Il mistero della sinistra
di Marino Badiale, Massimo Bontempelli - 06/12/2005
Prima Parte. Il mistero.
1. Introduzione.
Il mistero cui si allude nel titolo di questo saggio si può esprimere in maniera semplice. E’ ben noto che nelle società industriali avanzate le varie forze politiche che si contendono il potere condividono alcuni assunti fondamentali relativi all’organizzazione sociale ed economica. Qualsiasi forza politica che abbia una speranza fondata di arrivare al governo di un paese europeo accetta il primato dell’impresa, il dogma dello sviluppo economico e dell’aumento del PIL, la priorità del profitto. Detto brevemente, tutte le forze politiche significative, di destra e di sinistra, accettano le regole dell’economia capitalistica. Questa sostanziale accettazione dell’essenza economica e sociale del capitalismo lascia naturalmente poco spazio per autentiche contrapposizioni di principio fra i vari partiti. La politica non è più il luogo in cui si scontrano idee diverse sulla società e lo sviluppo, ma rappresenta semplicemente una tecnica di gestione e amministrazione della società in funzione delle necessità del mercato. Ridotti al ruolo di amministratori dell’economia del capitalismo, i ceti politici di destra e di sinistra risultano sempre più simili per quanto riguarda gli aspetti fondamentali dei rapporti economici e sociali. Tutto questo è noto e si può trovare ben descritto in libri e articoli. Non c’è fin qui nessun mistero. Il mistero inizia quando si guarda ad alcune manifestazioni della vita politica e culturale di un paese come l’Italia. La politica in quanto tale perde di importanza, diminuiscono le sue possibilità di decisione autonoma rispetto all’economia: tutto ciò dovrebbe avere come conseguenza il distacco dell’interesse collettivo dalla sfera politica, il sentire sempre più lontane e insignificanti le lotte fra i vari gruppi che si svolgono in questa sfera. Invece di questo vediamo, almeno in Italia, scontri accaniti e discussioni accese. In quello che comunemente è chiamato il “popolo di sinistra”[1] vi è la convinzione che la contrapposizione fra destra e sinistra rappresenti una contrapposizione profonda di comportamenti, di cultura, di visione del mondo. Ma come si conciliano questi sentimenti con le osservazioni che abbiamo appena fatto? Se è vero che nella sostanza le politiche delle sinistre non si differenziano granché da quelle delle destre, da dove nascono le polemiche accese e il senso di uno scontro di civiltà che ci rimandano i media e che può percepire chiunque abbia amici di sinistra?
Sono queste le domande che si pone questo scritto. Ci sembra, in questo modo, di prendere in esame tematiche che dovrebbero interessare chiunque cerchi di comprendere la realtà italiana attuale senza fermarsi alla superficie. Particolarmente interessate alle nostre analisi dovrebbero essere, a nostro avviso, tutte le persone che vivono con preoccupazione gli sviluppi del mondo contemporaneo, che sentono avvicinarsi minacciosamente una realtà di degrado ecologico, guerre, sommovimenti sociali dagli esiti imprevedibili, le persone in sostanza che hanno un atteggiamento critico verso il mondo moderno e verso quella “globalizzazione” che ne è considerata la caratteristica saliente. Molte di queste persone si definiscono “di sinistra”, altre no. Tutte avvertono probabilmente un senso di impotenza e frustrazione di fronte al carattere ineluttabile con cui i fenomeni contemporanei appaiono nella realtà, di fronte al fatto che non sembra possibile rallentare o deviare il corso della “grande macchina mondiale”. Il nostro scopo è di aiutare queste persone a vedere la realtà contemporanea con maggiore chiarezza. Ci sembra che siano proprio le persone critiche verso il mondo attuale ad avere maggior bisogno di chiarezza. Chi nuota seguendo la corrente delle mode, chi sostiene che le idee dominanti sono quelle giuste non ha molto bisogno di avere le idee chiare: gli basta essere spinto dalla corrente. Ma chi vuole nuotare controcorrente si assume un compito difficile, che diventa quasi impossibile se si porta addosso la zavorra di idee inadeguate sulla realtà.
