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Iraq: oppio, coltura di guerra

di Marinella Correggia - 26/05/2007

 

 

C'era una volta un paese che produceva decine di varietà di datteri e ne era il primo esportatore mondiale. Dopo i pozzi di petrolio, era la Phoenix dactylifera - questo è il nome latino della bella palma - a riempire le casse statali e garantire un buon reddito agli agricoltori. Poi arrivò l'embargo, con la proibizione di esportare alcunché e la morte, per malattie non curate, di circa metà del patrimonio palmifero del paese. Infine arrivò l'occupazione americana e il caos.
E adesso, l'Iraq sembra orientarsi altrove. Secondo quanto riferisce un inquietante reportage del quotidiano britannico The Independent, gli agricoltori dell'Iraq del Sud hanno iniziato a coltivare oppio nei loro campi. È la prima volta. L'Iraq diventerà un grosso produttore di droga, seguendo le orme dell'Afghanistan? Lungo il fiume Eufrate, nella zona di Diwaniya, provincia di Qaddashiya, i coltivatori stanno passando dal riso - quello dell'area è rinomato - ai papaveri da oppio. Un fenomeno agli inizi, che il governo non può controllare perché milizie sciite rivali e settori conniventi delle forze di sicurezza controllano Diwaniya e le zone rurali circostanti; e sono loro a organizzare la nuova coltura.
Pur interessate da un clima atroce, caldissimo e umido, le terre che rischiano di passare all'oppio sono fertili e ben irrigate; si trovano a ovest e sud di Diwaniya, intorno alle città di Ash Shamiyah, al Ghammas e Ash Shinafiyah. Nemmeno la temeraria stampa anglosassone si spinge in quelle aree ma le fonti del reporter, che scrive da Baghdad, sembrano serie.
Come funziona? In passato e a lungo, i contrabbandieri di droga hanno usato l'Iraq come punto di transito per l'eroina, ricavata dall'oppio in laboratori in Afghanistan, inviata attraverso Iran e Iraq (le lunghe frontiere di questi paesi sono difficili da controllare) ai ricchi mercati di consumo dell'Arabia Saudita e del Golfo. Ma il paese non era mai arrivato a piantare oppio; del resto i consumi di eroina o altre droghe non sono mai stati rilevanti in Iraq. La «novità» dà la misura del grado di violenza e caos imperante anche nell'Iraq del Sud. Gli agricoltori dell'area non hanno certo fatto di testa loro; l'organizzazione della novità è nelle mani e nelle armi delle gang che controllano la zona, e che hanno visto l'affare. Poiché l'oppio garantisce ricavi ben maggiori di quelli del riso (anche se a chi coltiva va una piccolissima fetta del business), è probabile che i contadini iracheni, ridotti allo stremo anch'essi, passino in massa alla nuova coltura.
Ne sono passati di millenni da quando, sin dal 3.400 a.C., l'oppio era coltivato - non per l'eroina - dagli antichi sumeri. I più antichi riferimenti scritti circa questa coltura si trovano su tavolette di argilla trovate fra le rovine della città di Nippur, a est di Diwaniya. I sumeri lo chiamavano «pianta della gioia». La storia della sua coltivazione negli ultimi decenni lo classifica piuttosto come «pianta della guerra». In quell'area dell'Iraq, la violenza contrappone partiti e milizie rivali sciite, soprattutto l'esercito del Mahdi di Muqtada al-Sadr e la Badr, braccio armato del recentemente ribattezzato Supermo consiglio iracheno islamico. Che in molte aree controlla le forze di sicurezza ufficiali, le «colonizza». Le milizie sono le vincitrici, nel nuovo Iraq.
Nel sud dell'Iraq la violenza fra milizie si esercita essenzialmente per il controllo delle risorse e per il radicamento del potere. Pare che la violenza a Diwaniya, sia stata scatenata proprio dalla necessità di assumere il controllo della produzione di oppio. Lo stesso meccanismo, dunque, che regge la principale esportazione afghana: l'assenza di controllo statale permette l'espandersi di bande criminali, contrabbandieri e produzione. La differenza è che l'Afghanistan ha una lunga storia con l'oppio - salvo una breve interruzione sotto i talebani, con subitanea ripresa non appena iniziarono i bombardamenti Usa. Morale della favola: arriva l'esercito statunitense, e prospera la droga.