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No farms, no food

di John Irving - 24/05/2007

 
Non si può sapere tutto nella vita. Fino a un paio di anni fa, la mia conoscenza delle pratiche agricole del Kentucky era limitata al ricordo di una barzelletta. L’avevo sentita raccontare da un comico presso un music hall di Blackpool, “la Rimini del nord”, dove andavo in ferie da bambino …

«Un contadino del Kentucky va in vacanza in Australia, dove incontra un “collega” del posto. L’australiano, con una punta di orgoglio, gli fa vedere un enorme campo di grano. “Mah! Noi nel Kentucky, abbiamo campi di grano almeno due volte più grandi di questo!”. Girando per la fattoria, il contadino australiano gli fa vedere una mandria di mucche. L’uomo del Kentucky non è per nulla impressionato. “Mah! Da noi ci sono buoi enormi, molto più grossi di queste bestioline qui!”. I due stanno per salutarsi quando l’americano vede un branco di canguri che attraversa un prato zompando. “Cosa sono quelli?” chiede, attonito. “Ma come?!” risponde l’australiano con finta incredulità. “Non avete le cavallette nel Kentucky?”»
… poi, per motivi professionali, ho dovuto occuparmi di Wendell Berry, e ho imparato tante altre cose. Ho saputo, per esempio, che l’agricoltura kentuckyana non è solo mania di grandezza. Al contrario, è anche pudor rusticus.


Ritorno al Kentucky
Dopo anni di studio e di viaggi, Wendell Berry è tornato nel natio Kentucky a condurre una piccola fattoria, la Lane’s Landing Farm, dove, con la moglie, coltiva verdure, alleva pecore e si scalda col legname raccolto nei boschi. Ammiratore degli Amish, utilizza animali da tiro per lavorare i campi: «… le fattorie degli Amish che si affidano all’energia dei cavalli [funzionano] bene non perché – o non solo perché – i cavalli abbiano un alto rendimento energetico, ma perché sono creature viventi e quindi si inseriscono armoniosamente in un modello di rapporti che sono necessariamente biologici e che mettono in corrispondenza ecosistema e raccolto, campo e agricoltore» (“Le persone, la terra e la comunità”).
Non solo: adopera esclusivamente metodi biologici di concimazione e di disinfestazione dai parassiti, e non possiede né telefono né computer per non spendere soldi in attrezzature “costose”. Forse, era più facile comunicare con Mark Twain, nell’Ottocento.
Oltre a fare il Cincinnato, Berry scrive originali poesie, saggi e romanzi che esaltano le virtù della vita agricola e denunciano le depredazioni dell’economia industriale. Lo fa in modo prolifico, a mano – a matita addirittura –, con la moglie che gli fa da dattilografa alla tastiera di una macchina da scrivere Standard, acquistata nuova di zecca nel… 1956. La tecnologia prevede l’eliminazione di modelli obsoleti e l’acquisto di quelli di ultima generazione, ma a Berry l’idea non piace. «Sembra ancora nuova» dice, riferendosi alla macchina da scrivere, non alla moglie. Non ha nessuna intenzione, comunque, di buttare via né l’una né l’altra. A chi gli imputa di vivere, con una certa civetteria, fuori dal mondo e dal tempo, Berry controbatte secco che «è il nostro sistema e funziona». In un recente volume, ha raccolto i passaggi dei Vangeli che servono da fondamento per la sua fede e il suo amore per la pace e per la giustizia. Non è un tipo che fa morire dal ridere, insomma.

