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UE: Democrazia o plutocrazia. Le multinazionali e l’Unione Europea

di Alejandro Teitelbaum - 26/05/2007




Il giornalista e sindacalista belga, Gérard de Selys, illustra (Gérard
de Selys, Privé de public. A qui profitente les privatisations? EPO,
Bruxelles, 1995) il lavoro congiunto della Commissione Europea - che
emette direttive oltrepassando le proprie attribuzioni - e della Tavola
Rotonda degli Industriali Europei ERT (formata dalle multinazionali
Volvo, Olivetti, Siemens, Unilever ed altre), con l’appoggio del
Tribunale Europeo di Lussemburgo, che interpreta in modo molto personale le regole comunitarie relative alle competenze, stilate nel 1957 dal Trattato di Roma istituente la CEE. Questa sinergia, purtroppo, sta portando al culmine la spoliazione del patrimonio pubblico dei Paesi europei, e proprio nelle industrie attualmente più dinamiche e redditizie: le telecomunicazioni e le comunicazioni elettroniche.

Il libro di Selys è del 1995, ma dall’anno della pubblicazione a
tutt’oggi l’offensiva privatizzatrice della Commissione Europea contro i
servizi pubblici - con l’appoggio attivo delle società multinazionali -
non è affatto cessata: il bersaglio ora sono le poste, la salute,
l’educazione e l’ambiente. In un articolo pubblicato su ”Le Monde
Diplomatique” del luglio 2000 (Susan George e Ellen Gould,
”Liberalizzare facendo finta di niente”) viene citato un documento della
Commissione Europea nel quale si afferma che ”la partecipazione attiva delle industrie dei servizi ai negoziati è essenziale per consentirci di allineare i nostri obiettivi di negoziato con le priorità delle imprese.
L’AGCS (Accordo generale sul commercio dei servizi – OMC) non è soltanto un accordo tra governi. E’ prima di tutto uno strumento che arreca benefici al mondo degli affari (un gruppo di ricercatori, che fa parte del Corporate Europe Observatory, ha pubblicato uno studio molto esauriente sul ruolo delle multinazionali in seno all’Unione Europea: Belén Balanya, Ann Doherty, Olivier Hoedeman, Adan Malanit y Erik Wesselius, Europe Inc. Liaisons dangereuses entre institutions et milieux d’affaires européens, Agone Editeur, Marseille, 2do trimestre
del 2002).

Il 4 giugno 2003 il Parlamento Europeo, riunito in sessione plenaria a
Strasburgo, ha deciso ad ampia maggioranza di autorizzare la
liberalizzazione del mercato dell’elettricità e del gas, compresa
l’erogazione ai privati, a partire dal 1° luglio 2007.
Il 23 settembre 2004 la Commissione Europea ha pubblicato un Libro Verde intitolato ”I contratti pubblici della difesa” con l’obiettivo di aprire
alla libera concorrenza le forniture di materiale militare. All’inizio
dell’introduzione si afferma: ”Questo Libro Verde fa parte delle azioni
preannunciate dalla Commissione Europea nella Comunicazione intitolata “Verso una politica dell’UE in materia di equipaggiamento per la difesa” adottata l’11 marzo 2003. Attraverso queste azioni, la Commissione Europea si propone di contribuire alla progressiva creazione di un mercato europeo di equipaggiamenti per la difesa (« European Defence Equipment Market », EDEM), più trasparente ed aperto tra gli Stati membri, che, pur continuando a rispettare la specificità del settore, lo renda più efficace dal punto di vista economico.

Il 7 dicembre 2006 la Commissione Europea ha emesso nuove direttive volte a limitare le eccezioni alla ”libera concorrenza” in materia di contratti con l’industria militare, allo scopo dichiarato di
”liberalizzare” ulteriormente il ramo succitato. Questa pressione a
favore della liberalizzazione del settore sembrerebbe provenire dagli
stessi industriali degli armamenti.
Ma chi sono gli industriali degli armamenti?

