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Gamal Abdel Nasser: filosofia della rivoluzione

di Luigi Carlo Schiavone - 29/05/2007




Nel 1953, ad un anno dalla rivoluzione dei “Liberi Ufficiali” contro la monarchia egiziana, uno dei leader di suddetto movimento, Gamal Abdel Nasser, diede alla luce un libro dal titolo: “La filosofia della rivoluzione”. In quest’opera sono chiaramente definite, dal futuro presidente della Repubblica Egiziana, le tre sfere d’azione in cui la rivoluzione egiziana doveva inquadrarsi al fine d’ottenere quel respiro sovranazionale necessario per erigersi come avanguardia di tutto il movimento panarabo che, all’indomani dell’avvio della decolonizzazione, stava emettendo i suoi primi vagiti.
Delle tre sfere, rispettivamente araba, africana ed islamica, la prima fu considerata da Nasser come la più importante, giacché riuniva una comunità fortificata dalla comunanza storica e religiosa. Nell’opera, infatti, Nasser richiama vari episodi storici, come la partecipazione, da studente, alle dimostrazioni annuali organizzate nell’anniversario della Dichiarazione Balfour (2 dicembre 1917) che garantiva agli ebrei un “focolare nazionale” in Palestina. Si ricorda, inoltre, come, nel 1947, quando le Nazioni Unite s’espressero a favore della spartizione della Palestina, i “Liberi Ufficiali” decisero di appoggiare la resistenza del popolo Palestinese; lo stesso Nasser, in visita dal muftì Amin el-Huseini, offrì il supporto di volontari egiziani, che, però, non ebbe mai luogo a causa dell’opposizione del governo egiziano.
Il lettore attento non potrà non cogliere, scorrendo le pagine di questo libro, la rievocazione da parte di Nasser del trauma della sconfitta nella prima guerra arabo-israeliana del 1948. Egli rievoca, infatti, come a tale guerra parteciparono con “lo stesso entusiasmo, uscendone con la medesima sconfitta” tutti gli eserciti dei Paesi Arabi. Significativo risulta essere il passaggio in cui Nasser, raccontando la propria esperienza come capo di Stato Maggiore del 6° Reggimento, evidenzia la tragicità della partecipazione ad un conflitto il cui esito sembrava essere deciso in altri luoghi e da altre menti. Bastino come descrizione le sue parole: “Eravamo come pezzi di una scacchiera mossa dalle mani di chi si prendeva giuoco di noi. Sembrava che tutti i nostri popoli insieme fossero, dietro alle linee, vittime di una congiura che di proposito teneva loro celata la verità di quello che succedeva e faceva loro smarrire anche il senso della loro esistenza”. A questo senso di smarrimento, però, s’aggiunse ben presto la consapevolezza di combattere per una causa giusta. La difesa del proprio territorio e la salvaguardia delle speranze per il futuro da costruire insieme ai propri figli, risultarono essere ragioni più che sufficienti per continuare la lotta. Il panarabismo di cui si farà portatore Nasser trovò senz’ombra di dubbio tra le macerie del territorio palestinese un ottimo concime; quelle immagini, trasudanti disperazione e distruzione, non abbandoneranno mai la mente del futuro leader dell’Egitto. Il ripercuotersi di eventi simili in altri paesi arabi farà montare ancor di più il suo odio verso ogni forma di imperialismo e verso Israele, che egli definiva un suo diretto prodotto, aggiungendo che: “se la Palestina non fosse caduta sotto il mandato britannico, il sionismo non avrebbe trovato la forza di realizzare il suo sogno”. Da qui la necessità per i popoli arabi di costituire un fronte comune per realizzare le proprie aspirazioni. Le forze principali su cui poter contare erano in primo luogo la vicinanza e la comunanza di caratteristiche e di civiltà in un territorio che era stato sede delle tre religioni rivelate. In secondo luogo, la posizione geografica strategica e, in ultima istanza, il petrolio, elemento essenziale della civiltà contemporanea, di cui più della metà delle disponibilità mondiali è situata nei territori arabi e le cui condizioni di estrazione e sfruttamento sono più favorevoli rispetto agli altri Paesi.
Se questo fu quanto egli tracciò, in riferimento all’elemento arabo, non si può dire che guardò con meno interesse alla sfera africana. La piena cognizione dell’appartenenza all’Africa della sua patria era viva in Nasser al pari della consapevolezza che i popoli abitanti le profondità dell’Africa, impegnati nelle sanguinose guerre della decolonizzazione, avvertissero l’Egitto come lo Stato guardiano della porta settentrionale del continente. È per questo che egli affermò: “Non ci possiamo sottrarre in alcun modo alla responsabilità di aiutare, con tutti i mezzi a disposizione, la diffusione della luce e della civiltà anche nelle profondità delle foreste vergini”.
