Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La rimozione della colpa: malattia mortale della modernità

La rimozione della colpa: malattia mortale della modernità

di Francesco Lamendola - 30/05/2007

 

Le cronache degli ultimi tempi ci hanno scaraventato addosso un campionario degli orrori quale mai avremmo potuto immaginare, pur così induriti al clima di crescente crudeltà cui siamo purtroppo abituati. Delitti spietati, delitti gratuiti: delitti, cioè, nei quali il massimo della malvagità si coniuga con un minimo di motivazione; come se, ormai, uccidere e infierire su un essere umano fosse una reazione 'naturale' alla più minima offesa, reale o presunta. Tuttavia non sono questi due aspetti quelli che maggiormente destano in noi un profondo sentimento di orrore; e nemmeno quella che i sociologi chiamerebbero 'la banalità del male', ossia l'assoluta piattezza e mediocrità tanto dei carnefici, quanto delle loro motivazioni e del contesto socio-culturale in cui tali fatti avvengono (figli che pianificano l'assassinio della propria madre per questioni di eredità, figlie che uccidono la madre per una sgridata, madri che uccidono il figlio per il suo pianto insistente, ecc.). E neppure il fatto che si tratti, in buona parte dei casi, di delitti intenzionali, freddamente preparati ed eseguiti con lucida determinazione: come quel narcotrafficante messicano che, per propiziarsi i suoi loschi traffici nella zona di Matamoros, alla frontiera con gli Stati Uniti d'America,  faceva rapire, uccidere e bollire in pentola vittime umane da offrire al demonio.

Quel ci lascia veramente sconcertati, in tutto questo campionario di orrori che si sta propagando come una specie di epidemia e che Maurizio Blondet ha paragonato all'ammonimento della Prima lettera di Pietro (5,8): "Siate sobri e state in guardia! Il demonio, vostro avversario, si aggira, simile a un leone ruggente, in cerca di chi divorare", è un'altra cosa. Si tratta della pervicace e radicale rimozione del senso di colpa, cosa che rappresenta, a nostro giudizio - in moltissimi dei casi di cui discorrevamo - una vera e propria 'mutazione antropologica'. Ci spieghiamo: delitti atroci, nella storia dell'umanità, se ne sono visti in ogni epoca e sotto ogni cielo; anche delitti gratuiti e delitti ferocemente premeditati. Non si erano mai visti, invece - che noi sappiamo- delitti così atroci, così gratuiti e così premeditati i cui autori negassero ostinatamente non già la gravità del male compiuto (cercando, magari con l'aiuto di costosissimi avvocati difensori e con perizie di parte ancor più costose, di minimizzare le proprie responsabilità), ma il fatto stesso di averli compiuti. Anche davanti ai crimini più efferati, ad es. ai danni di parenti stretti e con l'aggravante dei futili motivi, sempre più spesso si assiste a questa imperturbabilità, a questa ostinazione nel negare ogni e qualsiasi coinvolgimento, ogni e qualsiasi responsabilità. Specialmente in quei casi giudiziari ove mancano le prove schiaccianti della colpevolezza, ad es. per la scomparsa dell'arma del delitto o per l'assenza di testimoni, sempre più spesso assistiamo a questo copione sconcertante: la negazione pura e semplice del fatto, la sua attribuzione ad 'altri': dal vicino di casa che l'aveva con gli indagati, agli zingari o agli immigrati slavi (o marocchini, o albanesi) che sono entrati in casa per rubare. Anche quando ogni evidenza fa pensare a un tipico delitto familiare, consumato interamente entro le mura domestiche, si assiste a questa demoniaca negazione che si protrae per ore, giorni, settimane, mesi, anni. Sempre con la stessa determinazione, sempre con la stessa incrollabile fermezza: senza una lacrima, senza un sospiro, senza un istante di cedimento, di debolezza, di rimorso. Non a caso abbiamo usato l'aggettivo 'demoniaco': tutto ciò è demoniaco nel senso letterale della parola: demoniaco è l'atteggiamento di chi, dopo aver compiuto il male, non si limita a cercare di minimizzarlo o a negarlo in quanto tale, cioè in quanto atto malvagio, ma lo nega in toto, affermando di non aver fatto proprio nulla, di essere anzi vittima di un'orribile congiura e cercando di scaricare su terzi - quando non, addirittura, sulla vittima stessa - la responsabilità del crimine.

