsi in un principio di fortuna per l’intera comunità. Se spesso i ludi erano dedicati a Vittorie intese come personificazioni della forza trionfale, il loro scopo era proprio quello di rinnovare la vita e la presenza di tale forza, alimentandola con nuove energie destate e formate lungo la stessa direzione. Infatti nell’antica Roma i ludi apollinari, che furono istituiti in occasione delle guerre puniche, vennero ripetuti per scongiurare una peste e poi celebrati periodicamente. A parte gli influssi benefici che la vittoria rituale proiettava sull’intera comunità, va considerato il valore che l’evento ludico assumeva nella dimensione interiore del singolo individuo. L’ebbrezza eroica dell’agone e del trionfo, ritualmente orientata, diveniva un’imitazione o un tirocinio rispetto a quell’impeto più alto e più puro che fa vincere all’iniziato la morte. In tal modo si spiegano i frequentissimi riferimenti ai ludi del circo nell’arte funeraria classica e si comprende anche perché il vincitore di una gara apparisse rivestito di un alone divino, talvolta persino come la momentanea incarnazione di una divinità.
Ben altra cosa rispetto alle divise sponsorizzate degli eroi del nostro tempo.