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Pakistan: una polveriera nucleare in fiamme

di mazzetta - 25/05/2007

 

Quasi centosettanta milioni di abitanti, attualmente considerato al nono posto nella classifica degli “stati falliti” (al decimo c’è l’Afghanistan), il Pakistan è un fondamentale alleato della “War on terror” di George W. Bush, il quale si è assicurato la collaborazione del dittatore Musharraf minacciando, nei giorni successivi all’undici settembre 2001, di “riportare il Pakistan all’età della pietra”. Nonostante le minacce e le pressioni il Pakistan ha una propria agenda politica e cerca di perseguirla pur tra mille difficoltà. La capacità di praticare il doppio e triplo gioco di Musharraf meriterebbe un posto nella leggenda, se non altro per il complesso quadro geopolitica all’interno del quale il dittatore riesce a mantenere il potere nonostante il suo paese continui ad essere la principale sorgente del terrorismo qaedista o “islamico” che dir si voglia. Musharraf era, ai tempi dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan, il comandante sul campo dell’ISI (i servizi pachistani) e operava fianco a fianco con Bin Laden.

Del Pakistan sappiamo che ha fornito la gran parte degli attentatori all’opera il 9/11, attentatori finanziati direttamente dal’ex capo (ora rimosso) dei servizi pachistani; ma anche che erano di origine e addestramento pachistani gli autori degli attentati alla metropolitana di Londra. Del Pakistan sappiamo inoltre che è impegnato sul fronte della proliferazione nucleare clandestina e che, nel quadro di un accordo ormai trentennale, ha fornito tecnologia nucleare a doppio uso bellico/civile a Libia, Iran, Arabia Saudita e Corea del Nord. Lo scandalo della proliferazione nucleare made in Pakistan scoppiò ufficialmente sul finire del 2003, ma sembra non abbia preoccupato nessuno. Secondo l’ex direttore della Cia, George Tenet, i traffici dei pachistani sarebbero stati scoperti grazie alle informazioni fornite dagli USA, ma questo non corrisponde al vero. Lo scandalo venne alla luce perché Gheddafi indicò all’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) il Pakistan come fornitore del programma nucleare libico. Gheddafi aveva appena raggiunto un accordo (sotto minaccia) con gli USA per rinunciarvi e probabilmente l’occasione per mettere i bastoni tra le ruote all’idillio USA-Pakistan; Gheddafi non ha alcuna simpatia per qaedisti e simili, che sente come una minaccia al suo potere.

Non serviva però Gheddafi per sapere quello che sapevano in molti, visto che fin dagli anni ’90 l’AIEA aveva accusato A. Q. Kahn, il padre dell’atomica pachistana, di essere il perno di un network clandestino dedito ai commerci di materiale nucleare. Denunce che non avevano trovato eco sulla stampa internazionale e ancora meno attenzione da parte della Casa Bianca, tradizionalmente vicina ai governi pachistani a prescindere dalla loro composizione. Una tradizione che risale a Nixon, vedeva nel Pakistan un contrappeso naturale al potenziale crescere dell’India come potenza regionale, una vicinanza che sembra essersi recentemente affievolita insieme al crescere del favore americano verso l’India, con la quale gli USA hanno firmato un accordo che permetterà agli indiani di acquisire tecnologia nucleare in abbondanza proprio da Washington. Allo scoppio dello scandalo seguì una farsa; Musharraf cercò di accusare lo scienziato e di chiamare fuori il governo da ogni responsabilità. A seguito di massicce manifestazioni popolari e a seguito delle dichiarazioni di Kahn in merito a documenti che la figlia aveva provveduto a mettere al sicuro all’estero, dai quali emergerebbero evidenti le responsabilità governative, Musharraf optò con grande fantasia per una soluzione diversa. Lui e Kahn apparverò in diretta televisiva nell’ora di massimo ascolto, lo scienziato si dichiarò colpevole e Musharraf lo perdonò davanti alla nazione. Il Dipartimento di Stato dichiarò che Musharraf aveva dimostrato di voler impedire i traffici nucleari. Fine dello scandalo.

Alla fine dello scandalo non è seguito però lo smantellamento della rete clandestina attraverso la quale il Pakistan ed altri paesi si procurano hardware e software nucleare. Una rete estesa dalla Malaysia a Dubai fino a diversi paesi europei, che può contare su decine di nodi e centinaia di persone. Di queste ne sono state arrestate e condannate solo tre, due tedeschi e un olandese. Musharraf non ha concesso a nessuno di poter interrogare Kahn, che formalmente sarebbe stato allontanato dal programma nucleare e non ha arrestato nessuno. Una circostanza abbastanza incredibile se si pensa che dal paese con la più alta concentrazione di servizi segreti al mondo si trasportavano addirittura le centrifughe nucleari usando aerei militari; pensare che nessuno abbia commesso reati o che nessuno sia imputabile di nulla conduce solo a confermare la certezza di un traffico gestito con l’assenso del governo e dei militari. Un traffico che ancora continua e ancora po’ contare sulla stessa rete di un tempo. La responsabilità di questo stato di cose è evidentemente della casa Bianca, basta pensare alle minacce contro Iran e Corea del Nord e confrontarle con il comportamento tenuto verso il Pakistan per vedere il doppio standard all’opera. L’anno scorso un gruppo di studi annunciò che il Pakistan stava costruendo un reattore al plutonio da 1000 megawatt, il meglio che c’è per procurarsi combustile nucleare. La scoperta avvenne osservando le foto di un satellite commerciale. Gli USA dapprima negarono, poi ammisero di esserne a conoscenza fin dall’inizio della sua costruzione (nel 2001), ma di aver ottenuto garanzie dai pachistani che il plutonio non sarebbe stato impiegato per la costruzione di ordigni bellici. Ridicolo se non fosse tragico.