Perché abbiamo parlato di mutazione antropologica? Perchè comportamenti del genere, seppure sono accaduti altre volte nel passato, costituivano delle rarissime eccezioni e perché quasi mai, se non proprio mai del tutto, un tale comportamento veniva tenuto non da criminali di professione, da  persone comuni che avevano infierito contro le proprie vittime, specialmente se si trattava di congiunti. Sempre, prima o dopo, al delitto seguiva una confessione liberatoria. Perché crollare, confessare, liberarsi dal peso della colpa è un comportamento semplicemente umano: anche il criminale più incallito - e, a maggior ragione, un individuo qualsiasi, magari dalla fedina penale assolutamente immacolata - non può non sentirne la profonda necessità.

Raskolnikov, in Delitto e castigo di Dostojevskij, finisce per crollare e per confessare il suo duplice delitto - della vecchia usuraia e della sorella di lei: la prima vittima intenzionale, la seconda casuale - non perché l'ispettore di polizia, che ha compreso tutto ma non ha le prove, riesca ad 'incastrarlo', bensì per un bisogno di espiazione che sale dal suo intimo.

"Raskolnikov sentiva che su di lui era come piombato addosso qualcosa e l'aveva schiacciato.

" - Siete di nuovo, sembra, impallidito. Qui da noi c'è un'aria così chiusa…

" - Sì, per me è tempo, - mormorò Raskolnikov - scusate, v'ho disturbato…

" - Oh,, per carità, quanto vi garba… M'avete procurato un piacere e son lieto di dichiararlo…

" - Ilia Petrovic tese perfino la mano.

" - Io volevo soltanto… Ero venuto da Zamiotov… -

" - Capisco, capisco, e m'avete fatto piacere.

" - Io… lietissimo. A rivederci… - sorrideva Raskolnikov.

"Egli uscì; barcollava. Aveva il capogiro. Non sentiva le gambe sotto di sé: Prese a scender la scala, appoggiandosi con la mano destra al muro. Gli parve che un certo portiere, con un libretto in mano, l'avesse urtato, salendo, incontro a lui, nell'ufficio; che un certo cagnuzzo abbaiasse a perdifiato in qualche posto al piano inferiore e che una certa donna gli avesse tirato contro il  mattarello e si fosse messa a gridare. Egli scese abbasso è uscì in cortile. Lì in cortile, non lontano dall'uscita, stava Sonia, pallida, tutta tramortita, e lo guardò attonita. Egli le si fermò davanti. Un che di doloroso e di accasciato si dipinse sul volto di lei, un che di disperato. Ella giunse le mani. Un informe, smarrito sorriso affiorò sulle labbra di lui. Egli sostò un poco, sogghignò e voltò di nuovo in su, verso l'ufficio.

"Ilia Petrovic s'era posto a sedere e rovistava certe carte. Davanti a lui stava quello stesso tipo di contadino che dianzi aveva urtato Raskolnikov, salendo la scala.

" - A - a - ah! Di nuovo voi! Avete lasciato qualcosa?… ma che avete?

"Raskolnikov, con labbra sbiancate, con uno sguardo immobile, s'avvicinò piano alui, s'accostò proprio alla tavola, vi s'appoggiò con una mano, e voleva dire qualcosa, ma non poteva, si udivano  solo certi suoni sconnessi.

" - Vi prende male, una sedia! Ecco, sedete qui, sedete!  Dell'acqua!

"Raskolnikov s'era lasciato andare sulla sedia, ma non levava gli occhi dal viso di Ilia Petrovic, molto spiacevolmente meravigliato. Entrambi si guardarono l'un l'altro circa un minuto, aspettando. Fu portata dell'acqua.

" - Sono io… - già stava cominciando Raskolnikov.

" - Beve dell'acqua.