La volontà di impedire che l’Occidente dividesse con le sue linee di frontiera il continente africano senza tener in alcun conto i singoli equilibri locali, provocando altri spargimenti di sangue, com’era già avvenuto al tempo della divisione della umma islamica, era presente in Nasser, al pari della volontà d’istituire al Cairo un grande istituto per l’Africa, nel quale sperava di convolare un giorno tutti gli spiriti illuminati che volessero operare per il bene del continente più grande del mondo.
La terza ed ultima sfera di cui si occupa il leader egiziano nel suo libro, è quella islamica.
La necessità di rafforzare il baluardo della fede fra tutti i musulmani era visto da Nasser come qualcosa di indispensabile. Vestendo temporaneamente i panni del teologo, il futuro presidente egiziano spiega l’importanza del pellegrinaggio annuale presso la Ka’bah e come esso non dovesse essere considerato dai fedeli solamente una “tessera per l’ingresso in Paradiso dopo una lunga esistenza o un semplice tentativo di comprare il perdono dopo una vita comoda” od un semplice appuntamento di carattere mediatico, ridimensionando così i suoi riti e le sue cerimonie al rango di semplice passatempo per i lettori dei giornali; il pellegrinaggio annuale doveva assumere, secondo Nasser, anche dei connotati politici. Tale manifestazione, infatti, poteva essere, per la sua periodicità, l’occasione giusta per lanciare il progetto di un “Parlamento Islamico Mondiale”, attraverso il quale tutti i capi di Stato musulmani ed i loro entourages, potevano riunirsi e confrontarsi con coloro che svolgevano le funzioni fondamentali all’interno dei singoli Stati, alfine di definire annualmente delle politiche di cooperazione. Questa convinzione, inoltre, era supportata dalla consapevolezza dell’immenso numero di credenti musulmani nel mondo, la cui cooperazione avrebbe garantito, senza alterare la fedeltà alle loro singole patrie, una forza illimitata.
Come la storia ben ci dimostra, poche di queste parole rimasero lettera morta. Dopo aver allontanato nel 1954 il moderato Mohammed Neguib, Nasser fu solo alla guida del Paese. La creazione del nuovo regime comportò l’attuazione di una serie di riforme di carattere socialista, come la redistribuzione della terra e la nazionalizzazione delle principali attività economiche, cui s’affiancò la promozione di un processo di industrializzazione. In ambito internazionale, gli sforzi di Nasser furono rivolti ad affrancare il suo Paese da ogni condizionamento da parte delle ex potenze coloniali e ad assumere il ruolo di guida dei Paesi Arabi in lotta con Israele; riuscì ad ottenere, inoltre, la smobilitazione delle truppe inglesi dal Canale di Suez e stipulò con l’Urss degli accordi per ottenere aiuti economici e militari.
Tutto ciò provocò la reazione statunitense che, nel 1956, temendo questo scivolamento filo-sovietico, bloccò i finanziamenti stanziati dalla Banca mondiale in favore della grande diga di Assuan, da tempo in costruzione sul Nilo e necessaria per l’elettrificazione del Paese.
Il presidente Nasser rispose a questo smacco nazionalizzando la Compagnia del Canale di Suez, nella quale gli inglesi e i francesi avevano ancora molti interessi, provocando la reazione d’Israele che, d’intesa con i governi di questi due paesi, nell’ottobre del 1956, dando ufficialmente il via alla guerra di Suez, attaccò l’Egitto penetrando fino al Sinai, mentre truppe franco-inglesi occupavano la zona del Canale. La guerra di Suez assumeva così i tratti delle vecchie guerre coloniali, provocando la reazione da parte delle due superpotenze. A causa del mancato appoggio statunitense, in seguito all’ultimatum sovietico, i governi di Israele, Francia ed Inghilterra si videro costretti a richiamare le loro truppe. Nasser, nonostante le sconfitte militari, risultò essere il vero vincitore del conflitto, giacché dalla crisi di Suez scaturirono il rafforzamento della posizione egiziana fra i Paesi in via di sviluppo e soprattutto il rilancio personale di Nasser che approfittò della popolarità acquisita presso le masse e la borghesia intellettuale di tutto il mondo islamico per rilanciare, dopo averla modernizzata nei contenuti, la causa del panarabismo, che troverà il suo apice nella Repubblica Araba Unita, che unì Egitto e Siria fra il 1958 ed il 1961, e nell’affermazione del fenomeno del nasserismo, fonte d’ispirazione per molti movimenti rivoluzionari panarabi del Vicino Oriente.