2. Il presente come storia.
“Il presente come storia” è una bella espressione del marxista americano C.M.Sweezy. La citiamo qui perché essa indica un modo di guardare la realtà che è oggi poco diffuso e che riteniamo importante per capire davvero il nostro mondo. Leggere il presente come storia significa cercare di distaccarsi dalla ridda di immagini e parole che la superficie della realtà ci offre, non farsi accecare da sequenze di eventi, di novità, di polemiche che allo sguardo dello storico si riveleranno, anni più tardi, semplice fumo negli occhi. Significa sforzarsi di cogliere per prima cosa le dinamiche profonde che stanno dietro la luccicante superficie, e solo dopo, forti della comprensione così raggiunta, tornare all’esame dei fenomeni più appariscenti. Tentare di leggere il presente come storia comporta naturalmente uno sforzo, perché l’intero apparato mediatico contemporaneo è costruito in modo da impedire questo tipo di comprensione. Eppure non è così difficile. Basta pensare al modo in cui chiunque non sia uno storico professionista riflette su periodi storici un po’ lontani dal presente. Proviamo per esempio a pensare a quanto ognuno di noi sarebbe in grado di dire, così su due piedi e senza consultare libri, sulla storia del secondo dopoguerra nell’Europa Occidentale. E’ probabile che ben pochi saprebbero descrivere in maniera dettagliata le vicende politiche di paesi come Francia, Germania o Inghilterra (per non parlare di paesi più piccoli e meno noti come Grecia o Danimarca). Ma la maggioranza di noi sarebbe probabilmente in grado di dare indicazioni sostanzialmente corrette su quali siano state le tendenze di fondo dell’evoluzione economica e sociale europea. Saremmo cioè tutti o quasi in grado di dire che, dopo un primo periodo di ricostruzione delle fondamentali strutture economiche danneggiate dalla guerra, si è assistito negli anni Cinquanta e Sessanta a una rapida espansione economica, che ha portato per la prima volta nella storia alla diffusione del benessere in larghi strati della popolazione. Aspetti di questo benessere sono stati la crescita dei consumi e la creazione di una vasta rete di sicurezze e garanzie sociali (pensioni, sanità, scuola, diritti dei lavoratori).
Questa rappresentazione estremamente schematica della recente storia socioeconomica europea non permette, ovviamente, di ricostruire le precise, e ben distinte fra loro, vicende dei vari paesi. Rappresenta però lo sfondo interpretativo a partire dal quale si possono meglio ordinare e comprendere le singole, particolari e intricate vicende della storia di quegli anni.
Proviamo allora ad applicare al presente lo stesso sguardo che abbiamo applicato agli anni Cinquanta e Sessanta. Non c’è davvero bisogno di grande sforzo per individuare alcune delle tendenze di fondo del nostro mondo. Biblioteche intere sono state scritte sui cambiamenti che hanno segnato la storia economica e sociale dell’Europa e del mondo negli ultimi vent’anni. Alcuni dei concetti che dovrebbero descrivere tali mutamenti, come quelli di “globalizzazione” o di “post-moderno”, sono diffusi a tutti i livelli della cultura, dal raffinato saggio accademico al talk-show televisivo. Come abbiamo detto nell’introduzione, ci rivolgiamo soprattutto alle persone critiche verso tali fenomeni, e quindi assumeremo quello che ci sembra essere il loro punto di vista. Proviamo a riassumerlo: gli ultimi decenni sono stati caratterizzati, in Europa, dalla distruzione (più o meno veloce a seconda dei paesi) di quella rete di sicurezze e garanzie sociali il cui sviluppo aveva caratterizzato gli anni del dopoguerra. Tale distruzione si collega ad una dominanza sempre più forte (a livello politico, sociale, culturale) della logica del mercato, del profitto, della competizione. Questa realtà in cui l’impresa e il profitto sono divenuti i punti centrali della società produce una aggressione sempre più pesante verso l’ambiente naturale, produce crisi e disorganizzazione sociale in vaste parti del pianeta che si trovano a lottare da posizione svantaggiata dentro i meccanismi dell’economia capitalistica. Queste dinamiche economiche e sociali sono poi da collegarsi ad una realtà politica internazionale che vede il potere imperiale statunitense portare avanti un progetto di dominio globale e scatenare per questo guerre offensive in ogni angolo del pianeta.
Per sintetizzare questo giudizio complessivo sulla realtà contemporanea useremo l’espressione “totalitarismo neoliberista” che è ovviamente, ad un primo sguardo, un ossimoro, visto che il liberismo è notoriamente in contraddizione con il totalitarismo. Ci sembra però che tale espressione[2] chiarisca una aspetto decisivo della realtà contemporanea. Definiamo infatti “totalitaria” una società nella quale un ambito particolare della realtà sociale invade tutti gli altri ambiti e ne piega le logiche specifiche alla propria logica. Nei totalitarismi “classici” del Novecento (nazismo, stalinismo) era la politica l’ambito particolare che piegava alla propria logica e alle proprie necessità tutti gli altri ambiti. La realtà contemporanea ci sembra invece caratterizzata dal dominio dell’economia su ogni aspetto della realtà sociale. Ambiti diversissimi per finalità e logica interna, come la scuola o l’assistenza sanitaria, devono subordinarsi alle logiche dominanti nell’ambito economico. L’attuale mondo globalizzato è dunque, a nostro avviso, un mondo totalitario, il cui totalitarismo è basato sull’economia anziché sulla politica. Usiamo l’espressione “totalitarismo neoliberista” (o “totalitarismo neocapitalista”) per caratterizzare questa situazione.
E’ questa la visione del mondo contemporaneo che assumiamo come punto di partenza per giudicare le vicende politiche contingenti, e in particolare lo spettacolo pirotecnico del contrasto fra destra e sinistra in un paese come l’Italia.
Ci sforzeremo comunque di mostrare come, anche assumendo punti di vista diversi a proposito dell’attuale capitalismo globalizzato, la sostanza delle nostre tesi non cambi. In questo senso riteniamo di dare un contributo di chiarezza anche a chi non condivida la nostra valutazione critica della globalizzazione.