Lo stesso doppio standard impedisce agli USA di focalizzare la situazione in Pakistan; una situazione sull’orlo del collasso che l’Occidente non riesce a gestire e spesso nemmeno a comprendere. Negli ultimi anni il potere di Musharraf, che si era rinvigorito proprio grazie alla rimozione dell’embargo americano e alla dazione di oltre dieci miliardi di dollari in aiuti militari, è andato scemando. Dovendo accontentare tutti, dalla borghesia laica agli estremisti islamici fino all’alleato americano, Musharraf non si è risparmiato equilibrismi e fantasia, ma la fune sulla quale cammina si è fatta ogni giorno più stretta ed instabile. Il governo pachistano si è trovato impegnato su più fronti, mentre periodicamente se ne aprivano di nuovi. A Est c’erano da cogliere le grandi opportunità offerte dal nuovo Afghanistan (molti ministeri afgani sono stati “affidati” a “tutor” pachistani), mentre a Sud c’è il Baluchistan, con i progetti per l’oleodotto IPI ( Iran-Pakistan-India) e per l’hub portuale di Gwadar (costruito dai cinesi), destinato a divenire una “porta” commerciale asiatica verso il mondo. I due obbiettivi hanno sottratto risorse ed attenzione ad altre zone del paese, in particolare al Kashmir, da decenni conteso agli indiani. Quando il governo pachistano ha mancato di soccorrere i kashmiri vittime di un rovinoso terremoto, gran parte dei combattenti impegnati alla frontiera orientale contro la “minaccia indù”, si sono trasferiti ad Ovest a dar manforte contro i “cristiani”.

Proprio sul finire dell’anno scorso nelle province occidentali del Waziristan (del Sud e del Nord) i combattenti islamici hanno proclamato un emirato indipendente. Negli stessi mesi salivano di tono le accuse del presidente afgano Karzai conto i vicini, accusati di voler dissanguare e ridurre in schiavitù il popolo afgano. Negli ultimi giorni truppe afgane e pachistane si sono combattute alla frontiera, uccidendo anche un ufficiale americano intervenuto per far terminare gli scontri. I problemi del Pakistan sono principalmente all’interno dei suoi stessi confini. Alla rivolta dei waziri si è aggiunta quella dei baloci, per nulla disposti a farsi sfruttare senza vedere un dollaro, rivolta che ha portato alla paralisi completa sia dell’oleodotto IPI che del porto di Gwadar, praticamente isolato dal resto del paese. A queste si è aggiunto il generale malcontento per un’economia in calo costante, per le riforme promesse e mai realizzate (solo il 30% dei bambini pachistani può contare su scuole pubbliche), che hanno poi trovato nella rimozione di un giudice della Corte Suprema la scintilla che ha incendiato la prateria. Ne sono seguite imponenti manifestazioni, subito assalite dall’esercito e dai militanti di partiti vicini o complici di Musharraf; un bilancio finale fatto di numerose morti e devastazioni.

Purtroppo per il Pakistan la situazione politica è bloccata e non facilmente risolvibile. I due maggiori partiti opposti a quello di Musharraf (che ha promesso libere elezioni e di abbandonare l’esercito, ma che non mantiene) sono diretti da due ex premier corrotti, nella migliore tradizione del familismo politico asiatico. L’unica formazione politica non compromessa è capitanata da Imra Kahn, un ex campione di polo che però non ha il sostegno dell’elite pachistana, mentre il giudice della corte suprema che ha trascinato le folle in piazza, pur godendo di una favore diffuso, non sembra avere alcuna speranza elettorale. Il paese vive dell’iniezione di denaro da parte di USA ed Arabia Saudita ed è tenuto insieme con la forza dalla casta militare, che però sembra aver esaurito le opzioni alternative alla repressione sanguinaria; un segnale in questo senso è dato dalla istruzione delle redazioni di alcuni media che sostenevano le proteste contro la rimozione del giudice costituzionale. Musharraf si è scusato pubblicamente per le aggressioni ai media, che in Pakistan nonostante la dittatura godono di una libertà sconosciuta anche in paesi più “democratici”, ma il fatto è un altro segnale del crollo delle ultime convenzioni a tutela della convivenza più o meno civile nel paese.

Se cade Musharraf il Pakistan rischia qualcosa di molto simile ad una guerra civile o una sanguinosa dittatura militare, ma se Musharraf resiste il menu non sarà molto diverso. Nell’attesa di assistere alle evoluzioni della storia, non resta che rilevare la straordinaria riservatezza che i media concedono al turbolento “alleato” pachistano e chiedersi da quali fattori misteriosi possa dipendere, pensando che forse l’origine di tanta compiacenza è da far risalire ai tempi di Nixon e Kissinger e che sicuramente è stata rafforzata dal coinvolgimento dei vertici dell’amministrazione americana nello scandalo della BCCI, il più grande scandalo narco-finanziario della storia. Purtroppo le vicende che riguardano il Pakistan sembrano interessare molto meno del delitto di Cogne, non resta che sperare che questa distrazione generale non venga scossa dall’improvviso apparire di un fungo atomico su qualche città, una eventualità che coglierebbe le opinioni pubbliche di sorpresa non meno di quanto sia successo in occasione degli annunciatissimi attentati del 9/11.