"Raskolnikov scostò l'acqua con la mano e piano, con pause ma distintamente, proferì:

" - Sono io che quel giorno uccisi la vecchia vedova dell'impiegato e la sorella di lei, Lisaveta, con un'accetta, e le derubai.

"Iija Petrovic aprì la bocca. Da tutte le parti accorsero.

"Raskolnikov ripeté la sua confessione…" (traduzione di Silvio Polledro, Rizzoli ed.).

 

Si dirà che questa è letteratura, come è letteratura il doppio suicidio-omicidio dei due 'amanti diabolici' che, in Thérese Raquin di Émile Zola, pone fine a lunghi e strazianti rimorsi per l'assassinio del povero marito della protagonista. Si dirà che, nell'Ottocento, il pubblico voleva vedersi sciorinare davanti dei sentimenti edificanti, come il senso di colpa e la relativa espiazione, e che gli scrittori gli fornivano la 'mere' richiesta. Chi facesse questa obiezione, però., dimenticherebbe che se è vero che non si dà offerta senza domanda, è vero pure il contrario: non v'è domanda che non nasca da una esigenza, magari inconsapevole, e dunque non v'è domanda che non presupponga una offerta. In altre parole, se questo voleva il pubblico ottocentesco, è perché in quei valori credeva, o almeno voleva credere; e se pure essi venivano spesso e volentieri negati e calpestati nella prassi quotidiana, cionondimeno nessuno osava negarli in quanto tali. Allo stesso modo, è legittimo affermare che l'ideale umano del Medioevo è stato quello della santità; e se San Francesco e Santa Chiara furono personaggi abbastanza rari nel panorama di quella civiltà, dedita a violenze e crudeltà quasi inimmaginabili, è pur vero che nessuno osava negare che a quell'ideale umano fosse giusto aspirare, anche se la vita concreta della stragrande maggioranza elle persone non  vi si avvicinava neanche lontanamente. Questo paragone, sia detto per inciso, ci porterebbe a domandarci quale sia l'ideale umano cui tende la tanto decantata modernità: ma non è questa la sede appropriata per sviluppare un tale discorso, e ci ripromettiamo di riprenderlo in altro momento.

Perfino ne I fuori del male di Charles Baudelaire, che subì un processo e una condanna per oltraggio alla morale, si staglia esplicito un intento moralizzatore, anzi forse nessuno come Baudelaire ha saputo descrivere con potenza drammatica i frutti amari del rimorso e la condizione di auto-punizione che il peccato reca con sé, (come afferma San Paolo nella Lettera ai Romani, 1, 24-25): "Perciò Dio, lasciando che essi seguissero i perversi desideri dei loro cuori, li abbandonò all'impurità, di modo che essi disonorarono i loro corpi tra di loro, scambiarono la verità di Dio con la menzogna e adorarono e servirono le creature anziché il Creatore, che è benedetto nei secoli. Amen."

Ad esempio nella poesia Femmes damnées (Delphine et Hyppolite), che fa parte di Lesbos, esplicitamente si descrive la condizione psicologica di chi, consapevole del peccato commesso, si crea già qui ed ora il proprio Inferno, un Inferno fatto di lussuria mai interamente appagata e di oscura coscienza della violazione di una legge etica superiore, che l'incapacità di reagire non attenua ma anzi rende più cocente e torturante (trad. di Claudio Rendina, Newton Compton ed.).

"(…) Ma Ippolita allora, alzando la giovane testa:

-         Non sono affatto ingrata e non mi pento,

mia Delfina: soffro e sono inquieta

come dopo un notturno terribile festino

 

"Mi precipitano addosso gravi spaventi

e neri battaglioni di fantasmi sparsi

che vogliono portarmi per strade scoscese

chiuse ovunque da un orizzonte sanguinante." (…)

 

"(…)… Che abisso si spalanca

in me! È l'abisso del mio cuore

 

"che brucia, come un vulcano, profondo come il vuoto!

Nulla sazierà mai questo mostro in lacrime

E nulla sazierà la sete dell'Eumenide

Che lo brucia fino al sangue con la torcia in mano!  (…) -

 

"Vittime in lamento, calate giù, calate lungo il sentiero dell'eterno inferno!

