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Pasticcio Kosovo: un “regalo” di Washington

di Roberto Zavaglia - 30/05/2007

Alla fine del 2006, in

sette anni, erano stati

concessi al Kosovo,

da vari organismi internazionali,

finanziamenti stimati fra i

10 e i 15 miliardi di euro. Non

poco per una regione che è

grande pressappoco come l’Abruzzo

e ha circa due milioni

di abitanti. Del denaro stanziato

solo 800 milioni di euro

sono stati impiegati per iniziative

portate a termine. Questo

enorme divario è simile ai

risultati di altre missioni internazionali,

come quella in

Afghanistan, nelle quali i

“beneficati” vedono sparire in

mille rivoli, non escluso quello

della criminalità, gli aiuti a

loro teoricamente destinati. In

Kosovo una bella fetta della

torta se l’è accaparrata la pletorica

amministrazione dell’ONU

(Unmik), che annovera

11mila persone impiegate, con

un costo annuo di 1,3 miliardi

di dollari.

A dare dimensioni elefantiache

al Governo delle Nazioni Unite

è stato Bernard Kouchner, il

celebrato medico francese che

Sarkozy ha voluto come ministro

degli Esteri nel suo nuovo

Governo, tra il plauso generale

di tutta la stampa. A noi questo

personaggio e la sua voglia di

protagonismo suscitano, invece,

preoccupazione, perché

temiamo che cercherà di spostare

l’asse della politica estera

francese verso l’“umanitarismo

militare” di stampo USA,

nonostante i disastri già provocati

da questa nefanda ideologia.

Del resto, il lavoro di

Kouchner a Pristina non può

essere definito un successo,

anche se il segretario generale

dell’ONU in Kosovo si è attribuito

autorità legislativa, esecutiva

e giudiziaria.

Il flusso di denaro non ha certo

aiutato lo sviluppo economico,

se consideriamo che il già

misero Pil è, negli ultimi anni,

sceso e il tasso di ufficiale di

disoccupazione è intorno al

60%. Il Kosovo non produce

niente, ma importa una sorprendente

quantità di generi di

consumo il cui acquisto, non è

un mistero, è consentito solo

dai proventi di una criminalità

che estende i suoi gangli a tutta

la società. La mafia kosovara,

fortemente connessa con i

partiti di etnia albanese e con

gli ex miliziani dell’Uck, si è

specializzata nel traffico di

droga, con una predilezione

per l’eroina, e in quello degli

esseri umani, del quale la prostituzione

è il cespite principale.

La delinquenza, dopo otto

anni di amministrazione ONU,

è un vero e proprio potere con

il quale le autorità ufficiali

devono venire a patti, quando

non ne sono affiliate.

Più positivo è il bilancio della

missione NATO, che, con i

suoi 16mila soldati, tra cui

2.300 italiani, ha protetto

la minoranza serba dalle

aggressioni degli albanesi,

incominciate subito

dopo la ritirata dell’esercito

jugoslavo. Ciò non

ha impedito sanguinose

fiammate di violenza da

parte degli albanesi, la

più grave delle quali si è

verificata nel marzo

2004, e non ha evitato

alle comunità serbe isolate

una condizione di

reclusione protetta dalla

forza internazionale. I

serbi, inoltre, hanno perso

la speranza di vedere

rientrare le loro decine

di migliaia di profughi.

Adesso ci sono segnali

che l’ostilità dell’etnia

albanese si stia spostando

verso l’amministrazione

delle Nazioni Unite

che vengono accusate

di tirarla troppo in lungo

con l’indipendenza, promessa

ufficiosamente.

Il 26 gennaio scorso, con un

certo ritardo, l’inviato speciale

dell’ONU, Martti Ahtisaari, ha

presentato il suo piano per lo

status futuro della regione che,

pur non nominando apertamente

l’indipendenza, di fatto

ne è l’anticamera. Vojislav

Kostunica, che da pochi giorni

è di nuovo alla guida del

Governo della Serbia, ha

respinto il piano, dichiarando

che non accetterà mai un’indipendenza

mascherata. Belgrado

accusa l’ex Presidente finlandese

di avere oltrepassato i

confini del suo incarico, che

sarebbero stati delimitati dalla

risoluzione 1.244 dell’ONU

del giugno ’99, la quale manteneva

la sovranità serba in

Kosovo.

L’opposizione della Russia ha

stoppato la proposta in Consiglio

di Sicurezza, dando il via

a una nuova missione diplomatica

con l’improbo incarico

di trovare una soluzione accettabile

per tutti. Il fermo atteggiamento

di Mosca si spiega,

oltre che con il tradizionale

“patrocinio” sui popoli slavi,

anche con l’attuale stato di

tensione dei suoi rapporti con

gli USA. La Russia,

che giudica la secessione

del Kosovo un pericoloso

esempio per i

conati indipendentisti

all’interno dei propri

confini, ha fatto trapelare

la minaccia di reagire

con la stessa

moneta, spingendo le

comunità russe di

Abkhazia e Ossezia del

Sud, sotto sovranità

della Georgia, a muoversi

nella medesima

direzione.

L’indipendenza del

Kosovo rischia di creare

un effetto domino

anche in Macedonia,

dove i serbi della

Repubblica Srpska

potrebbero pretendere,

per reazione, di riunirsi

alla madre patria, e tra

gli stessi serbi del Nord

del Kosovo.

Per il diritto internazionale la

secessione del Kosovo costituisce

una novità, perché l’indipendenza

delle Repubbliche

ex sovietiche era stata accettata

da Mosca, mentre, in Jugoslavia,

a promuovere la secessione

erano Repubbliche con

confini stabili e non modificati,

facenti parte di una federazione

definita dai giuristi in

via di dissoluzione.

Anche se difficilissima, una

soluzione per il Kosovo va

cercata. I serbi vedono in quella

regione il sacro focolare della

propria patria, ma i cittadini

di etnia albanese sono ormai il

90% della popolazione e in

nessun modo accettano la

sovranità di Belgrado.

Il problema delle patrie contese

è uno dei più gravi del

nostro tempo e la comunità

internazionale non ha ancora

saputo trovarvi soluzioni adeguate.

I bombardamenti della

NATO del 1999, preceduti dalla

solita campagna di disinformazione

su un inesistente

genocidio albanese, si rivelano

ancora più insensati adesso,

quando nessuna via sembra

percorribile senza gravi pericoli

di conflitto. Nel piano di

Ahtisaari ci sono indicazioni

interessanti, come l’aumento

da 5 a 8 delle municipalità a

maggioranza serba e il programma

di protezione per gli

antichi monasteri ortodossi

sparsi per il Paese. Potrebbe

essere una base per nuove trattative,

con il massimo delle

garanzie per la minoranza, tese

a far digerire ai serbi la perdita

di un territorio che considerano

proprio. La fretta, nonostante

le pressioni degli

albanesi, sarebbe sbagliata,

anche perché l’ONU, conclusa

la sua bella prestazione, leverà

le tende e a sorvegliare il nuovo

Stato sarà una missione

dell’Ue la quale rischia di bruciarsi

per domare l’incendio

attizzato dagli USA in una

regione del suo continente.