3. “Quasi un decennio di governo”.
La quarta di copertina di un recente libro di Nicola Rossi[3], consigliere economico dei governi di centrosinistra, inizia con la seguente frase: “cosa ha impedito al centrosinistra italiano di capitalizzare i suoi successi dopo quasi un decennio di governo?” Parlare di “quasi un decennio di governo” del centrosinistra può forse sorprendere chi pensi alla legislatura 1996-2001, durante la quale si sono succeduti governi di centrosinistra. Cinque anni non sono certo un decennio. Occorre però considerare anche il governo Dini, succeduto al primo governo Berlusconi nell’autunno 1994, e inoltre gli ultimi governi del periodo di Tangentopoli. Questi governi erano sostenuti da maggioranze composite, dentro le quali la sinistra era parte significativa, ed è quindi corretto considerarli governi di centrosinistra. Se questo è vero, l’Italia è stata governata dal centrosinistra ininterrottamente dal 1992 al 2001, con la sola eccezione dei sette mesi del primo governo Berlusconi nel 1994, ed è perfettamente giustificato parlare, come fa Rossi, di “quasi un decennio di governo” del centrosinistra. Ora, un decennio è un periodo di tempo significativo. Dieci anni di governo segnano la vita di una nazione. Esaminando l’azione di una forza politica che ha governato per un decennio se ne può comprendere l’autentica natura. Basti pensare ai dieci anni di governo delle forze centriste nell’Italia del dopoguerra (diciamo dal 1948 al 1958), o al decennio di Giolitti, o al decennio di Craxi. E’ proprio questo decennio di governo della sinistra che possiamo provare ad analizzare con lo sguardo che abbiamo definito del “presente come storia”. Non tenteremo un’analisi socioeconomica approfondita, ma prenderemo in esame alcuni temi che, in vari momenti, sono stati portati all’attenzione collettiva: pensioni, diritti del lavoro, guerra, scuola. Cercheremo di capire quali siano le dinamiche profonde che essi ci fanno intuire, e a partire da queste cercheremo di esaminare il tema dell’opposizione fra destra e sinistra.
a. Pensioni.
Nel ‘94 il governo Berlusconi elabora un progetto di riforma del sistema pensionistico, suscitando grandi proteste popolari che saranno uno dei motivi della sua caduta. Una riforma del sistema pensionistico viene operata dal successivo governo Dini e ripresa e approfondita poi dal governo Prodi. Il governo Berlusconi era, come è noto, un governo di centrodestra, mentre i governi Dini e Prodi erano governi di centrosinistra. Le riforme pensionistiche volute dai governi di centrosinistra non incontrano neppure l’ombra della violenta opposizione incontrata dal governo Berlusconi su questi temi. Si potrebbe allora pensare che tale radicale differenza di comportamento, da parte sia dei ceti politici di sinistra sia del “popolo di sinistra” (opposizione strenua in un caso, appoggio attivo o accettazione passiva nell’altro) sia dovuta ad una radicale differenza nei progetti di riforma in questione. E’ logico e comprensibile che contro il progetto di riforma del governo Berlusconi vi siano scioperi, mobilitazioni, manifestazioni di piazza con centinaia di migliaia di persone, mentre le stesse persone approvano poi le riforme di Dini e Prodi, se vi è qualche radicale ed essenziale differenza fra le due riforme.
Ora, non siamo esperti di tali temi, e non siamo in grado di spiegare con precisione questa differenza. Da quanto ci è sembrato di capire, si può accettare l’idea che la riforma delle pensioni del centrosinistra sia un po’ meno negativa nei confronti dei lavoratori, tolga ad essi un po’ meno rispetto a quella del centrodestra. Si tratta comunque di questioni tecniche abbastanza complicate. Per capire esattamente la differenza fra le due riforme in relazione alla propria futura pensione, ciascuno di noi dovrebbe rivolgersi ad un tecnico. Osserviamo inoltre che gli esperti economici del governo Berlusconi affermavano che la riforma proposta da tale governo, proprio perché più drastica, avrebbe liberato risorse che si sarebbero tradotte in investimenti, sviluppo e occupazione, cosicché sarebbe stato più facile per tutti provvedere alla propria pensione. In sostanza quello che si sarebbe perso da una parte in termini di pensioni si sarebbe guadagnato dall’altra in termini di sviluppo. Naturalmente gli esperti della parte opposta contestano tale tesi. Ma chi è realmente in grado di dirimere la questione?
Non approfondiamo tale punto. Notiamo però che da quanto fin qui detto si può osservare qualcosa di strano: sembra che la comprensione delle differenze effettive fra le politiche della destra e quelle della sinistra, su questo tema, sia una questione complicata riservata agli esperti. Non intendiamo dire che tale differenza non vi sia, ma essa appare legata a calcoli complicati, a stime sull’andamento dell’economia, al parere spesso non univoco degli esperti. Questa, ripetiamolo, è una situazione un po’ strana. In passato, quando vi erano lotte e mobilitazioni del tipo di quelle che abbiamo visto per la proposta Berlusconi sulle pensioni, si trattava di temi chiari a tutti: entrare nella Nato oppure no, avere lo Statuto dei Lavoratori oppure no, abrogare la legge sul divorzio oppure no, essere a favore o contro l’intervento sovietico in Ungheria o Cecoslovacchia o quello americano in Vietnam. Il fatto che sembri così difficile capire le differenze fra destra e sinistra su un tema così importante come quello delle pensioni induce a pensare che tali differenze, che indubbiamente saranno presenti, non siano però così profonde ed essenziali.
