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Il cavallo rosso di Eugenio Corti ristampato nella ventunesima edizione

di Persico Roberto - 29/05/2007

Fonte: tempi

 

«Andai sul fronte russo per vedere se davvero i comunisti erano più
cristiani di noi, come diceva il maritainiano Mounier. Scoprii che il regime
comunista aveva fatto cose terrificanti. E decisi che dovevo raccontare quel
che avevo visto»

«Ha fatto proprio bene a pubblicare quel pezzo su Cochin, quel che descrive
lo studioso francese è esattamente quel che è successo a me: se uno non fa
parte del coro della cultura dominante viene messo al bando». Eugenio Corti,
86 primavere portate benissimo - fino a un paio d'anni fa prendeva l'aereo
da solo per andare dai suoi numerosi supporter parigini, ora si aiuta con un
bastone per camminare, ma la mente è lucidissima - si è preparato a dovere
per ricevere l'inviato di Tempi nell'antica villa di famiglia sui colli
della Brianza, un pezzetto di parco da cui lo sguardo spazia dalle prealpi
fino laggiù a Milano. L'occasione è la pubblicazione da parte di Ares della
ventunesima edizione del suo opus magnum, Il cavallo rosso, un risultato
straordinario per un romanzo che non ha mai avuto altro sostegno che quello
del proprio valore e del passaparola dei tanti che lo hanno apprezzato. Ma
la conversazione spazia, inevitabilmente, su tutta la storia di uno dei
grandi testimoni del secolo passato. E comincia dallo stupore del cronista
per la quantità di lettere che riceve, per le tante persone che ancora lo
cercano, dall'Italia e non solo. «Sì, sono in tanti i giovani che vengono
regolarmente a trovarmi, a parlare di tante cose».

Che cosa trovano dunque in lei?
Credo che interessi loro sentire un testimone del secolo passato. Uno che
dopo avere attraversato tutti gli orrori e le bestialità del secolo non ha
perso la fede ma l'ha incrementata.

Tante persone di fronte agli orrori del Novecento hanno abbandonato Dio, lei
no. Come è stato possibile?
Non è stato un merito, è stato un regalo di Domeneddio. Un regalo di cui
però fa parte la solida preparazione cristiana anche culturale che ho
ricevuto fin da giovane: sapevo bene che Dio ha detto ben chiaro che i
disastri sono le conseguenze che l'umanità si tira addosso quando abbandona
la sua strada. Non è Dio che ha abbandonato l'uomo, è l'uomo che ha
abbandonato Dio e le conseguenze sono stati gli orrori del secolo passato.

Orrori che lei ha incontrato consapevolmente dal momento che, allo scoppio
della Seconda guerra mondiale, ha chiesto espressamente di essere inviato
sul fronte russo. Perché questa scelta?
Sì, è vero. Io studiavo allora legge all'università Cattolica a Milano.
Nella biblioteca dell'università mi imbattei in un fascicolo di Esprit, la
rivista diretta da Emmanuel Mounier. Io non lo conoscevo, ma sapevo che era
amico e allievo di Jacques Maritain, e Maritain era allora l'"avanguardia"
della cultura cattolica mondiale, così volli leggerlo. C'era scritto che non
era vero che il comunismo russo era la peste, che a dipingerlo così erano i
fascisti e le "demoplutocrazie", ma che i comunisti in realtà erano più
cristiani di noi. Se lo dice questo qui che è allievo di Maritain, mi dissi,
bisogna andare a vedere. Così allo scoppio della guerra, mentre tutti
cercavano di imboscarsi, io chiesi di essere mandato sul fronte russo. Fu
l'esperienza definitiva della mia vita.

Che cosa scoprì?
Parlai tantissimo con i russi, per quel che permetteva la lingua, e scoprii
qualcosa di terrificante: non c'era una famiglia che non avesse almeno un
membro ucciso dal regime comunista o deportato in Siberia. Raccolsi i
racconti degli anni terribili della carestia in Ucraina e del cannibalismo
che ne seguì. Quella vicenda mi fece toccare con mano la verità di quel che
aveva scritto sant'Agostino millecinquecento anni prima: o si costruisce la
città di Dio, o inevitabilmente si costruisce la città del Principe di
questo mondo. E decisi che dovevo raccontare quel che avevo visto. Nacquero
così i miei primi libri, sostanzialmente autobiografici, I più non
ritornano, I soldati del re, e naturalmente Il cavallo rosso.

