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Per una discussione con Giulietto Chiesa

di Marino Badiale, Massimo Bontempelli - 31/05/2007

 

 

 

 

 

Giulietto Chiesa, in alcuni interventi recenti (rintracciabili in rete all’indirizzo http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=3991), ha proposto idee di grande interesse, che dovrebbero essere meditate e discusse da tutti coloro che percepiscono il degrado della situazione italiana contemporanea e cercano modi per combatterlo.

Alcune delle tesi di Giulietto Chiesa sono secondo noi da condividere, e rappresentano punti fermi sui quali costruire una prospettiva politica alternativa al panorama attuale.

Egli propone di dar vita ad una Fondazione in cui far confluire energie umane, mezzi finanziari, percorsi di ricerca, gruppi di impegno, allo scopo di costruire qualcosa di simile ad una maniglia cui possano aggrapparsi tutti coloro che vogliono resistere all’attuale disastro sociale ed etico. L’indirizzo strategico della Fondazione dovrebbe essere costituito da una scelta di campo contro le guerre imperiali, contro l’illimitato e assurdo sviluppo della produzione di merci, in difesa della nostra Costituzione repubblicana, delle condizioni ambientali di una sana e sensata convivenza collettiva, dei diritti civili e della solidarietà sociale. L’impegno della Fondazione dovrebbe essere volto a promuovere un nuovo modo, eticamente responsabile, di intendere e di praticare la politica. Per porsi davvero su questi terreni è necessario comprendere non soltanto la vastità della crisi sociale, etica, ecologica, antropologica di fronte alla quale ci troviamo, ma anche l’importanza assolutamente cruciale, rispetto ad essa, della questione della comunicazione, dei suoi modi e mezzi. Il partito democratico in formazione si colloca completamente fuori di questo piano di problemi reali, è un altro da noi talmente altro che non hanno senso, verso di esso, accuse di tradimento. I dirigenti “democratici” non hanno nulla da tradire, perché sono sempre stati privi di ogni verità e moralità, esattamente come sono adesso.

Fino a questo punto concordiamo con quanto dice Chiesa. Nel seguito le nostre analisi divergono, e vorremmo discutere di queste divergenze, convinti come siamo, anche su questo d’accordo con Chiesa, che l’analisi è importante, e che se si sbaglia l’analisi non si fa molta strada.

Secondo Chiesa sarebbe proprio la formazione del partito democratico ad aprire, a sinistra, una “voragine”, cioè una frana dei preesistenti legami di rappresentanza politica del sociale, che disegna il campo possibile e necessario di intervento della Fondazione.

A nostro parere un simile punto di vista è erroneo, ed erroneo in maniera pericolosa riguardo alla attuabilità degli obiettivi che ci prefiggiamo. Una voragine, secondo noi, certamente si prospetta, ma in un senso assai diverso da quello che emerge dall’intervento di Giulietto Chiesa, e senza alcuna connessione con la nascita del partito democratico. Infatti, il ceto politico contemporaneo è profondamente diverso da quello della Prima Repubblica: se una volta c’erano partiti che esprimevano interessi sociali diversi, e che quindi lottavano o si accordavano avendo in ogni caso punti di riferimento esterni a loro stessi, oggi abbiamo un ceto politico professionale che occupa le istituzioni pubbliche e vi gioca i suoi incontri e scontri di potere senza rappresentare, se non per finzioni retorica, alcuna istanza sociale ad esso esterna. Questa autoreferenzialità della politica, questo distacco totale dalla società civile, nasconde il suo totale asservimento alla logica esclusivamente capitalistica dell’economia, ed è funzionale ad esso. I gruppi politici, cioè, hanno con i gruppi economici e sociali legami niente affatto organici (con l’unica eccezione di Forza Italia, partito di Mediaset), ma labili e mutevoli, sulla base di contingenti possibilità di scambi di favori. Ogni gruppo politico agevola o contrasta operazioni di potere in campo economico, mirando ovviamente a trarne vantaggi. Nella ricerca di vantaggi, esso serve non tanto interessi economici specifici di cui piuttosto si serve, quanto la logica del gioco economico, a cui permanentemente si adatta, e i cui principi assume come postulati

