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I testi scolastici destinati agli studenti israeliani: una questione di razza

di Nurit Peled - 28/05/2007

 
Nurit Peled, professoressa ebrea israeliana, in un viaggio a Siena dell'anno scorso, parla di come i testi scolastici destinati agli studenti israeliani, contengano messaggi razzisti, tesi a perpetuare l'odio e preparare per il futuro umani che saranno macchine da guerra

Vorrei dedicare queste parole alla memoria dei bambini palestinesi assassinati giorno dopo giorno, a sangue freddo, non in seguito a errori umani ne’ a causa di errori della tecnologia - come ci spiegano nei media - ma conformemente alle procedure. Questi bambini del cui assassinio metodico e di routine nessuno e’ mai stato giudicato colpevole.
Vorrei dedicare queste parole alle madri di questi bambini assassinati, a loro che continuano a mettere al mondo figli e a fondare famiglie, che si affrettano a preparare panini vedendo i bulldozer avvicinarsi per distruggere le loro case, che accompagnano ogni giorno i bambini a scuola attraverso chilometri di distruzione e immondizie, davanti ai fucili puntati da soldati apatici; loro che sanno che questi soldati, assassini dei loro figli, non saranno mai portati davanti ad un tribunale e che, se anche accadesse, non sarebbero mai giudicati colpevoli, perché l’uccisione di bambini palestinesi non e’ un crimine nello stato di Israele, ebraico e democratico.
Infine vorrei dedicare queste parole alla memoria dello scrittore e poeta, il professor Izzat Ghazzawi, con cui ho avuto l’onore di condividere il Premio Sakharov per i diritti umani e la libertà di pensiero. Qualche mese prima di morire di umiliazione, egli mi scriveva a proposito dei soldati che facevano irruzione di notte a casa sua, rompendo mobili e finestre, sporcando tutto, terrorizzando i bambini, “mi sembra che cerchino di far tacere la mia voce”. Izzat Ghazzawi mi ha chiesto di rivolgermi al Ministero degli Esteri per chiedere loro di correggere l’errore. Ma il suo cuore conosceva la verità ed ha cessato di battere poco tempo dopo.



Questa crudeltà che non si esprime a parole, questo modo organizzato, meditato, di maltrattare le persone, che i migliori cervelli israeliani oggi sono impegnati a pianificare e perfezionare, tutto ciò non e’ nato dal nulla. E’ il frutto di un’educazione fondamentale, intensiva, generale. I figli di Israele sono educati in un discorso razzista senza mezze misure.

Un discorso razzista che non si ferma ai check-point ma regola tutti i rapporti umani in questo paese. I figli di Israele sono educati in modo che considerino il male che, dalla fine dei loro studi, dovranno far passare da virtuale a concreto, come qualcosa di imposto dalla realtà nella quale sono chiamati a lavorare. I figli di Israele sono educati in modo che considerino le risoluzioni internazionali, le leggi e i comandamenti umani e divini, come parole vuote che non si applicano a noi. I figli di Israele non sanno che c’e’ un’occupazione.

Si parla loro di “popolamento”. Sulle carte dei manuali di geografia, i Territori occupati sono rappresentati come facenti parte di Israele o sono lasciati bianchi e indicati come “zone sprovviste di dati”, detto in altri termini, zone disabitate.
Nessun libro di geografia nello stato d’Israele offre delle carte con le frontiere dello stato, perché i figli d’Israele imparano che la vera entità geografica che ci appartiene, e’ l’entità’ mitica chiamata Terra d’Israele e che lo stato d’Israele ne e’ una piccola parte provvisoria.

I figli d’Israele imparano che nel loro paese ci sono ebrei e non-ebrei: un settore ebraico e un settore non-ebraico, un’agricoltura ebraica e un’agricoltura non-ebraica, delle città ebraiche e delle città non-ebraiche. Chi sono questi non-ebrei, cosa fanno? Che aspetto hanno? E’ importante? Quando non sono chiamati non-ebrei, tutti questi altri che sono
presenti nel paese, sono chiamati globalmente: “arabi”.