Sprofondatevi nel più profondo abisso,

con tutti i crimini sbattuti da un vento non celeste

 

"che ribollono alla rinfusa con rombo d'uragano!

Ombre folli, correte al fine dei vostri desideri!

Quando mai la vostra rabbia sarà sazia?

Dai vostri piacere nascerà la vostra pena!

 

"Mai un raggio fresco illuminò le vostre grotte:

miasmi febbrili filtrano dai muri,

per le fessure, e s'accendono come lanterne

penetrando nel vostri corpo con profumi orrendi!

 

"La sterilità aspra della vostra gioia

esaspera la sete e fa rigida la pelle;

il vento furioso della concupiscenza

fa schioccare la carne come vecchia bandiera!

 

"Lontano da chi è vivo, dannate senza pace!

Via per deserti, come lupi!

Con il vostro destino, anime sfrenate,

fugge l'infinito che sta dentro di voi!"

 

Ciò a cui si assiste oggi, sempre più spesso, è al contrario la rimozione dell'idea stessa della propria colpevolezza, non della colpa in generale e neanche di quella colpa specifica: piuttosto, la responsabilità ne viene addossata ad altri. Quel che conta è cancellare l'idea stessa, anzi la medesima possibilità di aver commesso una colpa: sono gli altri a commetterne, sempre e solo gli altri. Che si tratti di un delitto assolutamente gratuito commesso ai danni di un perfetto sconosciuto (come la povera studentessa dell'Università "La Sapienza" che venne uccisa da un colpo di pistola alla testa mentre camminava nel cortile dell'ateneo), oppure che riguardi una tragedia consumata entro le pareti domestiche e avente come vittime dei bambini piccolissimi, i propri figli, sempre più spesso assistiamo allo stesso copione: la negazione totale, la rimozione totale. Un imperterrito atteggiamento di assoluta innocenza, di assoluta estraneità, non di rado accompagnato da una strategia ben precisa di delegittimazione nei confronti delle autorità inquirenti o dell'autorità giudiziaria. La propria innocenza viene sostenuta mirando a sostenere l'incapacità o addirittura la malafede degli accusatori, presentati come personaggi cinici alla ricerca di un capro espiatorio qualsiasi. Ora, l'innocentismo è un atteggiamento mentale che può contare su una diffusa simpatia negli umori della cosiddetta opinione pubblica e si sposa con un altro vizio mascherato da virtù civica: il garantismo, che non è rispetto dei diritti della persona (quelli sono già assicurati allo Stato di diritto) ma tesi precostituita dell'innocenza di tutti e di ciascuno, a meno che qualcuno riesca a dimostrare il contrario. E sia l'innocentismo che il garantismo a oltranza, mediante il quale è possibile rimettere in libertà persone indiziate di reati gravissimi e chiaramente nelle condizioni di poter reiterare il reato o di sottrarsi alla giustizia, nascono da una stessa filosofia: la filosofia secondo la quale il cittadino è soggetto di sempre nuovi diritti, ai quali però non vengono fatti corrispondere, in misura uguale e contraria, altrettanti doveri. Ma quest'ordine di riflessioni ci porterebbe troppo lontano dal nostro assunto, e - per il momento - ci fermiamo qui.

Vogliamo invece evidenziare quali siano le conseguenze, sul piano psicologico e morale, della rimozione della colpa da parte di chi ha infranto la legge morale. Se la colpa viene negata, viene negata anche la possibilità dell'espiazione e, quindi, della redenzione; viene negata la possibilità che il male compiuto, riconosciuto come tale, venga rielaborato e trasformato in pentimento e rinascita morale dell'individuo. Ora, il fatto che la colpa venga negata a parole, o anche nei propri pensieri, non vale a rimuoverla realmente alle profondità della coscienza: essa vi rimane, pesante come un corpo estraneo, e lentamente marcisce, intossicando con la sua negatività tutta la vita interiore della persona. Anche nel caso che la rimozione sia così drastica da portare all'autoconvincimento della propria innocenza, sotto il livello della consapevolezza essa continua a covare come un fuoco sotto la cenere: nulla potrà farla scomparire o tacitarla per sempre.

