Curzio Malaparte. La scrittura come avventura.
di Stenio Solinas - 30/05/2007
L
’inquadratura diRobert Doisneau
è del 1949 e
davanti alla macchina
fotografica,
in una stanza in
penombra che al
di là della finestra lascia intravedere una
città al tramonto, un uomo guarda fisso l’obiettivo.
È seduto nel suo studio, le braccia
conserte, una polo di jersey sotto la giacca,
dei fogli, dei libri, un paio di occhiali sul
ripiano della scrivania. Le labbra sono sottili,
gli occhi penetranti, sembra guardarti,
ma allo stesso tempo sfuggirti, una presenza-
assenza che un po’ inquieta. Il viso è
coperto da una mascherina di seta nera, di
quelle da serate mondane, ma anche da
commedia dell’arte e da film di cappa e
spada. Dietro di essa c’è Curzio Malaparte.
La maschera e il volto è un buon soggetto
fotografico, ma non c’è dubbio che se Doisneau
ne è l’impeccabile realizzatore, l’idea
è dello scrittore. Ha poco più di cinquant’anni,
si è trasferito a Parigi dopo le polemiche
suscitate in patria con
La pelle, siporta dietro le accuse di camaleontismo e di
protagonismo, di apparenza e non di
sostanza, è sempre stato un «io» in cerca
del suo «altro», Kurt e Curzio, Suckert e
Malaparte. Gli resta da vivere ancora una
manciata di anni e anche quelli li passerà
così, inafferrabile e come in fuga, l’Italia e
la Francia, la Russia e la Cina, Palmiro
Togliatti accanto al suo letto d’ospedale,
padre Virginio Rotondi al suo capezzale.
Muore che non ne ha nemmeno sessanta, il
19 luglio del 1957.
Non sorprende che nel cinquantenario della
scomparsa, il primo omaggio critico venga
dalla Francia, questo
Pour Malaparte diBruno Tessarech (Buchet/Chastel, 209
pagine, 13 euri). Perfettamente bilingue, il
suo primo grande libro,
Technique du coupd’État
, fu scritto in francese e lì venne pubblicato,e sempre per lui quella fu la nazione
dell’arte della conversazione, civile e
mondana, dove la cultura aveva un ruolo e
un peso, l’intellettuale uno status e gli scrittori
non finivano in galera o al confino per
le loro idee. Li si poteva ghigliottinare o
fucilare, ma non privarli della loro libertà,
della loro dignità. Non si trattava di un
amore a senso unico, e infatti in Francia
Malaparte resta un classico, pressoché integralmente
tradotto, i suoi libri più celebri
ancora ristampati. Il rapporto è stato favorito
dal sostanziale disinteresse, un misto di
incomprensione e di non volontà a capire,
di ignoranza e superficialità che riguarda
gli aspetti politici dell’Italia, il Fascismo in
primis, che nel caso di Malaparte lo ha
posto al riparo da quell’immagine sulfurea,
fascista, antifascista, voltagabbana che così
a lungo lo ha marchiato in patria e che
ancora oggi si nutre più di leggende, partiti
presi, antipatie critiche e pregiudizi, che
non di una matura valutazione.
Sotto questo aspetto, il saggio di Tessarech
non presenta alcuna novità, il Malaparte
ideologo è più che altro un fascista per
caso, su cui non vale neppure la pena di
soffermarsi troppo perchè ben più importante
è lo scrittore, lo stilista, il cronista di
un’epoca... Nemmeno noi perderemo tempo
a controbattere questa impostazione,
tanto essa è risibile e per nulla documentata.
E d’altra parte l’interesse del libro è
altrove, in una sorta di profilo dello scritto-
scrittura
come avventura.
Qui Tessarech è nel suo elemento, anche
perché da Malraux a Drieu ad Aragon, per
non parlare del capostipite di tutti questi,
Chateaubriand, la letteratura francese offre
un vasto campionario di super-io in cerca di
gloria e di realizzazione. Quanto all’autore
delle
Memorie d’oltretomba, è lo stessoMalaparte a tracciare un paragone che è
anche in fondo un autoritratto: «Mi sento
più vicino a lui che a qualsiasi altro scrittore
moderno, la stessa dolcezza davanti alle
cose semplici della vita, la stessa nostalgia
davanti a un mondo che volge al termine».
