Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La filosofia del capitalismo e la povertà

La filosofia del capitalismo e la povertà

di Lorenzo Chialastri - 06/12/2005

Fonte: rinascita.info

 

Avevamo già parlato di come il sistema dominante sia capace di dare, nelle intenzioni e nei modi, un’interpretazione essenzialmente economicista della vita. Utilizzando propaganda e pubblicità, nei livelli rispettivi che gli sono propri, riesce a polarizzare l’uomo secondo un modello edonistico, fornendogli feticci come pseudo puntelli per un falso equilibrio. Stadi d’ansia condivisi diventano cemento per un nuovo gruppo, e sospinti da un tam-tam assordante ed inevitabile, l’uomo si rinchiude nell’insieme di cui fa parte riconoscendo i propri simili in base ai bisogni pretestuosi e artificiali prefissi.
Tutto agisce ad un alto livello di condizionamento capace di plagiare scelte e comportamenti nel profondo, ogni gruppo sociale per quanto diverso trova nel denaro e nella sua gerarchia un dogma inespugnabile. Si da luogo ad un grande gruppo sociale, che potremo chiamarlo gruppo globale, in cui tutti s’identificano riconoscendo al denaro lo strumento salvifico , una sorta di bacchetta magica per raggiungere la felicità. Ma accanto a questa dipendenza induttiva dal denaro, un’altra si fa strada a passi pesanti, un’altra che proviene da scelte politiche sbandierate in nome del progresso e della democrazia. Ad una dipendenza soggettiva dal denaro, si affianca una dipendenza oggettiva. Se alla prima possiamo imputare la paternità dell’uomo miserevole, alla seconda dobbiamo riconoscergli la crescita della povertà.
In nome della dinamicità del sistema capitalista, si sono minati legami stabili di reciprocità, s’instaura un principio di provvisorietà che trova un paravento di tranquillità solo nel denaro. Tutto diventa provvisorio, perituro, sostituibile e scambievole. Relazioni profonde ti tipo amicale, familiare, lavorativo, instaurate in gruppi stabili un tempo, vengono a mancare. La società moderna interrompe quel filo di tranquillità sociale, a vantaggio di pseudo gruppi sociali instabili. Santificazione del gruppo effimero e superficiale, capace all’occorrenza di dirottare nel gruppo globale, ma incapace singolarmente di dare serenità, proprio perché trovano solo nel danaro il postulato fondante. Ecco quindi che persino, innocui, spontanei, servizi che il gruppo garantiva in precedenza, ora non esistono più o sono più spesso monetizzati.
Se la costruzione dello stato moderno aveva di per sé avuto responsabilità nella rottura di legami stabili, dovendone imporre dei nuovi fondanti, nel tempo si era provveduto alla costruzione d’istituti capaci di mediare, armonizzare, almeno nelle intenzioni, i problemi causati, nasce così lo Stato Sociale.
Ultimo sforzo, in nome della libertà e del bilancio economico, è l’abbattimento di questa struttura.
La disintegrazione sociale è completa: lo è nel gruppo sociale, nella famiglia, lo è nelle istituzioni, tutto è rapportato ad un gelido rapporto amministrativo. Principi solidaristici, di mutua assistenza, spirano lasciando posto a relazioni retribuite. Dall’assistenza ai minori, all’istruzione, alla sanità, allo sport, tutto rientra in una sorta d’azienda privata che persegue l’utile, pertanto ne paghiamo il servizio.
Così facendo al di là delle nostre personali tendenze a seguire la moda, tutti abbiamo più bisogno di soldi rispetto a ieri.
Il gruppo d’appartenenza è sempre meno comunità, e sempre più somma algebrica d’individui incapaci di soddisfazioni naturali, se non poi ricercando queste in qualche desiderio a pagamento. Si pensi, ad esempio, che sta per essere sperimentata negli Stati Uniti, in una catena di grandi centri commerciali, delle piccole cellette, stanzette colorate o altro, dove la gente fa la fila, per andarci a dormire, pure per dormire bisogna pagare, che ingegno questi americani.
Lo scopo è raggiunto, e il deserto umano garantito. Istigazione all’egoismo per il gusto consumistico o per la sopravvivenza, con una catena senza fine di situazioni di degrado morale, solitudine sociale e povertà, giù fino all’abbrutimento umano che non ha precedenti nella storia sia come qualità rovesciata che come portata.