Nel giornale Le Monde del 14 luglio 2005 (“I fondi americani innaffiano
l’industria europea della difesa”) si rendeva noto che potenti fondi
d’investimento americani, ( tra gli altri Blackstone, KKR, One Equity
Partner) stanno prendendo il controllo in settori dell’industria europea
legati alla difesa:
QinetiQ, Bofors Weapons, Gemplus.
Il giornale, tra l’altro, forniva i seguenti dati: nel luglio 2003
Carlyle e Finmeccanica hanno acquisito rispettivamente il 70 ed il 30%
di Fiat Avio. Sempre nel 2003, il fondo KKR ha comprato un terzo del
capitale dell’industria di motori militari Eurojet e alla fine dello
stesso anno ha acquistato MTU, il primo produttore di motori tedesco.
Nel 2000, Texas Pacific Group ha acquisito il 25% di Gemplus. Nel
febbraio 2003, Carlyle ha comprato il 33,8% di QinetiQ, ecc.

Non si può escludere che, oltre all’obiettivo squisitamente economico
della ricerca di maggiori benefici, questi movimenti di capitali
corrispondano ad una strategia politico-militare a livello globale dei
centri di potere statunitensi, strategia in cui il progetto di
liberalizzare l’industria europea della difesa, contenuto nel Libro
Verde della Commissione Europea, avrebbe il ruolo di cavallo di Troia.

Alcuni governi europei, quando viene loro rimproverata la politica delle
privatizzazioni, comprese quelle dei servizi pubblici, rispondono di
essere stati obbligati da Bruxelles (sede della Commissione Europea). Ma la pratica dimostra invece che quando i governi non vogliono seguire le indicazioni di Bruxelles in altri campi, non lo fanno, e se non
mantengono i servizi fondamentali nell’ambito pubblico, è perché non ne hanno la volontà politica.

La Commissione Europea presieduta da Barroso ha una sfumatura
maggiormente neoliberista di quella che l’ha preceduta. Forse l’esempio più eclatante è quello dell’olandese Neelie Kroes-Smit, Commissario per la Concorrenza. In quanto ministro dei Trasporti e delle Telecomunicazioni del suo Paese, la signora ha proceduto alla parziale privatizzazione delle Poste e, in quanto privata cittadina, ha fatto parte di vari direttivi di società multinazionali.

Le grandi imprese multinazionali europee, riunite nell’UNICE - Unione
delle Confederazioni Industriali e degli Imprenditori Europei –
controllano strettamente la Commissione europea e i 39 membri
dell’organizzazione imprenditoriale hanno rappresentanti permanenti a
Bruxelles e un vero e proprio esercito di lobbysti per influenzare le
decisioni della Commissione.
Vediamo, a questo proposito, cosa dice di sé stessa l’UNICE
(http://www.unice.org/, il portavoce delle imprese in Europa. L’UNICE è la voce del mondo degli affari di fronte alle istituzioni dell’Unione
Europea. I suoi 39 membri sono le organizzazioni industriali
multisettoriali e le organizzazioni di imprenditori di 31 Paesi europei
e rappresenta oltre 16 milioni di imprese, soprattutto piccole e medie.
L’UNICE è anche un interlocutore nel dialogo sociale a livello
dell’Unione Europea. Il compito principale dell’UNICE è d’informare e
influenzare i processi decisionali dell’Unione Europea, affinché le
politiche e le proposte legislative europee con ricadute sull’attività
economica tengano conto delle necessità delle imprese. La priorità
assoluta dell’UNICE è quella di promuovere la concorrenza in economia e l’investimento su scala europea, unica via per raggiungere un maggiore sviluppo e un impiego duraturo. Il mondo degli affari ha bisogno di una Commissione efficace.