A quel punto, la persona cadrà nell'inferno che si è fabbricato con le proprie mani: l'inferno della distruzione di ogni speranza di redenzione. La persona che viene a trovarsi in un tale stato di coscienza diviene, alla lettera, posseduta dal male commesso; e il male così fermentato finirà per divenire tutt'uno col grande Male, col Male che è all'origine di tutti i mali. Costei potrà anche farla franca nel mondo degli uomini, ingannando i suoi simili ed eludendo la punizione terrena; ma cadrà in preda di mille diavoli scatenati, i diavoli della colpa senza redenzione che si agitano, ruggendo e graffiando, nelle profondità della coscienza, celebrando il proprio infernale trionfo. Perché, a quel punto, l'anima della persona sarà letteralmente perduta: anzi si potrebbe dire che di quella persona non rimane che il simulacro esterno, mentre nulla di veramente umano è rimasto in essa. Vi sono degli individui - satanisti praticanti, ad esempio - che hanno cessato di essere umani: non sono ormai altro che fantocci nelle mani del Male, che di essi si serve per perseguire i suoi disegni di caos e distruzione. Ebbene, anche la rimozione totale di una colpa grave può produrre un analogo risultato: la persona si disumanizza, perde i suoi connotati di creatura umana e diviene un essere diabolico, che dal male attinge la forza di non provare alcun rimorso.

Ora, quello che caratterizza l'esistenza umana è la realizzazione di una struttura di possibilità, di relazioni con l'altro e con sé stesso, di cadute e di riprese: in linguaggio cristiano, di peccato e di grazia. Come scrive, da un punto di vista fenomenologico-esistenzialista, Giuseppe Semerari (in Scienza nuova e ragione, Milano, Silva Editore, 1966, p.85): "(…) la norma esistenzialmente coerente è quella perla quale diventa possibile la struttura della coerenza in quanto struttura di possibilità. Il significato della norma si spiega in tutta la sua estensione, quando ricordiamo che il possibile è relatività, struttura di relazione. Rendere normativamente possibile la struttura della esistenza significa rendere positive le possibilità di relazione, onde le scelte saranno autentiche o inautentiche nella misura i cui avranno reso o no possibili le relazioni. Chi sceglie in modo da precludersi la possibilità della relazione (…) o in modo da delimitarla arbitrariamente, sceglie contro la struttura e la norma, sceglie inautenticamente."

Parafrasando questa definizione, potremmo dire che chi sceglie in modo da precludersi la possibilità della redenzione agisce in modo da precludersi la possibilità ella relazione con l'altro, includendovi la parte più profonda della coscienza morale, gli altri individui e lo stesso ordine cosmico, che è fatto di una rete di relazioni interrelate per mille e mille fili. In altri termini, la rottura della legge morale provoca uno squilibrio nell'intera struttura dell'esistente la quale invoca, per ritrovare la perduta armonia, una riparazione sotto forma di ammissione della trasgressione e di aspirazione alla redenzione mediante il ristabilimento della Legge (i comandamenti del cristianesimo, il tao dei taoismo, il dharma dei buddhismo e così via). Si può discutere, ovviamente, se la redenzione si debba intendere solo come relazione con il trascendente, o anche come fatto puramente immanentistico: ciò dipende dalla visione che si ha della relazione esistente fra gli enti. Se la si ritiene puramente naturalistica, l'armonia nasce dall'ordinato funzionamento dell'insieme e la redenzione si persegue mediante la ricostituzione dell'equilibrio perturbato. Il fatto è che tale ricostituzione, in un orizzonte puramente immanentistico, non può essere ottenuta al cento per cento: non solo perché l'ordine spezzato produce conseguenze che si ripercuotono ovunque e che è impossibile annullare, pur con la miglior buona volontà (una persona uccisa, ad es., non potrà resuscitare, per quanto l'omicida si penta del suo gesto); ma anche perché, al di sopra degli enti che possono anche essere riportati allo stato precedente la rottura, vi è un principio superiore che è stato offeso, il principio che sottende l'armonia reciproca fra gli enti e che fonda la loro stessa possibilità esistenziale. A nostro parere, è necessario riconoscere che esiste una Legge con la lettera maiuscola, che garantisce l'ordinato svolgimento della vita morale della coscienza: una Legge che è superiore a ciascuna legge contingente e storicamente determinata e che è, per sua essenza, mistero rispetto alla nostra facoltà di comprendere; una Legge che permea ogni cosa di sé e che richiede la nostra fattiva collaborazione, presupponendo la nostra capacità di compiere scelte responsabili. Se non vi fosse tale capacità, non vi sarebbero colpe e tanto meno peccati, ma solo errori d'inadeguatezza.

