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Perchè gli Usa vogliono un conflitto con l'Iran

di Franco Fracassi - 28/05/2007

Fonte: editoririuniti

Forse non sarà una bomba nucleare l'arma di distruzione di massa che metterà in pericolo gli Stati Uniti. Nonostante l'Amministrazione Bush, dall'11 settembre 2001, stia dando la caccia a vere o presunte armi atomiche, chimiche o biologiche, il vero pericolo, l'arma totale, potrebbe non avere l'aspetto di una bomba.
Secondo alcuni analisti potrebbe ripetersi, sotto nuove forme, uno scenario già visto. Era l'ottobre del 2000 e in America era in dirittura d'arrivo la campagna elettorale; la minaccia terroristica di Al Qaida era ancora remota e la minaccia militare irachena era stata resa inoffensiva da una guerra e da nove anni di embargo.
Eppure qualcosa di estremamente minaccioso per Washington quell'ottobre del 2000 accadde. L'allora presidente iracheno Saddam Hussein dichiarò di voler essere pagato, per il suo petrolio, in euro anziché in dollari.
All'inizio, la sua richiesta fu sottovalutata, e accolta con sufficienza. Solo quando apparve chiaro che Saddam stava facendo sul serio l'Amministrazione Usa cominciò a prendere in considerazione la possibilità di un'azione punitiva. Venne cosí decisa dalla Casa Bianca la strategia della «Shock-and-Awe», ovvero la strategia militare «colpisci e terrorizza». Come hanno dimostrato gli avvenimenti degli ultimi tre anni, la decisione di attaccare l'Iraq aveva poco a che vedere con gli armamenti nucleari di Saddam, o con la difesa dei diritti umani, o col desiderio di diffondere la democrazia. Al di là anche dell'ovvio obbiettivo Usa del controllo sulle fonti del petrolio, è emersa un'altra non secondaria motivazione della guerra: si trattava di salvaguardare il dollaro e, con esso, il sogno americano. Si trattava - secondo questa tesi - di dare una lezione a chiunque nelle zone cruciali del mondo pretendesse il pagamento in valute diverse dal dollaro statunitense.
 
 
 
L'apocalisse
 
Immaginiamo l'America tra due anni, dopo cioè che l'Iran avrà aperto una propria Borsa del petrolio, come annunciato piú volte da Teheran.
Una simulazione del genere, come rivelato dal New York Times, è stata già fatta dalla Federal Reserve, la Banca centrale statunitense. A Washington sono coscienti della fragilità dell'economia Usa e si stanno preparando al peggio: a una probabile, devastante iperinflazione che potrebbe portare a un crollo di Wall Street degno di quello del '29.
La Borsa del petrolio è un luogo in cui si acquistano gli stock di greggio: una sorta di mercati generali dell'oro nero. Al momento ne esistono due: una a New York e l'altra a Londra. È li che si mercanteggia la principale risorsa economica mondiale, sia essa proveniente dalla Nigeria, dalla Russia o dal Venezuela, sia essa acquistata dall'Australia oppure dall'Italia. Il prezzo di un barile di petrolio si fa a New York o a Londra, e si fa in dollari americani.
Questo costringe le banche centrali mondiali a mantenere grosse riserve di dollari anche con un biglietto verde appesantito da un debito di 6 mila miliardi di euro e con l'Amministrazione Bush che ha dichiarato di continuare nella sua politica di indebitamento rendendo permanenti i tagli alle tasse.
Il monopolio del dollaro americano, come valuta mondiale di riserva, segue perfettamente lo schema piramidale di una catena di Sant'Antonio. Dal momento che le altre nazioni sono obbligate a comprare dollari per potersi approvvigionare di petrolio, gli Usa possono continuare nella loro politica di indebitamento senza pagare pegno. Attualmente il dollaro rappresenta il 68% dell'ammontare complessivo delle riserve mondiali, contro il 51% di appena una decina di anni fa.
Il grande vantaggio di controllare la moneta mondiale di riserva consiste nel fatto che, se tutto va male, il Tesoro americano può pagare le proprie importazioni di petrolio semplicemente stampando piú carta moneta.