Ma questa cosa che ha investito noi partecipi “fortunati” al banchetto di questa società grassa del super colesterolo, riguarda solo noi commensali o no? La risposta è banale, ingenuo è non accorgerci che nel tempo e nello spazio, in modi diversi, riguarda tutti, ma proprio tutti, persino quelli che uomini non sono e che ignari conducono la loro esistenza animale in qualche sperduta foresta ecuadoriana o nella pampas argentina.
L’estinzione del bisonte delle praterie, agli inizi del secolo ventesimo, per la costruzione delle ferrovie, portò alla fame gli “indiani d’America”; il resto, in modo ancor più disastroso e spietato, lo fece l’uomo bianco con la cavalleria e le armi batteriologiche e chimiche d’allora, vaiolo e alcool. Ora, grandi, “nuove ferrovie” sono in costruzione nel mondo, e lo stesso uomo ha nuovi appetiti, nuove frontiere da raggiungere e conquistare, per imporre il suo impero.
L’armata che si muove con l’iper liberismo nei confronti del terzo mondo, ha pretese differenti dei precedenti colonizzatori. Se il colonizzatore classico si limitava, per così dire, a spogliare di materie prime le terre degli “indigeni”, o a farli schiavi in altri casi, questi, i colonizzatori, non aveva né interesse né intenzione ad interferire direttamente nella loro struttura sociale, sè non in modo marginale o per causa indiretta. I rapporti comunque erano sempre molto espliciti e crudi, producendo nelle regioni colonizzate un sentimento altrettanto esplicito, che in molti casi rafforzava orgogli etnici e indipendentisti.
La “filosofia del capitalismo” ha invece una capacità nuova, una caratteristica pestilenziale di farsi assaporare ed infettare, è autoreferenziale, e si proclama civiltà del progresso. Di fronte ad essa comunità e popoli si sgretolano, ammirandone il repertorio tecnologico stupefacente, nutrono spesso, non sempre per fortuna, un senso di inadeguatezza temporale che li porta a rinnegare se stessi a vantaggio del “salvatore”, e bisogna farlo al più presto, adeguarsi ai tempi il prima possibile, per non perdere altro tempo ancora, come se fosse un onta il non essere come loro. I resistenti guardati prima con stupore, sono poi portati alla gogna; il tutto preclude un esagerato senso d’autentico razzismo, un insensato sapore di predestinazione celeste, il riconoscimento biblico di se come “il popolo eletto”, di verità sopra alle verità, una verità indiscussa: la loro superiorità. Accettare il loro modo di vivere non è però progredire, ma esprime solo sottomissione ad un modello che si ritiene superiore, si smaschera la nostra debolezza, abbiamo accettato il rito della genuflessione, e da servi divenuti, il padrone da tali ci tratterà. L’abbraccio è mortale.
Sistemi sociali antichi, millenari, vengono a sfaldarsi, tribù, civiltà, etnie in tutti gli angoli della terra, dal Rio delle Amazzoni al Madagascar, entrano in crisi e scoprono la povertà.
In molti popoli il termine povertà era sconosciuto e spesso non trovava, nella lingua autoctona, neanche traduzione. Il ribaltamento della scala dei valori introduce il denaro al primo posto, gli altri valori, quelli ai posti subito dopo, felicità, benessere, ricchezza, sono riconducibili sempre ad esso o comunque ad esso assimilati.
Il denaro s’impone come nuova fede, come tale è l’unico a muovere le montagne, ma anche l’unico ad alterare un ecosistema in cui l’uomo, quello non civile, non occidentale, si muoveva perfettamente, e spesso in ottima salute ancor prima di aver conosciuto il dollaro. Non si sta dipingendo una società naturale come quella pensata da Rousseau, di natura bella e magnanima con uomo felice, da contrapporre al progresso, semmai bisogna chiederci cosa intendiamo per progresso, e se la nostra idea di progresso non coincide già con lo sconvolgimento complessivo della terra a vantaggio di una vantata superiorità a tutti i costi, superiorità antitetica alle differenze.
La “filosofia del capitalismo” cavalca l’uragano chiamato democrazia e progresso, e le strade che batte sono quelle di tutto il mondo, quindi i problemi che ne scaturiscono sono di carattere mondiale, come la sua pretesa di villaggio e di dominio.
Nessuna ristrettezza nazionale o nazionalista può affrontare quest’enorme titano, non a lungo corso almeno. Il problema è universale, e universalmente va risolto. Lo sconquasso dei flussi immigratori, conseguenza naturale del suo divenire, spoglia di risorse umane paesi, creando problemi in altri. Il problema riguarda gli europei e il terzo mondo e chiunque respira su questo pianeta.