La civiltà moderna ha ristretto sempre più e, alla fine, abolito il concetto della colpa. Caduto il concetto della colpa, cade anche l'esigenza della redenzione e dello strumento ad essa necessaria, che è la grazia. L'essere umano, ente finito, vuol farsi norma e legge a sé medesimo; ma non sa ove fondare le sue proprie leggi, data la natura sempre transeunte delle norme morali. Da quella mutevolezza, egli trae la conclusione che non esiste alcuna Legge e cade nella forma più orgogliosa e distruttiva di antropocentrismo: come se il mondo intero fosse fatto a suo uso e consumo. E così è stato: senza gratitudine per gli altri enti, senza alcun senso di moderazione nei loro confronti, l'essere umano fattosi Dio a sé medesimo ha costituito la più rande calamità per tutti gli enti non-umani (oltre che, beninteso, per moltissimi esseri umani: Hiroshima è un crimine contro il creato, ma lo è anche contro l'uomo). Questo è il terreno fertile ove è maturata la mutazione antropologica consistente nella rimozione della colpa.

Al processo di Norimberga abbiamo visto degli esseri umani, responsabili di crimini orrendi, negare che quelle azioni fossero colpe. (Tralasciamo, in questa sede, gli aspetti aberranti di quel processo dal punto di vista giuridico; e tralasciamo pure il fatto, storicamente inoppugnabile, che le potenze giudicanti commisero, nella seconda guerra mondiale, crimini che sarebbero stati altrettanto meritevoli di una dura sanzione internazionale, a cominciare dalle distruzioni aeree compiute ai danni delle popolazioni  civili). Quella imperturbabilità, quella fredda determinazione a negare ogni addebito li abbiamo visti dipinti sui volti di molti esseri umani che le tristi cronache di violenza dei nostri giorni ci hanno mostrato in continuazione. Si arriva al punto di uccidere un essere umano, per futili motivi, trafiggendogli un occhio con la punta di un ombrello: e di cercare di far ricadere la responsabilità dell'accaduto su una presunta violenza compiuta dalla vittima. Qualunque cosa, qualunque menzogna pur di negare la colpa, pur di sfuggire alla pena. Abbiamo visto amministratori e finanzieri corrotti, che da anni gestivano giri perversi di tangenti d'ogni tipo, assumere i toni dell'innocenza ferita e sbraitare che i veri delinquenti erano i giudici che li perseguivano. Abbiamo visto capi ella malavita organizzata, responsabili della morte di decine di esseri umani, arringare senza pudore il pubblico nelle aule di giustizia, vantando le loro benemerenze di brave persone, oneste e laboriose. Abbiamo visto e vediamo governi e addirittura popoli (come quello turco) negare crimini collettivi come il genocidio, ove persero la vita milioni d'individui. E vediamo capi di Stato dare inizio a operazioni di guerra (senza avere il coraggio di chiamarle tali) che dovrebbero, secondo le loro parole, portare alla vittoria del Bene sul Male: il tutto provocando sofferenze indicibili e la morte di un numero incalcolabile di persone, senza parlare dell'uso sistematico della tortura, della menzogna, dell'impiego di armi proibite dalle leggi internazionali, della manipolazione della verità.

Come stupirsi se, in un tale contesto culturale, sempre più assistiamo allo spettacolo di singoli individui che, dopo aver commesso il male, si dicono assolutamente innocenti, e a questo doppio delitto aggiungono quello di accusare persone totalmente estranee per depistare la ricerca della verità?