Il Progetto di Trattato Costituzionale europeo, destinato a inquadrare
in una gerarchia costituzionale la politica neoliberista attualmente
dominante in Europa, è stato preparato da un’assemblea di persone
cooptate e presiedute da Valéry Giscard d’Estaing, e il testo definitivo
è stato approvato dai capi di Stato e di Governo. Non c’è stata
partecipazione dei cittadini, tranne nei Paesi in cui si è deciso di
sottoporre il testo a referendum, per respingerlo o approvarlo. Per
l’entrata in vigore il progetto richiedeva l’approvazione unanime degli
Stati membri. Ma nei referendum tenutisi in Francia e in Olanda esso è
stato respinto dalla maggioranza dei votanti, cosicché l’attuale
versione è stata archiviata.

Se fosse entrato in vigore, per effettuarne un’ulteriore modifica
sarebbe occorso l’accordo unanime di tutti gli Stati membri, cosicché la
sua impostazione neoliberista sarebbe risultata praticamente
immodificabile. I dirigenti europei ora meditano e si scambiano opinioni
su come dar vita ad un nuovo progetto, a quanto pare altrettanto
reazionario del precedente, se non di più.

Il Progetto non forniva alcuna risposta ai problemi sociali che
attualmente si presentano in Europa: ben protetta dalla ”libera
circolazione di industrie e di capitali”, la formazione di enclaves
industriali moderne nei Paesi poveri dell’Europa dell’est, con salari
leggermente superiori rispetto alla media nazionale (tra un quinto e un
decimo di quelli dei Paesi ricchi dell’Ovest), la permanenza in questi
stessi Paesi di un alto tasso di disoccupazione e, come contropartita,
la caduta dei salari, il peggioramento dei diritti dei lavoratori,
l’estensione della giornata lavorativa e della disoccupazione nei Paesi
più sviluppati del continente europeo.

L’Unione Europea sta negoziando una serie di accordi regionali di
associazione economica con vari Paesi poveri, accordi detti EPA, dalle
iniziali delle parole inglesi. Gli EPA sono accordi di reciproche
priorità commerciali nel contesto del cosiddetto Patto di Cotonou, tra
l’UE e il gruppo dei 77 Paesi in Africa, nei Caraibi e nel Pacifico
(ACP), un tempo colonie europee. L’UE, nelle sue proposte di accordi
commerciali, pretende dai Paesi del Sud che essi aprano i propri mercati
alle imprese europee, minacciando così l’impiego, le industrie e i
servizi pubblici nelle nazioni più povere.
L’UE sostiene che gli EPA integreranno i Paesi ACP nell’economia
mondiale, che promuoveranno uno sviluppo sostenibile e che
contribuiranno a sradicare la povertà.
Gli accordi proposti nel patto di Cotonou eliminerebbero i dazi ai
prodotti d’importazione e, per i Paesi dell’UE, agevolerebbero la
vendita di beni sostenuti da sussidi.
L’UE sta negoziando accordi analoghi con altri Paesi poveri.

Due organizzazioni non governamentali, la britannica Traidcraft e la
keniota EcoNews Africa, in un rapporto intitolato ”Gli EPA visti con gli
occhi del Kenia”, pubblicato nel settembre 2005, hanno segnalato che,
prima di firmare questi accordi, bisogna tenere in seria considerazione
la decadenza nel settore delle manifatture, l’aumento della povertà e
della disoccupazione nei Paesi come il Kenia, aggiungendo che la
liberalizzazione economica e commerciale degli ultimi anni ha prodotto
”situazioni estreme” in questo Stato, ovvero alti indici di criminalità
e di prostituzione, peggioramenti nel settore educativo e perfino
suicidi; oltretutto il numero dei poveri è aumentato da 11 a 17
milioni’, cioè oltre la metà della popolazione keniota (la relazione
espone l’impatto degli accordi di libero commercio


Fonte: www.traidcraft.co.uk
Link: http://www.traidcraft.co.uk/template2.asp?pageID=1867)

Bollettino elettronico quindicinale di ATTAC
Venerdì 25 maggio 2007
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