Per esempio, nel libro “Israele, l’uomo e lo spazio” (edito dal Centro per la Tecnologia dell’Educazione, 2002), si può leggere a pagina 12: “La popolazione araba […] All’interno di questo gruppo di popolazione, ci sono credenti di differenti religioni e di gruppi etnici diversi: musulmani, cristiani, drusi, beduini e circassi, ma poiché la maggior parte di loro e’
costituita da arabi, d’ora in poi noi daremo a questo gruppo il nome di arabi o di popolazione araba”.

Nello stesso libro, i palestinesi sono chiamati “lavoratori stranieri” e le loro vergognose condizioni di sussistenza sono, dice il libro, “caratteristiche dei paesi sottosviluppati”. I palestinesi, che siano cittadini di Israele o che vivano nei Territori occupati, non sono
presentati in nessun testo scolastico come persone moderne, di città, occupate in lavori produttivi o prestigiosi o in attività positive. Essi non hanno volto. Sono rappresentati da immagini stereotipate: gli arabi cittadini di Israele, a cui si da’ l’appellativo sminuente di “arabi israeliani”, sono rappresentati sia da caricature razziste dell’arabo versione “Mille e una notte”, con baffi e kefia, scarpe a punta da clown e un cammello al seguito (Geografia della terra d’Israele, 2002), sia dalla foto razzista tipica della rappresentazione del terzo mondo in occidente - il contadino pre-tecnologico, che cammina dietro un aratro primitivo tirato da un paio di buoi (Le persone e lo spazio, 1998).

I palestinesi che abitano nei Territori sono rappresentati da foto di terroristi mascherati (Il ventesimo secolo / Tempi moderni II) o da branchi di rifugiati che vagano scalzi senza meta, con delle valigie sulla testa (Viaggio verso il passato, 2001). Questi stereotipi nei manuali scolastici sono definiti “incubo demografico”, “minaccia alla sicurezza”, “peso per lo sviluppo” o “problema che deve trovare una soluzione”.

Benché le zone palestinesi non siano indicate sulle carte, l’Autorità’ Palestinese e’ un nemico. Per esempio, nel libro “Geografia della terra d’Israele”, del 2002, si trova un sottocapitolo intitolato “L’Autorità’ Palestinese ruba l’acqua ad Israele a Ramallah”. Ma soprattutto il razzismo riesce ad esprimersi in libri ritenuti non razzisti e che forse ignorano il discorso razzista che trasmettono.

Testi qualificati da alcuni ricercatori come “progressisti, audaci, politicamente corretti”, testi volti alla “verità storica” e alla pace. Per esempio: Il ventesimo secolo, di Elie Barnavi, pagina 244: “Capitolo 32: i Palestinesi, da rifugiati a una nazione. Questo capitolo esamina lo sviluppo del problema palestinese […]
e gli atteggiamenti, nell’opinione pubblica israeliana, riguardo a questo problema e alla natura della sua soluzione”. Se mi si dicesse che questo titolo viene da altrove, che c’e’ da poco più di 60 anni e che invece del problema palestinese, si tratta del “problema ebraico”, io non mi sorprenderei.

Come si e’ creato questo problema? Tempi moderni II, di Elie Barnavi e Eyal Naveh, spiega: pagina 238: “E’ nella povertà, nell’inoperosità’ e nella frustrazione, in cui vivevano i rifugiati nei loro miserabili campi, che e’ maturato ‘il problema palestinese”.
Cosa causa questo problema? Pagina 239: “Il problema palestinese avvelena, da oltre una generazione, le relazioni di Israele con il mondo arabo e con la comunità internazionale”. Secondo questo testo, l’identità’ dei palestinesi e’ fondata sul “sogno del ritorno nella terra di Israele” e non in Palestina (pagina 238: “I palestinesi… hanno fondato la loro identità sul sogno del ritorno nella terra di Israele”).
Come si e’ creato il nazionalismo palestinese? Tempi moderni II: “Col passare degli anni, l’alienazione e l’odio, la propaganda e le speranze di tornare e di vendicarsi hanno fatto dei rifugiati una nazione […]”. Il libro spiega anche che la presenza dei palestinesi tra noi può “trasformare il sogno sionista in incubo versione Sudafrica” (Il ventesimo secolo, pagina 249).

