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«Globish»? No, meglio il latino

di Paola Springhetti - 26/05/2007

Un «Manifesto» rivolto alle autorità politiche europee rilancia le lingue classiche; non per nostalgia, ma per salvare la nostra identità culturale

Uno strumento per non annegare, soprattutto nei momenti di crisi della civiltà. Esperienze per studiarlo con le nuove tecnologie

L'edizione latina di Wikipedia, la nota enciclopedia che si può consultare ma anche contribuire a scrivere e aggiornare in Internet, si chiama «Vicipaedia» e ha 13.075 pagine. Esistono fumetti in latino e ogni anno si svolgono i Certamina, sfide tra gli studenti sulla capacità di traduzione dei classici. Parole latine si trovano spesso in quel filone fantastico della letteratura per i ragazzi di cui fa parte tra gli altri la serie di Harry Potter, ma non è difficile incappare in esse anche leggendo Topolino. Dunque il latino è ancora parte - in modi seri e meno seri - nella nostra cultura? In realtà, se si vanno a vedere altri indicatori, la risposta resta negativa. È diventato ormai difficile trovare insegnanti di greco per i licei, e fra poco probabilmente lo sarà anche per gli insegnanti di latino. Nelle università i giovani che si avventurano nello studio approfondito delle lingue classiche sono sempre meno, e l'impressione è che le tracce della nostra lingua madre che restano visibili siano più di latinorum che di latino. Per questo oggi verrà presentato un manifesto, «Futuro Latino», rivolto «alle autorità educative e politiche europee» per «mettere in rilievo l'importanza dell'insegnamento e della diffusione delle lingue classiche in una misura e ad un livello tali da garantire la sopravvivenza della nostra identità culturale così come finora l'abbiamo concepita». La presentazione del manifesto avviene all'interno del convegno internazionale «Futuro Latino. La lingua latina per la costruzione e l'identità dell'Europa», che si chiude oggi a Roma con la partecipazione - tra gli altri - di Marcello Veneziani, Roberto de Mattei, Giuseppe Dalla Torre, e che è stato organizzato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e dal Pontificio Comitato di Scienze Storiche. Come ha detto ieri monsignor Walter Brandmüller, presidente del suddetto Comitato, il problema è che, in epoca di globalizzazione e di globish, «la conservazione dell'immenso patrimonio culturale dell'Euro pa e la sua trasmissione è impensabile senza la lingua e la cultura latina e greca, che l'hanno creata». Perdere il latino non significa perdere un accessorio ornamentale della millenaria cultura europea, ma smarrire le basi della sua identità. Il latino è stata la lingua dei padri della nostra civiltà, dall'antica Roma fino al cristianesimo, e difenderlo - secondo don Enrico dal Covolo della Pontificia Università Salesiana, postulatore di Giovanni Paolo I - significa difendere noi stessi da quell'appiattimento che la «cultura» della globalizzazione porta con sé, insieme «a una dolorosa perdita dell'identità propria di ciascuno. L'itinerario storico, copiosamente illustrato dall'antica letteratura cristiana latina, continua a insegnare qualche cosa di decisivo sul mistero della persona umana e sui suoi irripetibili drammi esistenziali, sul rapporto "non globalizzabile" dell'uomo con Dio, con gli altri, con il mondo circostante, sui diversi cammini dei popoli alla ricerca della loro identità». Il latino, peraltro, non è solo parte del nostro passato, ma è ancora vivo nei linguaggi delle varie discipline del sapere, per esempio ha un ruolo centrale negli studi giuridici perché, come ha detto Sandro Schipani dell'Università di Roma Tor Vergata, «corrisponde alla dinamica interna del sistema giuridico che in esso, dopo la grande opera di Giustiniano e dei suoi giuristi, quasi ciclicamente torna alla riflessione sul suo principio. E questo ritorno a riflettere sul principio non può che passare attraverso il latino del diritto romano». Ma, nonostante questo, si ripropone continuamente la domanda, soprattutto per quanto riguarda il suo studio nelle scuole: a che serve il latino, non è meglio l'inglese? Durante il convegno - cui era presente con l'altro senatore Giuseppe Valditara - ha dato una risposta Gerardo Bianco, secondo il quale «bisogna uscire dalla logica utilitaristica, che riduce la paideia all'apprendimento di nozioni utili». Non è un caso che il latino venga r iscoperto nei momenti di crisi dell'educazione, come quello che sta attraversando l'Europa. E sono per fortuna lontani gli anni Settanta, quando attorno alla presenza del latino nei curricula scolastici si combatteva una battaglia ideologica, con molti intellettuali comunisti schierati nel condannarlo «perché lo definivano reazionario, borghese, perfino fascista». Oggi sono molti ad ammettere che esso «è il filo conduttore della nostra civiltà e che, anche se non può sostituire l'inglese, non va trascurato». Il vero problema è innovare la didattica, e in questo ci sono esperienze interessanti. La professoressa Licia Landi, per esempio, da 18 anni sperimenta a Verona l'insegnamento del latino attraverso le nuove tecnologie e ha messo a punto un metodo nel quale «le tecnologie non sono un'aggiunta, ma sono realmente strumento di ricerca, che permettono di individuare i testi e di interpretarli, seguendo itinerari tematici che coinvolgono i ragazzi e che ne seguono, in qualche modo, gli interessi». In Internet, infatti, si possono trovare praticamente tutti i testi dei classici latini, ma soprattutto strumenti per interpretarli.