La natura e la successione locale delle generazioni
Gran parte dell’oeuvre di Berry rientra in una certa tradizione “verde” della letteratura americana: quella di Henry David Thoreau e Ralph Waldo Emerson, per intenderci. Ma esistono delle divergenze. Nel suo capolavoro, Walden, ovvero la vita nei boschi, Thoreau cerca di ritrovare se stesso attraverso un rapporto intimo con la natura: «Mi sono rifugiato nei boschi perché volevo vivere in modo consapevole, affrontare solo i fatti essenziali della vita». Se, per lui, la natura è una casa, per Berry è una cattedrale: «La natura più esemplare è quella del terreno di superficie. È realmente somigliante a Cristo nella sua passività e beneficenza, nell’energia penetrante che emana dalla sua pacatezza». Berry si fa ingoiare: «Mi vedevo come un frutto della terra al pari degli altri animali e piante autoctone». Thoreau, invece, se la gode: «Mangerei un topo fritto di gusto, se fosse necessario». Pensare che era vegetariano.
In Thoreau, il selvatico e l’umano si mescolano. Avvistando una marmotta, dice di essere «fortemente tentato di divorarla cruda», solo che «non avevo fame». Roditore per roditore, il tono di Berry è più pio che mai: «Questa mattina, mentre scrivevo, ho percepito la presenza di uno scoiattolo che si crogiolava al sole su un alto ramo di un olmo davanti alla finestra. La notte era stata gelida e ora tornava il tepore. È rimasto lì a lungo, scaldandosi e pulendosi. Non era forse in pace? In quel momento la vita non gli sorrideva forse?».
Per Berry, ogni bacca, ogni ghianda, ogni fiorellino sono simbolo di qualcosa di “spirituale”: «Imbattendomi in un fungo che spunta da un cuscinetto di verde muschio tra le grosse radici di una quercia, il sole e la rugiada ancora lì a braccetto, ho sentito che la mia mente rimpiccioliva irresistibilmente per abitare quel luogo, lasciandomi lì fermo, vuoto e attonito, come un ragazzino che dopo avere preso un’arvicola se la vede scappare di mano».
A soli cinque chilometri di distanza da Lane’s Landing Farm vivono il figlio e il fratello, che conducono una seconda azienda agricola (la stessa che era appartenuta per molti anni al padre e mentore di Berry). A 10 chilometri, la figlia e il genero allevano mucche e gestiscono una piccola azienda vinicola. Una famiglia intera con radici salde nella terra, in quella terra. «La presenza della famiglia qui risale al trisavolo di mia madre e al bisnonno di mio padre» scrive Berry nel saggio autobiografico “La collina natìa”. «La storia della mia famiglia è la storia della sua vita qui… Dato che sono cresciuto sempre o quasi qui e qui ho fatto gran parte delle mie esperienze più significative, per me il luogo e quella storia sono inseparabili, e in un certo senso la mia stessa esistenza è inseparabile da quella storia e da questo luogo». Ecco spiegato il concetto di comunità rurale e «successione locale delle generazioni», così centrale al pensiero berryano.

