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Il dialetto non passa di moda Il 77\% lo usa con frequenza

di Gianna Marcato - 29/05/2007

 
Come andrà mai a finire questa sfida dei dialetti, in gara col tempo? Nel Nord-Est più del 88% degli intervistati sostiene di parlarli con gli amici (alcuni raramente, il 74% spesso). Che si pretende di più, in una società dominata da modelli urbani, mediatici e tecnologici? Non hanno futuro - obiettano i loro detrattori - tanto è vero che con gli amici dice di parlarlo spesso solo il 55.5% dei ventenni. È vero, ma in quel 44.5% di coloro che dichiarano di parlarlo raramente, o di non usarlo mai, pullula un nutrita schiera di "parlanti evanescenti". Presenze misteriose queste, destinate a passare inosservate attraverso le statistiche, ma determinanti per la sorte del dialetto.

Volete averne una prova? Parlate loro in dialetto: vi capiranno perfettamente, ma vi risponderanno in italiano. Se solo lo volessero, potrebbero all'improvviso apparire nelle vesti di veri parlanti (come sono riusciti abilmente a mostrare alcuni studenti del mio corso di dialettologia all'università di Padova nelle loro ricerche). Ma, anche se non lo fanno, sono proprio loro, questi giovani conoscitori invisibili del dialetto, a garantire la possibilità di sopravvivere a una parlata che una parte di famiglie più consistente di quanto si pensi ha continuato a trasmettere ai figli. Il mondo linguistico dei giovani è il mondo delle sorprese. Sorprende forse scoprire che, proprio quando l'animosa lotta di mamme e insegnanti contro il dialetto pareva ormai vinta, molti ragazzini cui era stato insegnato solo l'italiano, hanno deciso di assaggiare il gusto di quello che avrebbe dovuto essere anche loro patrimonio: la lingua dei nonni. Ci affascina, nel racconto di Toio, il suo andare con gli amici adolescenti, a muso duro, nelle peggiori bettole a caccia di modi di dire rudi e divertenti, imitando un dialetto che indignava i genitori, ma dava sollievo ai nonni, liberati dall'obbligo di parlargli solo in italiano! Nelle autobiografie linguistiche di altri giovani, in un volumetto fresco di stampa che ho curato per "Cierre ed", scopriamo il gusto con cui, tra compagne delle medie, si commentava l'uso da parte delle nonne di piron, inpiria, butiro, quasi come in una lingua segreta, o il piacere di ricordare epiteti e cantilene affettuose, o ancora il ricordo di quel dialetto ammesso anche in presenza dei bambini quando, a tavola dai nonni, era facile incoconarse, pociare, tociare non consumistiche ghiottonerie. E come sottovalutare l'intrigante mistero di parole come smòche, scarbonàso, sàltaro, giaonsèo, sizàra, scrisiòi a cui, pur dall'alto della propria cultura di universitari, non si sa ancor oggi dare un nome se non in dialetto? Forse, dopo che il possesso dell'italiano ha fatto svanire in più d'uno la paura del dialetto, si è smesso di desiderarne la morte. Peccato, mi si dirà, perché il dialetto è esclusione! Eppure P. E., ad esempio, il vicentino lo ha felicemente imparato, aggiungendolo al nativo pepel, quando, giovane immigrato, il Veneto ha accolto amichevolmente lui e il suo lavoro. Peccato, perché il dialetto non serve, diranno probabilmente altri. Come non serve? Nella civiltà degli specchi, in cui la realtà costruita dai media scolora ogni altra realtà facendola apparire meno vera, non serve forse il dialetto ad ancorarci alla realtà delle esperienze, alla cultura del territorio, alla quotidianità degli eventi condivisi all'interno di uno spazio in cui ci si riconosce? C'è però in tutta la faccenda un dettaglio un po' inquietante, che non ci fa scommettere con troppa sicurezza sul futuro delle nostre parlate millenarie: pare essere in atto proprio in questi anni una rivoluzione linguistica all'interno di quelle famiglie in cui fino ad ora tutti avevano parlato dialetto. È un cambiamento che non piace a D., che cerca con scarso successo di ribellarsi al rifiuto del fratello di otto anni più giovane di lei di parlare dialetto; anche D. è costernata nello scoprire in casa uno strano, misterioso, sconosciuto esemplare di parlante evanescente, una sorella che non spiccica una parola di dialetto pur capendolo alla perfezione; con stupore A. si accorge che la sorella di sette anni parla solo italiano, simile in questo a tutte le sue amichette, diversa da tutti gli altri fratelli. È questo un fatto tutto da indagare (ed A. lo sta facendo con entusiasmo). Che sta accadendo a questa nuova generazione di fratellini? Si sta facendo avanti una schiera di bambini che del dialetto del resto della famiglia proprio non ne vuole sapere? Sarà forse perché sono già chiusi nella rete dei dialoghi mediatici? O sarà forse la reverente soggezione che ispirano i piccoli protagonisti di un futuro modellato sulla tecnologia a spingere inconsciamente gli adulti a rivolgersi loro solo con quella lingua che un tempo la cultura del dialetto riservava ai "foresti"?. E se quei giovani genitori che il dialetto ancora lo sanno, capendo finalmente l'importanza di non cancellare i collegamenti con il passato, lo regalassero ai loro bimbi? E se i nonni, che più numerosi di quanto possa sembrare il dialetto lo possiedono, rinunciando a tenerlo nascosto per adeguarsi ai modelli di giovanilese imperanti, rispolverassero per i loro nipoti questa piccola lingua degli affetti? Se così fosse, il dialetto potrebbe segnare un altro piccolo punto a suo favore. In fin dei conti possedere due lingue in famiglia è una ricchezza maggiore che averne una sola.

Gianna Marcato

docente di dialettologia

Università di Padova