Aveva ragione Gianni Benvenuti: <Gli adolescenti che d’inverno abitano le fognature di Bucarest, o i bambini che battono le strade di Rio, per rubare, o quelli di Bangkok per prostituirsi, mostrano a chiunque voglia capire che la dittatura del danaro non conosce limiti; non ha più freni ed ostacoli.
Il comunismo, d’accordo, oltre il muro di Berlino, i bambini se li mangiava. Il capitalismo si limita a venderli, a sfruttarli, a violentarli>>.
La globalizzazione ha avuto come conseguenza l’aumento della povertà nel mondo, avendo i suoi sostenitori appetiti mondiali. Tutti viviamo sotto lo stesso tallone, con unica differenza che una grande maggioranza vive in uno stato d’indigenza che arriva fino alla morte per fame, il resto del mondo, servo dello stesso padrone, vive in uno stato di semi ipnosi soffocato spesso dalle sue stesse miserie umane.
Gli affamati del mondo che arrivano nel sospirato, creduto Eldorado, sono soltanto la minima parte di quelli che muoiono o che presto, a milioni, sempre più agguerriti, e disperati premeranno alle frontiere.
La piccola staffetta multietnica colorata che presidia piazze e stazioni, trova per oggi in modo contenuto una qualche forma di vivibilità, un domani non lontano, rafforzati nei numeri, delusi dal paese della cuccagna, per una promessa non mantenuta, la rabbia potrebbe trasformarsi in vendetta e scontro sociale.
Così scriveva Eva Duarte, quando già i suoi descamisados o le cebecitas negras, la chiamavano Evita:
<< Ricordo nitidamente l’infinita tristezza provata nello scoprire che nel mondo c’erano i poveri e i ricchi, e la cosa strana è che non mi addolorava tanto l’esistenza dei poveri, quando il fatto di sapere che, al tempo stesso, esistevano i ricchi>>.
Non le organizzazioni non governative, non le onlus, o quelle associazioni caritatévoli, riusciranno a salvarci, perché quando non goccia nel deserto, troppo spesso si muovono in modo complementare o funzionale al sistema.
Sembra quasi una battuta, ma non lo è, nella “giornata mondiale del bambino”, la struttura alimentare multinazionale, Mc Donald’s, ha ceduto un euro per ogni Big Mac consumato.
Non umiliare chi ha bisogno, non la “politica dei cerotti”, dopo averli bombardati al fosforo, non la sindrome da centro d’accoglienza a tutti i costi, per poi farli perdere nel buco nero dell’illegalità.
<<..Rigorosamente Giustizia. Perché, per me, l’elemosina è sempre stato un piacere dei ricchi: l’inumano piacere di eccitare il desiderio dei poveri per lasciarlo sempre insoddisfatto. E perché l’elemosina fosse ancora più miserabile e crudele, hanno inventato la beneficenza e così hanno aggiunto al potere perverso dell’elemosina quello di divertirsi allegramente con il pretesto della fame dei poveri. L’elemosina e la beneficenza, per me, sono un’ostentazione della ricchezza e di potere per umiliare i poveri>>, cosi scriveva Evita.
Il problema della povertà non è un problema di misericordia, ma di giustizia, di giustizia nel mondo, e necessita, pertanto, una soluzione politica universale, che non potrà che essere diametralmente opposta alla filosofia del capitalismo.
Si è calcolato che nei prossimi anni moriranno in Africa milioni di persone, compresi bambini, ammalati di aids. Il costo dei farmaci è troppo elevato, ma il problema vero è che le grandi multinazionali farmaceutiche con l’aiuto della Casa Bianca, impediscono ai paesi africani di riprodurre farmaci a prezzi bassi, mantenendone quindi il monopolio con la pretesa di averli brevettati.
L’ottanta per cento delle armi in Africa è venduto dai cinque membri stabili dell’ONU, gli emissari del liberismo accarezzano, comprano, le oligarchie locali del terzo mondo per poter esercitare liberamente.
Scrive Maurizio Blondet: <Ma lo stesso può dirsi, in varia misura, degli altri produttori africani: in ordine d’importanza dopo la Nigeria, sono l’Algeria, la Libia, l’Egitto e l’Angola. Ho visitato l’Angola: ho visto la popolazione locale, esausta dopo decenni di guerra civile, marciare affamata fra cumuli di spazzature alle porte degli alberghi più cari del mondo, e sotto i muri dei compound fortificati americani. Perché gli americani sono lì in forza. I loro petrolieri succhiano freneticamente il petrolio angolano, al riparo delle fortificazioni, delle loro security guards. Possono infischiarsene di come muore la popolazione. E’ una golden opportunità: in Angola un vero governo non c’è, nessuno disturba il saccheggio delle risorse nazionali, nessuno chiede conto della brutale indifferenza americana verso quei neri fra la spazzatura. Lì non c’è aiuto umanitario, non c’è finzione di democrazia>>.
