Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Agrocombustibili: per chi, dopotutto?

Agrocombustibili: per chi, dopotutto?

di Marinella Correggia - 28/05/2007

 

 

Erano voci isolate, è divento un coro di cui terraterra da tempo trasmette l'eco: da America Latina, Africa, Asia numerosissimi movimenti, associazioni, organizzazioni agricole contestano il tentativo dei paesi maggiori consumatori di carburanti fossili di rivolgersi ai carburanti coltivati («biodiesel» e «bioetanolo») per mitigare il caos climatico senza cambiare i parametri culturali ed economici. L'Unione Europea, dopo aver annunciato a gennaio un piano che prevederebbe entro il 2020 un obbligatorio 10% di agrocarburanti sul consumo totale dei veicoli intra-Ue, ha lanciato una pubblica consultazione, aperta non solo ai governi ai diversi livelli, ma anche ad associazioni, imprese, perfino individui (tempo fino al 18 giugno:http://ec.europa.eu/energy/res/consultation/index_en.htm). Il dubbio che questa pseudosoluzione al caos climatico sia, per usare un'espressione di Jack London ne Il tallone di ferro «un cauterio su una gamba di legno» e possa aggravare il danno, evidentemente serpeggia presso gli stessi politici europei. Del resto è stato molto chiaro Günther Buck, capo del gigante Unilever (dal cibo ai detersivi) che a una recente conferenza ha parlato di crescente competizione cibo-carburanti per le terre, e ha avvertito, ovviamente seguendo la sua forma mentis, che occorrerà un'intensificazione dell'agricoltura.
Le organizzazioni ambientaliste e di solidarietà chiedono all'Ue di non imporre target obbligatori, da perseguire a ogni costo (il 10% infatti potrebbe essere raggiunto solo con massicce importazioni di materie prime ottenute in modo socialmente e ambientalmente insostenibile); non è ancora raggiunto il consenso sulla richiesta di una moratoria sugli incentivi alla produzione interna e sulle importazioni.
Le popolazioni indigene dei tre continenti hanno più volte avvertito: queste coltivazioni monocolturali su larga scala si espandono ai danni di aree forestali o agricole indispensabili per la loro sussistenza. Victoria Tauli-Corpuz, presidente del Forum permanente Onu sulle tematiche indigene, ha spiegato che le popolazioni più a rischio vivono in Indonesia e Malaysia, produttrici insieme dell'80% dell'olio di palma, usato dall'industria alimentare di tutto il mondo ma anche orami convertito in agrofuel. Potrebbero essere cinque milioni gli indigeni sloggiati dai biofuels.
Dall'Asia intanto un'interessante analisi centrata sul «quanto» degli agrocombustibili, e sul «per chi». In un editoriale per il quindicinale Down to Earth, la direttrice dell'indiano Centre for Science and Enviroment, Sunita Narain, spiega che questi non possano essere concepiti come il sostituto dei carburanti fossili; possono però fare la differenza una volta che si sarà limitato decisamente il ricorso a questi ultimi.
E allora, prima di fornire incentivi alle colture energetiche, come si fa in Europa e negli Usa, i governi dovrebbero spendere soldi per ridurre il numero di veicoli nelle strade, e dunque il relativo consumo fossile. Poi, per la quota residua di domanda, ci si potrà pensare.
In secondo luogo, dove e chi dovrebbe usare le agroenergie? Sostiene Narain che non è giusto né sostenibile che la rivoluzione del biofuel sia sfruttata dall'Occidente per nutrire le proprie automobili con le derrate delle altrui terre. Piuttosto, questa energia potrà servire nei villaggi africani o indiani: «È là che manca l'energia per cucinare, per dar luce alle case, per far funzionare le pompe o i mulini, oltre che i mezzi di trasporto», in genere collettivi. Allora, invece di sostituire la scarsità con combustibili fossili venuti da fuori, questa parte del mondo potrebbe fare il balzo dal «niente combustibile» al «nuovo combustibile». Che può essere ricavato ad esempio da piante non alimentari adatte ad aree marginali, come la jatropha. Ma allora, deve essere un modello distribuito, con milioni di piccoli coltivatori, magari a produrre prima di tutto per l'autoconsumo. Non un business da multinazionali come quello che sta crescendo.