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Un mondo d'imballi

di Leopoldo Silvestroni - 24/05/2007

 
 
Dei diversi tipi di plastica in uso per il confezionamento, la distribuzione e la conservazione di cibi e bevande il più diffuso, il cloruro di polivinile (Pvc), sta da tempo sollevando perplessità e timori riguardo a suoi possibili effetti dannosi per la salute....

In questo articolo vengono illustrati alcuni elementi conoscitivi sull’argomento che potranno essere di chiarimento e di guida per il lettore non specialista.
Va intanto riconosciuto che la ricerca e lo sviluppo industriali hanno prodotto plastiche per alimenti dotate di eccellenti proprietà che consentono di proteggere cibi e bevande dal deperimento causato da agenti chimici e fisici o dalla contaminazione batterica dovuta al contatto con altri prodotti, dalla manipolazione e da agenti patogeni presenti nell’aria.

Ma quali sono gli effetti del contatto tra Pvc e cibi e quali rischi per la salute possono derivarne?

Per rispondere a queste domande è necessario conoscere - seppure a grandi linee - alcune caratteristiche di questa plastica.
Il Pvc è un polimero, un insieme cioè di singole molecole di cloruro di vinile unite a formare una trama di lunghe catene, dotato di trasparenza, impermeabilità a liquidi e gas, capacità isolante termica ed elettrica e resistenza meccanica.

Occhio agli ftalati

Per essere reso adatto ad avvolgere o contenere alimenti, deve essere arricchito dall’aggiunta di alcune sostanze, dette additivi plasticizzanti, che sono incorporate durante la polimerizzazione conferendogli l’elasticità e la flessibilità richieste. I principali additivi utilizzati in questo tipo di Pvc sono gli ftalati ed è su di essi che è tuttora aperto un acceso dibattito su loro possibili effetti negativi sulla salute umana. Gli ftalati possono rappresentare fino a oltre il 40% in peso del Pvc morbido, sono quasi insolubili in acqua ma si sciolgono facilmente in alcool e nei grassi.
Poiché gli ftalati non formano legami stabili ed irreversibili con il Pvc che li contiene, in caso di contatto con alimenti oleosi o comunque contenenti grassi essi tendono a fuoriuscire dalla matrice di Pvc e a migrare nell’alimento. Ovviamente, maggiore è il contenuto in grassi del cibo o della bevanda, maggiore sarà la quantità di ftalati trasferita, così come ad un tempo più prolungato e ad una più elevata temperatura di contatto corrisponderà maggiore contaminazione dell’alimento.
Il più completo e qualificato archivio della letteratura scientifica biomedica (la National Library of Medicine di Washington, consultabile in linea all’indirizzo Internet, http://www.ncbi.nlm.nih.gov/PubMed/) riporta circa 650 lavori scientifici pubblicati negli ultimi trent’anni sugli ftalati e i loro effetti biologici. La maggior parte di questi lavori condotti su sistemi cellulari in vitro o in modelli animali in vivo - documenta danni da esposizione agli ftalati soprattutto nel periodo pre-e perinatale e a carico prevalentemente del rene, del fegato e dei meccanismi ormonali che regolano l’apparato riproduttivo.
Da questi studi si deduce che gli ftalati inducono danni evidenti soltanto se somministrati in quantità elevate ed è sicuramente vero che la quantità di ftalati negli alimenti e bevande che sono stati a contatto con Pvc morbido - se riferita alle quantità dimostrate tossiche negli studi sperimentali - non rappresenterebbe un rischio significativo per la salute. Per questo agli ftalati è stato assegnato un modesto potenziale di tossicità per l’uomo. Ma assenza di dimostrazione di danno non significa dimostrazione dell’assenza di danno e i pur moderati effetti tossici degli ftalati consigliano qualche riflessione, in particolare per quanto riguarda la loro azione sul sistema endocrino. Gli ftalati infatti interferiscono con i sistemi ormonali in maniera analoga a quella con cui agiscono numerose altre sostanze sintetiche molto diffuse nell’ambiente e a cui noi tutti siamo quotidianamente esposti.

Tante insidie

Pesticidi, collanti, vernici, detergenti, inchiostri e solventi, pur tanto differenti dal punto di vista chimico e tossicologico se considerati singolarmente, sono tutti in grado di alterare il sistema endocrino tanto da essere oggi accomunati dall’inquietante nome di distruttori endocrini. La presenza contemporanea nell’ambiente e l’azione combinata di tutte queste sostanze allontana di fatto la ricerca tossicologica di laboratorio, usualmente orientata allo studio approfondito di singole sostanze, dalla complessa realtà ambientale. Ne deriva che i risultati prodotti da questa ricerca potrebbero addirittura essere elementi confondenti nella valutazione del rischio che per la popolazione generale rappresenta ciascuna singola sostanza.  E’ in quest’ottica che la tossicità degli ftalati, anch’essi appartenenti ai distruttori endocrini, andrebbe rivalutata.
Va considerato peraltro che accertare la tossicità di combinazioni diverse di più sostanze sarebbe estremamente laborioso, richiederebbe molti decenni di studio (sono centinaia le sostanze sintetiche che possono interferire con il sistema ormonale) e sarebbe forse anche inutile (con quali criteri stabilire le composizioni delle miscele da studiare?).
Certamente lo studio degli effetti biologici dei contaminanti chimici presenti nell’ambiente deve proseguire e progredire perché, solo così può fornire dati conoscitivi di fondamentale importanza. I tempi della ricerca di base sono enormemente lunghi rispetto a quelli della nascita e della diffusione di nuovi prodotti industriali, tanto che soltanto per una modesta percentuale di tutte le sostanze chimiche sintetiche utilizzate oggi sono state definite compiutamente le proprietà tossicologiche.
E’ opportuno allora che ogni qual volta si osservino anche modesti effetti di danno o sia plausibile ipotizzarne l’occorrenza sia fatto prevalere, nell’interesse primario di tutelare la salute, il principio di cautela. In base a questo fondamentale principio si dovrebbe tendere ad eliminare o sostituire le sostanze per le quali sia dimostrato o anche si sospetti un qualche riflesso negativo sui sistemi biologici. E gli ftalati, così come altri additivi delle plastiche, sono tra queste.
Interessanti novità stanno emergendo e lasciano ben sperare. Alcuni ricercatori statunitensi hanno ideato un processo per ottenere plastiche dalla fermentazione di cereali, il tutto a costo inferiore rispetto ai prodotti analoghi derivati dalla chimica del petrolio. Da olio di semi di soia e zuccheri si stanno ottenendo nuovi materiali che consentirebbero di rimpiazzare a breve termine molti prodotti dell’industria petrolchimica quali combustibili, lubrificanti, inchiostri e vernici.
Dalla zeina, proteina vegetale utilizzata nei mangimi animali e per rivestire caramelle, è stata ottenuta una plastica in fogli adatta per usi agricoli. Impermeabile e totalmente biologica, questa plastica ha una “vita di lavoro” di circa sei mesi, dopo di che si degrada e diventa nutrimento per suolo e bestiame. Sembrerebbe proprio che la plastica stia per perdere l’acre odore di petrolio per riacquistare quello più rassicurante del fresco mondo vegetale da cui nacque.

Pubblicato su AAM Terra Nuova, dicembre 1999