Lo scenario descritto è quello di un paese tipo A, come classificato da John Kleeves, in cui gli americani possono esercitare liberamente la loro “quinta libertà”, come descritta da Noam Chomsky, il risultato è senza parole.
In america latina, negli anni ottanta, intere nazioni sono state trasformate in immense piantagioni o in enormi allevamenti per interessi unici degli Stati Uniti, così che mentre le statistiche dimostravano la crescita economica del centro America, tra la popolazione aumentava solo la fame e la miseria. Il grande aumento dell’allevamento di manzo, che significò distruzione per le colture tradizionali, corrispose ad una forte diminuzione pro capite di consumo di carne per la popolazione, e un bel guadagno per i signori della “dottrina Monroe”.
Così come la filosofia del capitalismo è nemica dell’uomo integrale, volendo proporre il modello atomizzato, allo stesso tempo ancor più rabbiosamente sarà nemica giurata del “cono sociale”, intendendo per cono sociale il cono cui vertice vede l’uomo, e poi, partendo da questo, via via si apre in gruppi sociali, comunità, popoli, nazioni e istituzioni libere.
L’iper liberismo è contronatura, è contro l’uomo e le sue relazioni, contro i popoli e contro le istituzioni che si danno nel loro interesse, tutti lega al denaro, i primi alle banche, i secondi ai fondi internazionali (FMI). Tutti hanno debito, tutti abbiamo debiti, privati o pubblici.
Quando le Banche Centrali aumentano il tasso d’usura, altrimenti detto d’interesse, lo fanno in modo arbitrario, arbitrario nel senso che non v’è nessun controllo, per così dire, democratico, o se preferite pubblico, che possa fermare la crescita. D’altronde il pubblico o non c’è più, o s’è fatto privato, quindi liberamente senza ostacoli si possono mettere le mani in tasca ai cittadini, alle giovani coppie, agli Stati già indebitati, senza che a nessuno venga in mente di chiedersi la legittimità dell’atto.
Tutto diventa permesso se fatto in nome del denaro, tutto è più facile di fronte ad uno scenario fatto di disgregazione, di provvisorietà, governato da un movimento incessante schizofrenico d’uomini atomi, un incessante divenire che non ha però il carattere dello “essere”, ma piuttosto del nulla, un tramonto senza alba.
Ecco allora che ci si può lasciare senza rimpianto alle spalle resti di civiltà, di popoli, porzioni d’uomini e povertà. Su tutto il cimitero aleggia un dio cattivo e vendicativo, qualcosa da vecchio testamento, pronto a salvare i suoi figli e a punire con la potenza purificatrice del fuoco gli altri, ma anche pronto a dimostrare a tutti la sua magnanimità, Mc Donald’s, Nike, coca-cola, come manna dal cielo, ai meritevoli, e ai redenti col fil di spada.
Il consumismo e il capitalismo sono due grandi facce parallele del sistema che possiamo chiamare “prisma del capitalismo”.
Un prisma che ha per base il denaro e come coperchio il liberismo. Le due facce visibili, capitalismo e consumismo, sono ammantate dall’alone democratico, mentre nascoste stanno le altre. Basta scorgerci poco più la e accanto alla faccia del consumismo, troviamo quella dell’egoismo, e appena oltre, sta quella dell’uomo misero, non finita questa già s’intravede quella della povertà.
E’ un problema di giustizia, di giustizia prima che di pace.
A volte quasi in una visione onirica abbiamo idea dell’altra parte del prisma del capitalismo, spesso rispondiamo in modo sentimentale o pietoso, ipocrita o distratto, difficilmente ne percepiamo la responsabilità, ancor meno ricerchiamo i colpevoli, persi come siamo alla ricerca del nostro equilibrio.
Quale risposta quindi? Non è facile, si tratta di aver coraggio, di ritrovar coraggio per opporsi, opporsi con coraggio senza sconti.
Coraggio come qualità morale, di risveglio e di rinascita, coraggio nel vedere che l’orgia consumistica, lussuria e vanità smodata di consumo, oltre a dare una caratteristica amorale a noi stessi, hanno un legame non ultimo con le povertà altrui. Una possibilità ci rimane: il “cono sociale” contro il “prisma del capitalismo”.