E, naturalmente, la stessa tendenza a un io
ipertrofico: «Amo questo continuo disprezzo
degli uomini nuovi, questa apparente
fedeltà alle idee antiche, ai costumi, ai
gusti, alle gioie, alle pene, ai sentimenti, ai
piaceri della vecchia Francia, nella quale,
malgrado quello che ne dice in proposito,
non credeva più, amo questo amore nascosto
per le idee nuove, per la nuova Francia,
per la nuova gloria».
Il nome Malaparte, ricorda Tessarech, viene
da un opuscolo stampato a Torino nel 1869
con l’enigmatico titolo
Les Malaparteet les Bonaparte dans le
premier centenaire d’un Malaparte-
Bonaparte
. La tesi in essosostenuta è che all’origine Malaparte
fosse il vero nome della
famiglia di Napoleone, e solo
degli oscuri servizi resi al Vaticano
avevano permesso, con l’autorizzazione
papale, il suo cambiamento
in positivo, la parte buona
che sostituisce quella cattiva, la
mala parte appunto... E però,
diceva l’autore del libretto, restava
sulla famiglia una minaccia:
se un discendente si fosse infatti
comportato in modo disdicevole,
la dinastia ereditaria sarebbe stata
di nuovo condannata all’antica
denominazione...
Leggerlo e impadronirsi della
storia, sarà per Kurt Suckert un
tutt’uno: sarà lui che abbasserà
quel nome, decide, sarà lui che
farà scattare la maledizione...
«Bonaparte era già preso» ironizzerà
con Galeazzo Ciano, e dunque...
E questo stare fin nell’anagrafe dalla
parte sbagliata, dal lato negativo, non è
altro che l’annuncio del futuro romanziere
delle catastrofi, consapevole in fondo che la
vittoria non è altro che la prosecuzione della
sconfitta sotto altre forme...
Brillante, spiritoso, egoista ed egotista, casitano
di sventura, ovvero di mala ventura, il
piglio da seduttore e da conquisitatore e
però, malinconico e serio, ha scritto Raffaele
La Capria che lo frequentò, «come uno
dei saltimbanchi del periodo blu di Picasso
», Malaparte fu sempre sopra le parti,
ovvero eccessivo. «Non gli credo neppure
quando dice la verità» commenterà una volta
Moravia. Tessarech ricorda il racconto di
Orfeo Tamburi del progetto di un Curzio,
prossimo ai cinquant’anni, di trasformare la
sua casa al Forte dei Marmi in un ristorante...
«È tempo che guadagni dei soldi, molti
soldi. Che viva senza lavorare. E quindi,
assumo un grande chef che non servirà che
piatti raffinati e molto cari e io, io passo fra
i tavoli raccontando aneddoti, come se niente
fosse. I clienti ne saranno affascinati,
sono ghiotti di pettegolezzi, di curiosità.
Parlerò di tutto, le mie due guerre, i miei
viaggi, le persone che ho conosciuto, le star
del cinema, gli uomini politici, gli scrittori.
Racconterò di Mussolini, Lenin, Stalin. Chi
oggi racconta Mussolini agli italiani?
Nessuno».
La sua fu una vita pubblica fragorosa,
sempre sopra le righe. Ma il divismo
cui lo condannava il suo fisico e la sua
baldanza aveva in sé l’elemento forte
di un pensiero, il nucleo di un’ideologia
e risiedeva qui la sua eccezionalità,
la sua pericolosità e in fondo la sua
estraneità a una cultura quale quella
italiana, per molti versi provinciale.
Degli scrittori suoi contemporanei,
quello che più gli somiglia non a caso
è un francese: Drieu. Il tema della
decadenza che ossessionerà quest’ultimo
è quello che Malaparte, da
La pellea
Mamma marcia, farà proprio: ildecomporsi di una civiltà e l’impossibilità
di porvi un freno, l’aver sognato
un ritorno a valori antichi, elementari,
come antidoto, il doverne constatare il
fallimento, il prendere atto della fine
di un mondo. La malinconia fu in lui il
frutto agrodolce che il sentirsi diverso,
l’orgogliosamente sentirsi diverso
genera attraverso la solitudine: più
esternamente ed esteriormente ci si
concede, più intensamente ci si barrica
a difesa e a salvaguardia di sé stessi.
Mezzo secolo dopo, resta questa
immagine di solitudine e di malinconia,
una bulimia di vita e di scrittura,
un fondo di disperazione e un pugno di
capolavori, la buona parte di quello
che fu Curzio Malaparte.