Proviamo allora a guardare il presente come storia. Cerchiamo di capire quale sia il profondo significato sociale e culturale di queste riforme delle pensioni, come esse incidano sulla mentalità collettiva, sui modi del nostro vivere e del nostro pensare. Qual è la preoccupazione vera che abbiamo avuto tutti, di fronte alle varie proposte di riforma delle pensioni? Non credo che siano stati in molti a mettersi a fare calcoli complicati per capire quale fosse più conveniente. La maggioranza avrà semplicemente pensato “comunque vada, devo farmi una pensione privata”. Il punto decisivo, per la vita di noi tutti, è allora questo: il passaggio dalla pensione garantita dallo stato, legata ai tuoi anni di lavoro e al tuo stipendio, alla pensione costruita da te con i tuoi risparmi, che nessuno garantisce ma che è affidata prima di tutto alla tua capacità di guadagnare e di risparmiare e poi alle abilità dei vari gestori, al gioco misterioso della Borsa e a cose del genere. E’ facile capire quali siano gli effetti di questo profondo cambiamento: da una parte abbiamo una crescita drammatica del senso di insicurezza, dall’altra un attacco alla solidarietà sociale. Da una parte abbiamo persone con meno diritti e meno garanzie, quindi più fragili e meno libere, dall’altra, proprio per questo, abbiamo persone meno disposte a pagare dei prezzi per mantenere un minimo di copertura sociale ai meni abbienti. Nel momento in cui tutti, a destra e a sinistra, lanciano il messaggio che lo Stato non può più fornire le garanzie cui ci eravamo abituati, e che ognuno, in sostanza, deve arrangiarsi, è chiaro che la reazione logica è la richiesta di potersi gestire i propri soldi senza pagare più contributi statali per le pensioni. Alla solidarietà con in più deboli uno ci pensa quando ha capito se se la può permettere.
Mi sembrano queste le riflessioni che le riforme delle pensioni, sia quelle ventilate dal centro-destra, sia quelle attuate dal centro-sinistra, inducono in maniera quasi necessaria. Quello che succede è dunque che un settore della vita collettiva che era sottratto alla logica del profitto viene ad essa sottomesso, producendo quindi in maniera naturale la mentalità adeguata a questa nuova realtà: insicurezza, individualismo egoistico, rottura di ogni forma di solidarietà. Siamo quindi di fronte, in maniera lampante, a grandi iniziative politiche ed economiche che spingono la società nella direzione di una sempre maggiore dominanza della logica del profitto.
Questa interpretazione emerge anche da altre considerazioni: la creazione di fondi pensione privati che cercano una redditività sui mercati accentua una situazione nella quale enormi masse di denaro circolano nell’intero pianeta condizionando i governi e gli stati nazionali. In questo modo la capacità di controllo dello stato sull’economia si riduce sempre di più, e si riducono quindi gli spazi per quella politica di redistribuzione statale del reddito che rappresentò lo strumento principale, nella fase storica del dopoguerra, per limitare le ingiustizie sociali.
Riassumendo, le varie riforme delle pensioni, di destra o di sinistra, hanno l’effetto di spingere verso una accentuazione del dominio della logica del profitto su tutta la società, di erodere la capacità dello stato di temperare le ingiustizie sociali, di aumentare l’insicurezza e l’egoismo sociali. Si tratta cioè di riforme che hanno i caratteri tipici dello sfrenato neoliberismo oggi dominante.
Alla luce di queste considerazioni appare allora facile capire perché sia così difficile cogliere le differenze essenziali fra le politiche pensionistiche della destra e della sinistra. Dal punto di vista del presente come storia, differenze essenziali non ve ne sono. Entrambi i tipi di riforma sono espressione di un profondo cambiamento in senso neoliberista delle nostre società.
Come abbiamo detto, in questo saggio assumiamo il punto di vista degli scontenti e critici verso la globalizzazione. Ma possiamo notare come, partendo dal punto di vista opposto, non si arrivi a conclusioni molto diverse dalle nostre. Chi sia favorevole alla globalizzazione e al neoliberismo sarà favorevole, a differenza di noi, a riforme in senso privatistico del sistema pensionistico. Ma sarà comunque d’accordo sul fatto che le varie proposte di riforma delle pensioni, di destra e di sinistra, vanno in sostanza entrambe nella direzioni auspicata, e che le differenze sono di carattere abbastanza tecnico e quindi da lasciare agli esperti.
b. Diritti del lavoro.