La principale minaccia a questa strategia è la prospettiva della concorrenza rappresentata da una terza Borsa mondiale indipendente, che costringerebbe il già pericolante dollaro a confrontarsi faccia a faccia con una valuta di riserva piú stabile (e senza grossi debiti) come l'euro. Questa situazione consentirebbe alle banche centrali di diversificare le loro riserve rimandando in America miliardi di dollari con l'effetto di provocare un devastante ciclo di iperinflazione.
E adesso c'è l'Iran che vuole aprire una terza piazza di scambio. E la vuole aprire non in dollari Usa, bensí in euro.
L'Iran potrebbe tranquillamente istituire una Borsa petrolifera basandosi solo sul suo petrolio e su quello dell'alleato Venezuela. Secondo il Financial Times, il Venezuela ha chiesto all'Iran di aiutarlo a spostare le sue vendite verso il mercato cinese, sottraendolo agli Stati Uniti. L'Iran sarebbe anche in grado di influenzare con discrezione alcuni dei suoi maggiori partner nel commercio di petrolio e gas, come Cina e India, affinché partecipino attivamente all'attività della Borsa.
La Borsa petrolifera iraniana sarà totalmente informatizzata, e non richiederà dunque la costante presenza di operatori finanziari internazionali a Teheran. Hossein Talchi, il direttore della Borsa, ha dichiarato che «la maggior parte degli affari verrà conclusa attraverso Internet». Ciò sarà possibile grazie all'aiuto di un consorzio di consulenti tecnici europei in possesso di una profonda conoscenza dell'industria petrolifera, e che si occuperà anche delle perizie informatiche ed economiche.
Che cosa hanno scoperto nella loro simulazione i tecnici della Fed? Hanno scoperto che una prospettiva del genere in termini economici potrebbe costituire una minaccia all'egemonia del dollaro ben piú grande rispetto a quella rappresentata da Saddam, da Al Qaida o da qualsiasi altra organizzazione in possesso di vere o presunte armi di distruzione di massa. Secondo gli analisti di Washington in tal modo si consentirà a chiunque lo desideri di poter comprare o vendere il petrolio in euro, aggirando cosí del tutto il dollaro statunitense. Se ciò accadesse, allora è probabile, ritiene il rapporto citato dal New York Times, che molti nel mondo saranno desiderosi di adottare il sistema petrolio-euro.
In questa prospettiva, gli europei non dovranno piú comprare e conservare dollari al fine di assicurarsi la moneta di scambio per il petrolio, perché potrebbero pagarlo con la propria valuta. L'adozione dell'euro per le transazioni del petrolio fornirebbe alla valuta europea il prestigio di una autentica riserva monetaria, il che ovviamente favorirebbe le aziende europee a discapito di quelle Usa.
Quindi, in una reazione a catena che gli economisti ben conoscono, cinesi e giapponesi saranno particolarmente desiderosi di adottare il nuovo cambio, perché ciò consentirà loro di diminuire drasticamente le loro enormi riserve di dollari e di diversificarle con gli euro, proteggendosi in tal modo dalla svalutazione del dollaro. Una parte di questi dollari continuerà a essere da loro conservata, mentre essi potrebbero benissimo decidere di cestinare una seconda parte delle proprie riserve di moneta Usa e poi utilizzarne una terza parte per i futuri pagamenti senza reintegrare le proprie riserve, ma accumulando riserve di euro. Poi ci sono i russi, che hanno ovvi interessi economici nell'adozione dell'euro, visto che la maggior parte dei loro affari commerciali avviene con i paesi europei, con i paesi esportatori di petrolio, con la Cina e con il Giappone.
Secondo la Fed, l'adozione dell'euro privilegerebbe da subito Europa e paesi produttori di petrolio, e col tempo faciliterebbe il commercio con Cina e Giappone. A quanto risulta a Washington, i russi detestano conservare i dollari che si stanno deprezzando. I russi hanno anche rispolverato il nazionalismo, e se abbracciare l'euro significherà sferrare un colpo all'America, lo faranno con piacere.
Infine, secondo il rapporto, i paesi arabi esportatori di petrolio adotteranno con entusiasmo l'euro come mezzo per diversificare i propri investimenti al posto delle montagne crescenti di dollari svalutati. Proprio come i russi, i loro affari commerciali sono principalmente con i paesi europei, e quindi preferiranno la valuta europea sia per la sua stabilità sia per evitare il rischio valuta. (...)
 
