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Crac Parmalat, le banche sapevano tutto

di Stefano Taddei - 30/05/2007

Cè uno slogan che campeggia

in ogni filiale di una Banca

che ha fatto dell’etica anche la

propria denominazione sociale: “L’interesse

maggiore è quello di tutti”. Banale?

Non tanto, perché nei momenti in cui la

percentuale degli interessi sui risparmi e

sui titoli di Stato toccavano le poche unità,

il cittadino risparmiatore si rivolgeva agli

sportelli bancari chiedendo il “massimo”.

Dall’altra parte i dipendenti bancari, a contatto

con la clientela, avevano difficoltà a

consigliare ma erano stretti tra i budget da

rispettare, con sollecitazioni ai limiti della

violenza (come affermano le organizzazioni

sindacali di categoria) e come qualche

magistrato ha cominciato ad indagare

anche in occasione di qualche altra “forzatura”

(For you, My way, bond argentini),

ed una informativa professionale non sempre

impeccabile. Adue anni

di distanza dal crac Parmalat

la Banca d’Italia ha trasmesso

alla Procura di Parma

l’elenco delle Banche che “in

periodo sospetto” (almeno un

anno prima della dichiarazione

di insolvenza) hanno trasferito

sulla clientela quelle obbligazioni

che a suo tempo avevano

sottoscritto anche per rientrare

delle loro esposizioni correnti

(scoperti di cassa o anticipi

per importazioni di merci o

anticipazioni su fatture commerciali,

a posteriori rivelatesi

anche duplicate, triplicate o

quadruplicate).

Perché la clientela avrebbe

dovuto chiedere di comprare

obbligazioni Parmalat ? Perché

in effetti avevano dei tassi

di rendimento maggiori rispetto

alla media. Ma il prezzo (e

quindi il rendimento) lo fa in

venditore che se vuole disfarsi

di certa merce la deve rendere

economicamente attrattiva. E

se una banca si priva di titoli

(la sua merce di investimento

privilegiata) vantaggiosi c’è

evidentemente una valutazione

di rischio sottostante che la

induce a tanto. E la valutazione

risiedeva nel fatto che le

difficoltà di Parmalat erano

ben conosciute.

Già nell’aprile 2003 una quarantina

di Banche capeggiate

da Capitalia, Mps e Intesa si

erano sacrificate nel piano di

salvataggio di Parmatour, il

braccio turistico Parmalat ed il

giocattolo di famiglia Tanzi.

Inoltre è difficile da credere

che nessuno degli analisti delle

Banche si fosse accorto che

i dati della Centrale Rischi

evidenziavano delle anticipazioni

sul fatturato pari al fatturato

stesso: possibile che nessuno

dei clienti Parmalat

pagasse le fatture?

La risposta evidente è che

all’approssimarsi delle prime

piogge si sono cercati gli

opportuni “ombrelli”. Perché

il cielo su Parmalat è sempre

stato nuvoloso sin dal suo

approdo in Borsa agli inizi

degli anni ’90, ed anche prima,

ovvero dal momento che

si è voluto trasformare un

caseificio artigianale in una

multinazionale potendo contare

solo sugli appoggi politici e

bancari.

Ed il primo ombrello è stato

quello di trasferire i titoli dal

portafoglio interno delle Banche

a quello della clientela,

consigliando, più o meno subdolamente,

sulla base dei prezzi

offerti. Ecco perché dai 229

milioni di euro in mano alle

Banche a fine 2002 si giunge

agli appena 31 a dicembre

2003. 31 milioni di cui 18 in

mano a Banca Popolare Italiana

(Tanzi faceva parte del

Consiglio di Amministrazione),

6 in collo a Monte dei

Paschi (il legale di Tanzi a

New York è un certo Zini,

parente del già Direttore

Generale) mentre Capitalia era

rimasta con appena 480 mila e

Deutsche Bank Italia, che a

settembre 2003 annuncia una

ennesima emissione e poi la

ritira, li aveva venduti tutti.

Il Sistema bancario ne ha

risentito di immagine e di credibilità

ma soprattutto ha evidenziato

come il passaggio

culturale dal “maggior interesse

generale” al “maggior valore

per l’azionista” sia oltremodo

pericoloso per l’utente che

deve ancora sottostare ad un

mercato bancario oligopolistico

e politicamente protetto.

Anche il principio costituzionale

della difesa del risparmio

può essere vittima del relativismo.