Un discorso molto simile a quello sulle pensioni si può fare per i diritti del lavoro. I quasi dieci anni di governo delle sinistre hanno visto la realizzazione di una serie di misure la cui direzione complessiva è quella di una diminuzione dei diritti e delle garanzie dei lavoratori, in particolare attraverso l’introduzione di forti elementi di precarietà nel rapporto di lavoro. E’ a partire dal decennio di governo del centrosinistra che lavoro in affitto e lavoro interinale sono diventate realtà stabili del nostro panorama sociale e culturale. In questo modo i governi di centrosinistra hanno fatto fare alla nostra società passi decisivi nella direzione della precarizzazione e “flessibilizzazione” del rapporto di lavoro.
Non c’è davvero bisogno di molti ragionamenti per comprendere il senso profondo di queste misure. Esse esprimono una delle tendenze profonde che negli ultimi vent’anni ha coinvolto l’intero mondo occidentale, la tendenza all’erosione dei diritti e delle garanzie che i lavoratori avevano conquistato nei decenni seguiti alla Seconda Guerra Mondiale. Se vogliamo leggere il presente come storia dobbiamo cercare di capire cosa comporti tutto questo per la vita concreta delle persone concrete. Possiamo aiutarci con alcuni dei molti libri che in tempi recenti sono stati dedicati alle conseguenze sociali e culturali della “flessibilizzazione”[4]. Innanzitutto molti lavoratori, specie quelli ai gradini più bassi della scala sociale, trovandosi privi di garanzie e difese tendono ad accontentarsi di salari bassi. In “Una paga da fame”, B. Ehrenreich mostra cosa significa essere un lavoratore precario e non qualificato nel paese più ricco del mondo: significa non poter pagare l’affitto di una casa e vivere in una roulotte, significa non avere soldi per il dentista e trovarsi con i denti rovinati, significa non potere assentarsi dal lavoro per malattia.
In secondo luogo, l’impossibilità di progettare con un po’ di sicurezza il proprio futuro porta a quella che Sennet, ne “L’uomo flessibile”, chiama “l’erosione del carattere”, un senso di insicurezza che si estende a tutti gli aspetti della propria vita. Coloro che la posizione sociale svantaggiata rende in questo modo deboli e insicuri sono naturalmente meno in grado di far valere i propri diritti. Privo di garanzie, desideroso di un lavoro stabile, il lavoratore “atipico” ha meno capacità di opporsi a qualsiasi tipo di richiesta gli venga fatta da chi ha potere su di lui. Ci sembrano particolarmente significative a questo proposito le analisi di Dejours, psichiatra che si è occupato della “sofferenza da lavoro” generata dalle moderne pratiche della flessibilità. Dejours osserva che “la precarietà non tocca soltanto i lavoratori precari, ma ha conseguenze fondamentali sul vissuto e sugli atteggiamenti di coloro che lavorano. In definitiva, è il loro posto che viene reso precario da possibili assunzioni a tempo determinato per rimpiazzarli”[5]. Dejours individua con precisione le conseguenze della precarietà sul modo di agire e di pensare di ognuno. La paura che l’insicurezza provoca genera sofferenza, e questa sofferenza deve però essere rimossa perché è di impaccio nella competizione di tuti contro tutti. “Ciascuno deve innanzitutto preoccuparsi di ‘reggere’. Quanto all’infelicità altrui, non solo ‘non ci si può fare niente’, ma anche percepirla rappresenta un impaccio o una difficoltà soggettiva in più, che nuoce agli sforzi di resistenza. Così, per resistere, conviene negare ciò che si vede, che si sente intorno a sé, quando si tratta di sofferenze e ingiustizie inflitte ad altri. La nostra indagine mostra che tutti, dagli operatori ai manager, si difendono nello stesso modo: negando la sofferenza degli altri e tacendo la propria”[6]. In definitiva, nel mondo della precarietà ognuno è solo con la propria paura. In questo modo vengono naturalmente distrutte le fondamenta della solidarietà sociale, si rende dominante l’atteggiamento spirituale di individualismo egoistico e aggressivo, diventano difficili o impossibili le lotte solidali dei lavoratori per la difesa dei propri diritti.
Queste sono dunque le caratteristiche umane essenziali che il mondo della flessibilità genera. Come nel caso delle pensioni, anche in questo caso le differenze tecniche fra i progetti di “riforma del mercato del lavoro” sostenuti dalla destra e dalla sinistra appaiono appunto differenze tecniche, che non cambiano la sostanza sociale, culturale, umana di queste riforme. L’essenza di queste iniziative è sempre quella di estendere a tutta la società la logica del totalitarismo neoliberista contemporaneo, e di rendere più difficile la resistenza ad esso.
Come nel caso delle pensioni, il giudizio di sostanziale indistinguibilità fra destra e sinistra dovrebbe a nostro avviso essere condiviso anche da chi sia favorevole alla flessibilità e ritenga che riforme in senso neoliberista del mercato del lavoro siano qualcosa di positivo. Chi abbia tali opinioni non può non riconoscere che sinistra e sindacati hanno compiuto passi notevoli in questa direzione, e che l’attuale governo di centrodestra non ha certo bisogno di tornare indietro, rispetto a quanto fatto dai governi di centrosinistra, ma deve solo proseguire il lavoro da essi avviato.