Queste affermazioni sono state scritte dopo la vittoria di Nelson Mandela, ma il libro identifica di fatto gli ebrei dello stato d’Israele con i bianchi del Sudafrica per i quali la popolazione indigena e’ un incubo. L’assassinio di palestinesi da parte degli israeliani ha sempre ripercussioni positive, secondo questi testi pedagogici: Tempi moderni, Elie
Barnavi e Eyal Naveh, pagina 228: “Il massacro di Deir Yassin in effetti non ha inaugurato la fuga di massa degli arabi dal paese, che era iniziata prima, ma l’annuncio del massacro l’ha fortemente accelerata”. “Inaugurato” e’ una parola di festa. E subito dopo a pagina 230: “La fuga degli arabi ha risolto, almeno in parte, un terrificante problema demografico, e persino un moderato come Haim Weizman ha parlato a questo proposito di ‘miracolo’”.

E’ così che i figli d’Israele imparano che e’ un paese senza arabi – la realizzazione dell’ideale sionista. Imparano che uccidere palestinesi, distruggere le loro terre, assassinare i loro figli non e’ un crimine, al contrario: tutto il mondo illuminato ha paura del ventre musulmano ed ogni partito al potere che vuol vincere le elezioni e dimostrare il suo impegno per il sionismo o la democrazia o il progresso, fa la sorpresa, alla vigilia delle elezioni, di un’operazione dimostrativa di uccisione di palestinesi.

E ciò a dispetto del fatto che le scuole ebraiche nello stato d’Israele siano piene di slogan che dicono “di amare l’altro e di accettare chi e’ diverso”. Apparentemente, l’altro, colui che e’ diverso, non e’ chi vive nell’ambiente dove viviamo noi.

I figli d’Israele ne sanno di più sull’Europa - patria della fantasia e ideale dei dirigenti del paese - che sul Medio Oriente dove vivono e che e’ il focolare originario di più della metà della popolazione israeliana. I bambini ebrei, nello stato d’Israele, sono educati a dei valori umani di cui non vedono nessuna concretizzazione attorno a loro. Al contrario. Dappertutto assistono alla violazione di questi valori. Una studentessa che si definiva come “un’abitante di Tel Aviv, favorita, appartenente alla classe media”, testimonia così di questa confusione quando si meravigliava del fatto che “dei soldati del mio popolo, che mi proteggono e vogliono la mia sicurezza” maltrattano, senza battere ciglio, un padre palestinese e suo figlio (”Haaretz”, 13 marzo 2006). In questo contesto, l’espressione “dei
soldati del mio popolo, che mi proteggono e vogliono la mia sicurezza” e’ quel che esprime meglio l’ideologia dei razzisti: maltrattare l’altro e’ interpretato come difesa di quelli della nostra parte. Questa violenza fatta all’altro e’ quel che ci definisce e crea una solidarietà: noi li maltrattiamo, segno che siamo un popolo unito, e tutti responsabili gli uni degli altri.

Chi sono questi che lei dice “del mio popolo”? La parola “popolo”, come la parola “noi”, e’ una delle parole più pesanti che ci siano. E’ una parola che si presenta come se non lasciasse scelta, come un colpo del destino, un fatto naturale. La morte ci ha obbligato, la mia famiglia ed io, a scrutare questa parola in profondità.
Quando, qualche anno fa, una giornalista mi ha chiesto come potevo accogliere parole di consolazione provenienti dall’altra parte, io le ho immediatamente risposto che non ero pronta ad accogliere parole di consolazione proveniente dall’altra parte; la prova: quando Ehud Olmert, il sindaco di Gerusalemme, e’ venuto a porgermi le sue condoglianze, sono
uscita dalla stanza ed ho rifiutato di stringergli la mano o di parlargli.
Per me, l’altra parte e’ lui e i suoi simili. E questo perché il mio “noi” per me non si definisce in termini nazionalisti o razzisti. Il mio “noi” per me e’ composto da tutti quelli che sono pronti a lottare per preservare la vita e per salvare dei figli dalla morte. Da madri e padri che non vedono una consolazione nell’omicidio dei figli degli altri.