Si può dire che la sua vocazione di scrittore nacque allora?
No. Era nata prima. Era nata sui banchi della prima ginnasio, quando avevo
scoperto Omero: "Farò come questo", mi dissi allora. Perché Omero trasforma
in bellezza tutto ciò di cui parla. E da allora non ho mai lasciato questa
impostazione.

Poi però non si è più limitato a raccontare la sua esperienza.
No. Poi ho sempre cercato di approfondire attraverso i miei romanzi le
questioni che mi sembravano più urgenti. Studiai a lungo, naturalmente, il
comunismo, e da quel lavoro è nato Processo e morte di Stalin, dedicato alla
natura criminale di quel sistema. Poi ci sono state la decolonizzazione e la
globalizzazione, si è incominciato a vedere gli europei come colpevoli di
tutti i mali del mondo, gli altri popoli hanno cominciato a chiederci conto
di quel che avevamo fatto loro; così ho scritto La terra dell'indio, sulla
stupefacente avventura dei gesuiti in Paraguay, che con le "reducciones"
hanno portato in pochi anni un popolo intero dalla preistoria a una civiltà
prospera e raffinata. Poi si è diffuso il mito dei mari del sud, dei
paradisi incontaminati, del buon selvaggio che vive felice, libero dalle
regole della civiltà occidentale; così ho scritto L'isola del paradiso, la
storia vera degli ammutinati del Bounty, un gruppo di uomini che hanno
cercato di costruire una civiltà nuova, "naturale", e hanno finito per
scannarsi tutti uno a uno. Infine, pensando alla questione delle radici
cristiane, dell'impotenza balbuziente dell'Europa a rivivere la sua cultura,
ho scritto Catone l'antico, la storia di quest'uomo in cui la fierezza
romana si apre all'attesa di una speranza nuova.

E oggi a cosa sta lavorando?
Quando ho compiuto 85 anni mi sono detto: "Hai parlato di tutto tranne del
periodo storico che ti piace di più, il medioevo", così ho cominciato a
scrivere la storia della beata Angiolina, una lontana antenata di mia
moglie. Spero che Dio mi dia la forza di finirlo prima di morire.

Un libro sul medioevo che non sia Il nome della rosa sarebbe un evento nelle
nostre scuole.
Quella è stata un'enorme canagliata. Umberto Eco ha preso in mano un
interesse vero e lo ha rovesciato. E pensare che è lo scrittore italiano più
venduto nel mondo...

Non è vero, sa? Lo scrittore italiano più venduto nel mondo è Guareschi.
Davvero? Sono proprio contento. L'ho conosciuto, Guareschi: naja io, naja
lui, credente come può essere un soldato, rustego. Combatteva per il
cristianesimo in modo laico, e militaresco.

Torniamo a Maritain e Mounier. Come li ha guardati dopo l'esperienza russa?
Li ho combattuti con tutte le mie forze, perché ho capito quale era il loro
errore. Maritain in origine era un socialista rivoluzionario ateo; poi Dio
gli ha toccato il cuore, ma lui è rimasto accecato dal fatto che nel
bagaglio culturale dei marxisti e dei laicisti - che erano suoi amici -
c'erano molte verità cristiane impazzite, come direbbe Chesterton. Maritain
si definì un minatore che cercava valori e virtù cristiani nascosti nel
mondo laico, e finì per convincersi che costoro - che lui era ansioso di
conquistare alla sua nuova fede - fossero in sostanza già cristiani, e che
si potesse costruire una "nuova cristianità" con marxisti e laici.

E in cosa consiste l'errore?
Nel fatto che una verità, un valore o una virtù cristiani, messi nel
bagaglio degli altri, li rendono ancora più avversi al cristianesimo. Le
faccio un esempio, preso dal libro di Rudolf Höss, Comandante ad Auschwitz:
non era facile, spiega Höss, mantenere gli altissimi ritmi previsti per lo
sterminio degli ebrei; fu possibile farlo solo grazie al grande "spirito di
abnegazione" delle SS addette ai crematori, che rinunciarono alle licenze e
si sobbarcarono turni pesantissimi. Capisce la follia? Lo spirito di
abnegazione è certamente un valore cristiano, ma al servizio di una causa
sbagliata la rende solo più micidiale.