Rispetto a queste considerazioni, scarso significato hanno le spettacolari manifestazioni in difesa dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, organizzate nel 2002 dalla sinistra in opposizione ad alcune proposte del governo Berlusconi. Innanzitutto perché ci sembra più importante giudicare ciò che il centrosinistra ha fatto nel suo “quasi un decennio” di governo, e non le chiacchiere di cui tutti i ceti politici sono prodighi quando si trovano all’opposizione. In secondo luogo perché è evidente che, di fronte all’attacco sistematico ai diritti del lavoro che sinistre e sindacati hanno compiuto, la difesa dell’art. 18 in sé e per sé ha scarso valore, per esempio perché sono sempre di meno i lavoratori da esso protetti, grazie proprio alla proliferazione di figure “atipiche” permessa dalle misure sopra accennate. Infine per il carattere contraddittorio delle azioni del centrosinistra: se si organizzano manifestazioni da 3.000.000 di persone e si fa un’opposizione durissima di fronte alle proposte del governo Berlusconi sull’art.18, è evidentemente perché si pensa (o si dovrebbe pensare) che i diritti che esso garantisce siano fondamentali, inderogabili, non negoziabili. E allora come è possibile essere indifferenti od ostili, come è stato larga parte del ceto politico del centrosinistra, nei confronti del referendum che proponeva di estendere tali diritti ai lavoratori delle aziende con meno di 15 dipendenti?
E’ chiaro, per concludere, che dal punto di vista del “presente come storia” queste piccole schermaglie sullo Statuto dei Lavoratori non hanno molta importanza, e quello che veramente conta è il processo di distruzione dei diritti dei lavoratori, portato avanti negli ultimi dieci o vent’anni in tutto il mondo occidentale da governi con le più diverse etichette.
c. Guerra e politica mondiale.
A partire dalla fine dell’Unione Sovietica e dalla prima guerra del Golfo siamo entrati in una fase storica che ha aspetti profondamenti diversi rispetto al passato anche recente. Forse per la prima volta nella storia il mondo non è diviso fra sistemi sociali e politici profondamente diversi che si fronteggiano, si alleano, si combattono o si ignorano, ma appare unificato nelle forme economiche e sociali del capitalismo neoliberista. Questa “unificazione capitalistica del mondo” è attuata sotto il predominio (politico e militare) degli Stati Uniti d’America. Questa situazione non sembra però portare ad una “pax americana” generatrice di un ordine pacifico e giusto, ma sembra piuttosto svilupparsi verso conflitti sempre più gravi e pericolosi. Come interpretare l’attuale fase storica, sempre ponendosi dal punto di vista del “presente come storia”? Quanto abbiamo appena detto fornisce già alcune coordinate essenziali. Possiamo approfondire il discorso ricorrendo a un bel pamphlet di G. Chiesa[7]. Il grande fenomeno politico a cui ci troviamo di fronte, ci dice Chiesa, è il progetto statunitense di controllo globale del pianeta. Chiesa mostra con chiarezza come tale progetto si attui con una strategia di controllo attuata a vari livelli: controllo delle risorse (in primo piano il petrolio, naturalmente) tramite il controllo delle zone dove le risorse stesse si concentrano; controllo della politica internazionale per evitare la formazione di possibili forze alternative o “competitori globali”, quali potrebbero diventare in futuro Europa o Cina; controllo dell’informazione perché in regimi democratici come i nostri è necessario creare consenso alla propria politica di dominio. Ma una politica di domino globale genera delle opposizioni, ed è chiaro che gli USA preferiranno sempre, in questo momento storico, la risposta militare, perché è quello il piano nel quale la loro superiorità è incontestabile e schiacciante.
Le guerre gestite in prima persona dagli USA in questo decennio (Irak 91, Jugoslavia 99, Afganistan 01-02, tralasciando interventi di minore entità[8]) vengono interpretate da Chiesa come tappe di questo progetto di dominio globale, cioè in sostanza come guerre imperiali.
Le stesse cose sono dette, in forma anche più chiara e sintetica, in un articolo dell’intellettuale russo A. Zinov’ev, scritto in seguito all’episodio della presa di centinaia di ostaggi in un teatro di Mosca da parte di terroristi ceceni[9]. Riportiamo le lucide frasi di Zinov’ev: “Dopo la seconda guerra mondiale è iniziata l’integrazione del mondo occidentale in un’unica superpotenza (...). La sede si trova soprattutto negli Stati Uniti, ma le sue sezioni sono sparse in tutti i paesi dell’Ovest e in tutto il pianeta. E’ proprio questa supersocietà, organizzando e utilizzando tutte le risorse dell’Occidente, a condurre una nuova guerra mondiale (...). Il momento di rottura (...), vale a dire l’attacco armato all’Iraq e alla Serbia, si è verificato ancora prima dell’11 settembre 2001, rivelandosi poi in tutta la sua evidenza dopo quei tragici fatti, con l’inizio della guerra di aggressione all’Afganistan. Ora si prepara l’aggressione degli Stati Uniti contro l’Iraq, alla quale, penso, seguiranno altri paesi. L’obbiettivo principale dell’aggressione mondiale nel XXI secolo saranno i paesi asiatici “comunisti”, la Cina e gli altri. La disfatta della Russia ne è parte integrante (...). Quanto ho detto, lo ripeto, è banale dal punto di vista intellettuale. La sua mancata comprensione deriva dal fatto che le persone, istupidite dalla propaganda e dalla disinformazione, non vogliono comprendere, sono comprimarie dell’aggressore globale, ossia gli USA“.