Effetto domino
 
Alle stesse conclusioni sono pervenuti anche gli analisti della destra Usa. Il saggio di Alan Peter, La minaccia dei Mullah non è infondata, presenta le stesse preoccupate (e per certi versi apocalittiche) conclusioni a proposito dei pericoli di una Borsa petrolifera iraniana: «Un monte di dollari in possesso delle Banche centrali e dei leader asiatici, in aggiunta ai ridotti tassi di interesse offerti agli investitori da parte degli Usa, ha messo il dollaro in pericolo... un dito nervoso sul grilletto del mercato dei cambi può colpire e abbattere il dollaro anche senza nessuna cattiva intenzione. Le stime piú diffuse ritengono che il dollaro possa scendere a livelli terra-terra con una rapida perdita di almeno il 50%, tenuto conto della sua supervalutazione attuale del 40%». L'erosione di valore del biglietto verde era stata prevista dall'ex direttore della Fed Paul Volcker il quale aveva detto che «vi è il 75% di probabilità che il dollaro crolli entro i prossimi cinque anni».
E ancora, portando alle estreme conseguenze il terrificante fanta-scenario: «Con le economie mondiali strettamente interconnesse e interdipendentí, una depressione mondiale, non solo americana, avrebbe un effetto domino che provocherebbe la povertà in tutto il mondo. I mercati necessari alle merci americane, ora disponibili a costi bassissimi, non si potrebbero piú materializzare. Il risultato, secondo stime dello Sme, potrebbe essere la disoccupazione di 200 milioni di americani con la gente che muore di fame per le strade mentre niente e nessuno li può aiutare, a differenza della Grande depressione del 1920/30 quando venivano fornite minestre calde e aiuti ai poveri».
Liberali o conservatori, le analisi sembrano coincidere: se non riuscirà a fronteggiare o a neutralizzare il potenziale catastrofico della Borsa iraniana, l'America dovrà affrontare serie conseguenze interne.
Un'altra interessante analisi è quella del docente di Harvard Marty Feldstein, che ha scritto sul Financial Times: «A causa delle dimensioni mostruose dell'attuale deficit commerciale e di bilancio americano, rinforzato dalla decisione di Bush di rendere permanenti i tagli alle tasse, la maggior parte del mondo finanziario odierno è in attesa di un'altra, simile, svalutazione del dollaro. Sulla base delle svalutazioni 1985-'87 degli accordi Louvre and Plaza, il dollaro dovrebbe essere svalutato del 40% e anche piú».
Il piano quinquennale di Teheran prevede che la Borsa si apra entro il 2006. Il Teheran Times del 26 luglio 2005 ha riferito che è stata concessa l'autorizzazione finale. Mohammad Javad Asemipour, il tecnocrate ed ex ministro del Petrolio che è stato incaricato di avviare la Borsa, ha effettuato una serie di discreti viaggi esplorativi a Londra, Francoforte, Mosca e Parigi.
Alla fine il governo iraniano - progettando la nuova Borsa petrolifera-potrebbe dunque, paradossalmente, aver preparato la piú potente delle armi nucleari, in grado di minare alla radice il sistema finanziario che puntella l'impero economico americano.
 
 
Da ”La bomba di Allah” di Franco Fracassi – Editori Riuniti, 2006