E’ vero che là dove noi siamo, questa parte conta più palestinesi che ebrei, perché sono loro che tentano ad ogni costo - e con una forza che non mi e’ familiare ma che non posso che ammirare - di continuare a condurre un’esistenza nelle condizioni infernali che il regime dell’occupazione e la democrazia israeliana impongono loro.

Tuttavia, anche per noi, vittime ebree dell’occupazione, che cerchiamo di liberarci della cultura della forza e
della distruzione nella guerra di civiltà che si porta avanti in questi luoghi, anche per noi c’e’ posto qui.

Mio figlio Elik e’ membro di un nuovo movimento fiorito sotto il nome di “Combattenti per la pace” e i cui membri sono israeliani e palestinesi che sono stati soldati combattenti e che hanno deciso di fondare un movimento di resistenza nonviolenta all’occupazione. La mia famiglia e’ membro del Forum delle famiglie israeliane e palestinesi colpite da lutti e impegnate per la pace. Mio figlio Guy fa teatro con amici israeliani e palestinesi che si
considerano persone che vivono nello stesso luogo e che cercano di liberarsi da una vita tutta decisa, di malvagità e razzismo, che non e’ la loro.

E mio figlio più giovane Yigal fa ogni anno un campo estivo della pace dove ragazzi ebrei e ragazzi palestinesi si divertono insieme e creano legami solidi che si mantengono durante l’anno. Sono questi ragazzi il suo “noi” per lui.

E questo perché noi siamo una parte della popolazione che vive in questo luogo e perché noi crediamo che questa terra appartenga ai suoi abitanti e non a persone che vivono in Europa o in America. Noi crediamo che e’ impossibile vivere in pace senza vivere negli stessi luoghi, con chi vi abita. Che una fraternità reale non si stabilisce su criteri nazionalisti e razzisti ma su una vita comune in un determinato luogo, in un determinato
paesaggio e su sfide affrontate in comune. Che chi non supera le frontiere della razza e della religione e non si integra tra le persone del paese dove e’ nato non e’ un uomo di pace.

Purtroppo ci sono molti qui che si dicono persone di pace ma che, vedendo persone che vivono qui imprigionate in ghetti e recinti il cui scopo e’ affamarli fino alla morte, non protestano e inviano anche i loro figli a servire nell’esercito di occupazione, a fare le sentinelle sui muri del ghetto e alle sue porte.

Io non sono una donna politica ma e’ chiaro per me che i politici di oggi sono gli studenti di ieri e che i politici di domani sono gli studenti di oggi. E’ per questo che mi sembra che chi fa della pace e dell’uguaglianza il suo motto deve interessarsi all’educazione, esplorarla, criticarla, protestare contro la diffusione del razzismo nel discorso pedagogico e nel
discorso sociale, proporre delle leggi o riattivare delle leggi contro un insegnamento razzista e stabilire dei programmi alternativi dove si offra una conoscenza reale, profonda dell’altro, sbarrando ogni possibilità di uccidersi reciprocamente.

Un insegnamento del genere dovrebbe mettere davanti agli occhi le immagini delle bambine, stese con le loro uniformi scolastiche, nella sporcizia, nel sangue e nella polvere, i loro piccoli corpi crivellati dai proiettili sparati secondo le procedure, e porre, giorno dopo giorno, ora dopo ora, la domanda posta da Anna Achmatova che, anche lei, aveva perduto suo figlio in un regime assassino: “Perché questo solco di sangue strazia il fiore della tua guancia?”.

Nurit Peled-Elhanan e’ la figlia di Gal Peled, consigliere di Rabin a Oslo; nel 1994 sua figlia e’ morta in seguito ad un attentato contro un autobus a Gerusalemme; docente universitaria di Linguaggio ed educazione, e’ insegnante, traduttrice, scrittrice e madre israeliana; e’ fortemente impegnata per la pace tra Israele e Palestina; nel 2001 ha ricevuto dal Parlamento europeo il Premio Sakharov per i diritti umani.



Fonte: Hawiyya.org
Link: http://cloroalclero.blogspot.com/2007/05/sulleducazione-al-razzismo-e.html