Se partiamo dalla lettura della realtà contemporanea che ci è offerta da Chiesa e Zinov’ev, cosa possiamo pensare della politica internazionale perseguita dall’Italia nel “decennio di sinistra”? E’ chiaro che essa appare del tutto subalterna al progetto di dominio globale USA. I governi appoggiati dalle sinistre sono sempre stati al fianco degli USA in tutte le loro più importanti azioni militari internazionali. Il caso più clamoroso è naturalmente la guerra della NATO alla Jugoslavia[10]. Non è un caso che tale guerra sia citata, sia da Chiesa che da Zinov’ev, come uno dei passaggi importanti del progetto di dominio USA. Non si tratta solo del fatto, notato da molti commentatori, che i Balcani sono una regione strategica per le rotte di passaggio delle risorse petrolifere dalla regione del Caspio all’Europa (i famosi “corridoi”), né solo del fatto che lo stato jugoslavo rappresentava nella regione l’unico possibile alleato della Russia, il vecchio nemico abbattuto ma al quale conviene impedire di costruirsi alleanze internazionali. La guerra alla Jugoslavia è stata importante soprattutto perché ha sancito l’accettazione, da parte delle opinioni pubbliche occidentali, del diritto degli USA e dei loro alleati di portare guerra a chiunque e dovunque. Se si può bombardare un paese che, come la Jugoslavia, non stava aggredendo nessuno al di fuori dei propri confini, allora non c’è nessun limite al proprio diritto alla guerra. Si noti che il trattato costitutivo della NATO ha carattere difensivo: interventi armati contro paesi terzi sono permessi solo in risposta ad aggressioni contro paesi membri della NATO. Non è questo evidentemente il caso della guerra alla Jugoslavia del 99, che quindi è iniziata violando lo stesso trattato costitutivo della NATO, oltre a un paio di articoli della Costituzione Italiana[11]. I dirigenti della NATO hanno subito rimediato a questo inconveniente. Durante l’aggressione alla Jugoslavia, vi furono a Washington le celebrazioni per il cinquantesimo anniversario della costituzione della NATO. In quei giorni i massimi dirigenti della NATO, riuniti a Washington, decisero cambiamenti nello statuto che permettessero interventi armati di carattere non strettamente difensivo. In questo modo venne decretato, a livello formale, istituzionale, il diritto della NATO a operare interventi militari in ogni angolo del pianeta, secondo il sovrano giudizio dei paesi membri, e cioè secondo il giudizio e gli interessi del paese dominante, gli USA. Se ripensiamo alle parole di Zinov’ev, appare allora chiaro come quei due mesi di guerra NATO alla Jugoslavia siano stati un momento cruciale della guerra dell’Occidente (egemonizzato dagli USA) al mondo. E appare chiaro che chi ha firmato tali modifiche al trattato NATO ha dimostrato in questo modo la propria totale subalternità al progetto di dominio globale USA. Ovviamente fra i firmatari vi sono tutti i capi di governo dei paesi NATO dell’epoca, indistintamente di destra e di sinistra.
Nel giudizio sul “presente come storia” il nostro tempo deve essere giudicato come quello in cui si sta attuando un progetto di dominio globale statunitense che vede i paesi europei come alleati più o meno subalterni. Non appare nessuna differenza significativa fra governi di destra e di sinistra: governi di destra possono essere più critici verso gli USA (si pensi a Chirac) o più vicini ad essi (si pensi ad Aznar o Berlusconi); governi di sinistra possono essere i fedelissimi partner degli USA (Blair, ovviamente), possono essere alleati su cui contare (D’Alema, Schroder 1999), possono essere critici e distaccati (Schroder 2002).
Tutto questo ci dice che in sostanza è impossibile usare la discriminante fra destra e sinistra come strumento per capire qualcosa della realtà politica internazionale contemporanea. Non è un caso che destra e sinistra non siano nemmeno nominate nell’articolo di Zinov’ev e nel libro di Chiesa. Chi si ostina a pensare in termini di destra e sinistra non è più in grado di capire qualcosa del mondo contemporaneo.
Anche in questo caso, riteniamo che le nostre analisi possano essere parzialmente condivise anche da chi rifiuta il nostro atteggiamento critico verso l’attuale egemonia USA sul mondo. Chi stimi che tale egemonia sia un fatto positivo, un fattore di ordine e progresso, non potrà negare il fatto che i governi di centrosinistra hanno ampiamente collaborato con la potenza dominante, e che da questo punto di vista non appaiono differenze rilevanti fra centrodestra e centrosinistra.
d. Scuola.