Il rinnovamento e la guerra
Tagliare le nostre radici è un modo per garantire il logoramento e la morte della vita stessa. «Continuo a pensare al rinnovamento delle comunità rurali … e sono convinto che potrebbe essere l’inizio di un rinnovamento del nostro paese…». L’esigenza di rinnovamento, afferma Berry, nasce dalla crisi del mondo contemporaneo, scaturita dalla distruzione sistematica delle comunità, e della terra, dell’aria e dell’acqua, insieme fonti di vita e basi dell’economia. «Provate a immaginare un’economia senza terra fertile o acqua potabile o aria respirabile. L’idea che si possa costruire un’economia forte fatta di moneta o di obbligazioni e titoli sopra un paesaggio degradato è ridicola». L’erosione del suolo, la contaminazione e lo spreco delle risorse idriche, l’inquinamento dell’aria, la deforestazione, l’estinzione delle specie, la distruzione delle comunità locali, l’omologazione o la decimazione delle culture autoctone sono tutti segni della grave crisi che affligge il pianeta per colpa nostra.
Berry va anche oltre: «Finché il sistema mondiale continuerà a creare conflitti, mettendoci gli uni contro gli altri, noi popoli del sud saremo costretti ad abbandonare le nostre colture tradizionali, ad abbandonare i campi per lavorare in miniera, a prostituirci, a vendere i nostri figli e i nostri reni». Forse esagera, ma non si può dire che non sia coerente. Definito dal New York Times come «il profeta dell’America rurale», e da più parti bollato come conservatore, se non reazionario, ha avuto il coraggio di dichiararsi contro la guerra in Iraq. Anzi, contro la guerra in generale. È inevitabile, sostiene, che la guerra perpetri violenze contro gli innocenti, e, nella fattispecie, «continuiamo a punire il popolo sconfitto dell’Iraq e i propri figli». Quando argomenta che, per sradicare il terrorismo, occorre capirne le cause, il suo non è certamente un discorso da “neo-con”.
È la storia che è sbagliata, forse? «Siamo partiti dall’idea che ciò che andava bene per noi andasse bene per il mondo, che nasceva a sua volta dall’idea ancor più stolta di poter capire con certezza che cosa fosse bene per noi. Abbiamo reso reali i rischi insiti in quest’idea facendo del nostro orgoglio personale e dell’avidità i criteri in base a cui rapportarci al mondo – con un danno incalcolabile per il mondo e per ogni suo essere vivente. Oggi, quando forse è troppo tardi, questo grave errore è diventato chiaro. Non è solo la nostra creatività – la capacità di vivere – a essere soffocata da questi arroganti assunti, ma la creazione stessa».
No, la colpa è tutta nostra: «Abbiamo sbagliato. Dobbiamo cambiare vita affinché sia possibile vivere in base all’assunto opposto, che ciò che è bene per il mondo è bene per noi… Dobbiamo imparare a collaborare con i suoi processi e a rispettare i suoi limiti. Ancora più importante è imparare a riconoscere che la creazione è gravida di mistero; non la capiremo mai fino in fondo. Dobbiamo disfarci dell’arroganza e avere soggezione. Dobbiamo ritrovare il senso della maestà della creazione e la capacità di inchinarci in sua presenza. Non ho dubbi sul fatto che la nostra specie potrà restare al mondo solo a condizione di essere umile e rispettosa davanti ad esso». Ovvero, sbagliando s’impara.

Mangiare è un atto agricolo
Quello che lega Slow Food a Berry è il celebre aforisma «Mangiare è un atto agricolo». Si tratta di un concetto preso in prestito da un altro illustre “compagno di viaggio” del movimento. «Si potrebbe partire dall’illuminante principio enunciato da Sir Albert Howard in The Soil and Health (Il suolo e la salute), ossia considerare “l’intera questione della salute del suolo, della pianta, dell’animale e dell’uomo un unico grande soggetto”. Chi consuma cibo deve cioè rendersi conto che l’atto di mangiare ha luogo inevitabilmente nel mondo, che è inevitabilmente un atto agricolo e che il modo in cui mangiamo determina in misura considerevole il modo in cui si usa il mondo. È una maniera semplice di descrivere un rapporto che è indicibilmente complesso. Mangiare in modo responsabile significa capire e ratificare, nella misura del possibile, questo rapporto complesso». Si tratta di una formula che, unendo terra e tavola, si sposa bene con una delle ultime proposte teoriche di Carlo Petrini: “consumatore = coproduttore”. Scegliendo il nostro cibo quotidiano, infatti, siamo in grado, se vogliamo, di scegliere un tipo di agricoltura in grado di salvare il pianeta. Il consumatore medio da cliente distratto può diventare acquirente consapevole di cibo… «buono, pulito e giusto». «No Farms, No Food» (niente fattorie, niente cibo) ho letto sul cappellino da baseball di un ragazzo americano tra il pubblico di Terra Madre. Tra mille slogan d’effetto, è questo, forse, il più efficace di tutti. Uno slogan che piacerebbe certamente a Wendell Berry, il “poeta-contadino”.

Slow Food Editore ha pubblicato un’antologia dei testi di Wendell Berry, intitolata La risurrezione della rosa.
Potete leggere in anteprima e commentare gli articoli delle riviste Slow e Slowfood sul blog chiacchiere di vino e cucina.