Maritain alla fine si accorse dell'errore.
Sì, e ne Il contadino della Garonna arrivò a dire che i cristiani erano
stati stupidi a credere a quello che lui aveva detto. Intanto però il danno
era fatto, aveva gettato il seme della peste del cattocomunismo: di lì
sarebbero fioriti i vari Dossetti, Lazzati, Fanfani, La Pira.

Personaggi che lei ha avversato duramente.
La mia querelle con Lazzati risale al tempo del referendum sul divorzio.
Gabrio Lombardi, che era stato capitano durante la guerra, era stato
incaricato di dar vita al Comitato per il sì e mi chiese di fare il vice
presidente. Io obbedii, lasciando anche la stesura del Cavallo rosso, e mi
ritrovai di fatto a fare tutto. E il mio avversario più accanito divenne
proprio Giuseppe Lazzati, che pure era stato mio amico. Ma difendeva una
concezione che avrebbe disciolto il cristianesimo, e continuai ad attaccarlo
duramente. Non ci siamo più parlati. I suoi discepoli, che alla Cattolica
sono ancora forti, specie nella facoltà di Lettere, non me lo hanno mai
perdonato. Allora ebbi anche una polemica con Avvenire, che accusai di avere
abbandonato la battaglia contro il comunismo, cosa che in quegli anni era
davvero accaduta. Così per il mondo cattolico italiano sono rimasto uno
scomunicato.

Nessuno è profeta in patria.
Forse è vero. Infatti ho trovato molto più sostegno in Francia.
Paradossalmente, proprio a partire dalla mia battaglia contro Maritain: in
Francia c'è un piccolo gregge di cattolici, più emarginati dei cattolici
italiani dalla vita pubblica, che cercano di mantenersi fedeli alla
tradizione, e hanno trovato nei miei scritti un punto di riferimento. Così
finché ce l'ho fatta sono andato regolarmente a trovarli.

E comunque non ha mai rinunciato al suo lavoro di scrittore.
Io sono stato chiamato dalla Provvidenza a scrivere. Io non ho avuto la
vocazione alla carità, come mio fratello che è frate in Ciad, o come l'altro
che ha fondato un ospedale in Uganda. Però nel Vangelo la verità è
fondamentale come la carità. Io ho avuto la vocazione alla verità: posso
lavorare per aiutare gli uomini a non staccarsi mai dalla verità. Guardi, me
l'ha scritto anche don Giussani quando ho compiuto 80 anni: «Chiedo alla
Madonna di conservare la sua vita nella baldanza che la caratterizza, fiero
difensore della verità che nella fede ragionevolmente tramandata e da lei
personalmente rivissuta e resa attuale trova la sua apologia più
affascinante, specialmente in questi tempi drammatici».
Per questo vado avanti.