La scuola italiana è da alcuni anni oggetto di una serie di interventi legislativi che ne hanno profondamente mutato la natura. Questi interventi sono iniziati durante i governi di centrosinistra (con i ministri Berlinguer e DeMauro) e sono continuati sotto il governo Berlusconi (con il ministro Moratti). Si tratta di interventi che sono al centro di discussioni pubbliche e di contrapposizioni sociali e politiche (scioperi, occupazioni), ma che ci sembra non siano ben focalizzati nella coscienza comune. In sostanza si parla molto della scuola e della sua riforma (o delle sue riforme) senza avere ben chiaro cosa sta succedendo. Non è certo possibile fare analisi dettagliate in poche righe. Cerchiamo di indicare qui alcuni punti fondamentali, rimandando a uno dei molti testi usciti in questi anni per analisi più approfondite[12].
Uno degli aspetti decisivi e caratterizzanti della riforma Berlinguer è, a nostro avviso, l’introduzione dell’autonomia scolastica. Cosa si intende con autonomia scolastica, nella riforma Berlinguer? Si tratta del fatto che ogni singolo istituto scolastico viene concepito come un’azienda che offre sul mercato il proprio prodotto (sintetizzato nel cosiddetto POF, il piano di offerta formativa), cercando di guadagnarsi i propri clienti (gli studenti) in concorrenza con gli altri istituti scolastici. Ora, le conseguenze di questa nozione di “autonomia” sono chiare e si stanno producendo sotto i nostri occhi:
1) abbassamento del livello culturale della scuola. E’ chiaro che se devo competere per “acchiappare” studenti non sarò certo stimolato a proporre insegnamenti che richiedono uno studio serio e impegnativo, visto che studiare è faticoso e nessuno ama fare fatica, ma sarò piuttosto portato ad alleggerire il più possibile il carico di studio. Fenomeni simili si stanno producendo nell’università, che è interessata da iniziative simili a quelle dell’autonomia scolastica. Lo sbocco naturale di una simile dequalificazione della scuola e dell’università è l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Ma soprattutto una massiccia, radicale, collettiva perdita di sapere e cultura.
2) Sottomissione della scuola alle potenze economiche. Occorre ricordare che, nell’ambito dell’autonomia, gli istituti possono accettare donazioni e partecipare a consorzi, anche privati, per l’acquisizione di beni e servizi. Ora, è chiaro che in un‘ottica di concorrenza fra istituti le donazioni sono importanti, perché permettono iniziative che “fanno fare bella figura” di fronte ai potenziali clienti-studenti, magari esibendo una nuova palestra o tanti computer ultimo modello. Ma è anche chiaro che in questo modo la scuola diventa condizionabile da parte delle realtà economiche dominanti a livello locale, che sono quelle in grado di fornire donazioni.
Se queste nostre analisi sono corrette, la riforma Berlinguer appare di fatto come una privatizzazione della scuola italiana e come la sostanziale distruzione della scuola nazionale nata nell’Ottocento. La scuola italiana viene privatizzata, anche se i singoli istituti restano giuridicamente enti statali, perché essi sono costretti di fatto a comportarsi come aziende private. Il carattere nazionale della scuola pubblica viene distrutto perché ogni singolo istituto decide la propria “identità culturale”, in sostanza perdendo ogni traccia di formazione unitaria del cittadino.
Considerando questi aspetti di fondo della riforma Berlinguer, possiamo scorgere sostanziali novità nel passaggio alla cosiddetta “riforma Moratti”? La risposta è no, perché essa rappresenta semplicemente una razionalizzazione o un perfezionamento delle tendenze di fondo già presenti nella riforma Berlinguer. Così, per esempio, è vero che nella riforma Moratti viene ridimensionata l’autonomia del singolo istituto, ma solo per sostituirla con una regionalizzazione che è comunque uno strumento di distruzione del carattere nazionale dell’insegnamento. Allo stesso modo, è vero che nella riforma Moratti al Collegio dei Docenti viene tolto potere di decisione sulla scuola per darlo ad un Consiglio di Amministrazione, ma questo aspetto non appare decisivo: se la scuola diventa di fatto, con la riforma Berlinguer, un’azienda, e il Collegio dei Docenti si trova a discutere di problemi gestionali, amministrativi, finanziari, che differenza fa che questo tipo di lavoro lo svolga un vero e proprio Consiglio di Amministrazione?
Al di là delle apparenze, al di là degli scontri mediatici e virtuali sulle tante riforme e pseudoriforme, appare in evidenza che il filo conduttore dei recenti mutamenti della scuola italiana sotto tutti i vari governi è l’omologazione della scuola alle logiche economiche che dominano la nostra vita sociale. Anche in questo caso cioè assistiamo al fatto che un ambito della vita sociale la cui logica intrinseca (che è legata alla cultura da trasmettere e alla relazione da costruire fra docente e allievo) non è di tipo economico-aziendale viene invece sottomesso a questa logica estranea. Si tratta di un ulteriore passo in avanti di quel totalitarismo neoliberista la cui vittoria mondiale ci sembra costituire il dato di fondo della storia recente. Le politiche scolastiche di destra e sinistra appaiono semplici varianti della stessa logica.