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Romanzo popolare
Una storia che corre attraverso il Novecento e che da oltre vent'anni
conquista lettori in tutto il mondo
di Sciffo Andrea
«Sono convinto che Il cavallo rosso verrà considerato un giorno come
un'opera spartiacque per la comprensione del Ventesimo secolo». Nelle parole
di Richard Brown, critico londinese della Saint Austin Review, si coglie
molto dell'entusiasmo che contagia chi si avvicina al grandioso romanzo di
Eugenio Corti, pubblicato per la prima volta da Ares nel 1983, tradotto in
sei lingue e giunto oggi alla ventunesima edizione. «L'autore - continua
Brown - plasma un nuovo tipo di realismo che definirei della trascendenza.
Così che in modo obiettivo il romanzo porta una soluzione alle ansie
filosofiche del Novecento. È il genere di romanzo che entusiasma i lettori
quando lo scoprono. Chi lo ha già letto ha un fervore quasi evangelico nel
cercare di persuadere gli altri a leggerlo». E difatti nel 1997 persino
alcuni esponenti della chiesa calvinista di Losanna scrissero una lettera
aperta a Corti elogiandolo per l'originalità del suo "modo cristiano di
vedere la realtà, che è il solo veritiero"; dal carteggio sorse un tentativo
di dialogo interconfessionale che dura tuttora. Ma molti altri legami sono
intrecciati attorno a quest'opera di milleduecento pagine; in maniera
sorprendente Il cavallo rosso, con la sua corsa, intesse trame nel destino
di chi si accosta alla sua poesia.
Eugenio Corti «appare nella nostra epoca una sorta di rivelatore
fotografico - scrive Laurent Mabire su Liberté Politique -, che trasmuta il
negativo in positivo e ristabilisce l'ordine del mondo. Lo dice con le sue
frasi così semplici. che ci fanno vedere dall'altra parte dello specchio». È
un autentico poema del destino, tanto che il cardinal Barbarin, arcivescovo
di Lione, in un'intervista rilasciata a Famille Chrétienne nell'aprile del
2004, ha posto sullo stesso piano gli eroi delle grandi epopee narrative di
Stendhal, Victor Hugo, Dostoevskij e quelli di Corti; anni fa, Cesare
Cavalleri profetizzò per Il cavallo rosso un destino artistico del livello
dei libri di Tolstoj o Solzenicyn, o del celebre film L'albero degli
zoccoli. Il tempo gli ha dato ragione.
A partire dagli anni Ottanta Il cavallo rosso è stato tradotto in spagnolo,
lituano, rumeno, francese, inglese e giapponese; nei paesi in cui i libri si
leggono davvero (anche da parte di editori e critici letterari), molti si
accorgono che quello di Corti è un testo di prim'ordine perché nella storia
privata dei tanti personaggi passa qualcosa che dà senso alla storia intera.
Peter Milward, professore emerito alla Sophia University di Tokyo, afferma
senza mezzi termini che The Red Horse (titolo della traduzione americana
uscita nel 2000) «potrebbe benissimo essere paragonato a Il Signore degli
Anelli» e che il suo autore «emerge come testimone della Chiesa cattolica
dei tempi moderni».
Come si può immaginare, nel cono d'ombra in cui è relegata la buona
letteratura, tanti grandissimi misconosciuti tengono compagnia a Corti, il
quale nel frattempo è stato almeno insignito al Merito per la cultura
cattolica.
Intanto, mentre giungono all'autore lettere di riconoscenza da lettori di
mezzo mondo, la sua opera scritta continua a passare quasi inosservata
dall'intellighenzia moderna. Per gli altri, le pagine cortiane sono invece
di conforto al cammino. Anche se la censura dei mass-media sembra
implacabile, si può credere che l'ultima parola non spetterà alla
mediocrità, come si augurava (dalle pagine della rivista teologica
Renovatio, quindici anni orsono) anche padre Cornelio Fabro chiedendosi: «A
quando una degna versione televisiva de Il cavallo rosso? Se fosse tale da
rendere fedelmente il libro, essa potrebbe avviare un autentico risveglio
spirituale di tutta la nazione».

Primalinea
Il milite con la penna in mano
Il cavallo rosso
Autore E. Corti
Editore Ares
Pagine 1274
Prezzo 24 euro
di Persico Roberto
«Io mi sento un soldato. Lo so bene che tutti noi siamo soldati, Militia est
vita hominum super terra, ma io mi sento un soldato, parlando proprio
razionalmente, perché io non avrei dovuto sopravvivere alla ritirata di
Russia. Invece ne sono uscito. Allora mi sono chiesto il perché; perché io
non sono stato preso, ma sono stato lasciato? A caso, forse? E sentivo che
non era così, io ero stato lasciato per una qualche precisa ragione». La
descrizione che lui stesso fa dell'esperienza in Russia è fondamentale per
capire tutta l'opera di Eugenio Corti. Nato a Besana Brianza nel 1921 ha
esordito nel 1947 con I più non ritornano. È internazionalmente noto per il
romanzo Il cavallo rosso (1983), mirabile affresco dell'Italia e dell'Europa
dal 1940 al 1974. Tra le opere successive Gli ultimi soldati del re; la
tragedia Processo e morte di Stalin; i saggi L'esperimento comunista,
sintesi di ciò che è costato all'umanità il comunismo, e Il fumo nel Tempio,
sulla crisi del mondo cattolico. Nel 2000 è stato insignito del Premio
Internazionale Medaglia d'Oro al merito della Cultura Cattolica.

Edizioni Ares
www.ares.mi.it