In una fase in cui il capitalismo, divenuto assoluto, ha riassorbito ogni alterità, tali postulati (aziendalizzazione di ogni realtà sociale, ricerca del profitto a discapito di qualsiasi altra considerazione, obbedienza indiscutibile agli ordini dell’imperialismo USA) diventano condizioni imprescindibili per accedere alla gestione del potere istituzionale dello Stato, e il ceto politico li accetta quindi in maniera compatta, a destra, al centro e a sinistra.

In questa situazione, la formazione del partito democratico non rappresenta in nessun modo un mutamento del quadro politico. Certo, se si scambia il quadro politico con il campo da gioco del ceto politico professionale, appare un gran movimento: i diessini si spostano a destra per unirsi alla Margherita, gli angiusiani si smarcano a sinistra per riposizionarsi a destra con i boselliani, i mussiani si spostano a sinistra attraendo verdi e comunisti, e questi ultimi lasciano così scoperto il loro fianco sinistro.

Ma tutto questo movimento non ha alcun significato reale esterno al teatro della politica. Sono sempre gli stessi attori, che si scambiano i copioni in uno spettacolo che riproduce sempre la stessa logica sociale. Prendere per sostanza questa apparenza di mutamento significa scambiare le parole per le le cose, e dunque rimanere interni al teatro autoreferenziale del ceto politico, che occulta il suo distacco da qualsiasi problema ad esso esterno appunto attraverso l’incessante scambio di parole e cose. La destra rivendica a parole la difesa della famiglia, per cui non ha speso alcuna risorsa, o l’impegno per la sicurezza, che non ha mai affrontato. La sinistra dichiara intollerabili le morti sul lavoro, che continuano mentre essa governa, e difende tutti i giorni a parole l’ambiente, che lascia tutti i giorni impunemente devastare. In questo quadro i sommovimenti del ceto politico, a destra o a sinistra, non significano nulla. La coscienza di questi dati sta cominciando a penetrare nella coscienza popolare: quando Ferrero e Giordano, davanti ai cancelli di Mirafiori, vengono apostrofati dagli operai con frasi come “basta chiacchiere, vogliamo i fatti”, questo significa che siamo di fronte ad una nascente potenzialità di distacco di una parte dei ceti popolari dal ceto politico. E’ questa, secondo noi, la voragine su cui lavorare.

Lo “spostamento a destra” dei DS, invece, di per sé non apre nessuna voragine. Semplicemente lascia senza ruolo una fascia di quadri di quella che era la sinistra. Quadri che, in vari modi, controllano piccoli bacini elettorali. Ma questo non offre particolari opportunità per la politica che sta a cuore a tutti noi. Volendo essere brevi non possiamo argomentare compiutamente questa tesi. Ma si può far notare che la situazione, mutatis mutandis, è la stessa che si verificò quando il PCI si trasformò nel PDS. Anche allora, si aprì uno spazio vuoto che portò alla formazione di Rifondazione. Basta guardare alla realtà odierna per trarre le debite conclusioni: Rifondazione nasce per conservare la tradizione di sinistra radicale che era presente dentro e fuori il PCI, e finisce con l’appoggiare le guerre imperialistiche USA. Un partito o una Fondazione che nasca oggi per coprire lo spazio di sinistra lasciato scoperto dalla nascita del Partito democratico farebbe la stessa fine di Rifondazione. Perché? Perché esso sarebbe gestito dalla frazione del ceto politico della sinistra chiamatasi fuori, o spinta a rimanere fuori, dalla sinistra di governo in via di scomposizione e ricomposizione. Un tale personale riprodurrebbe inevitabilmente i riti e le gerarchie dell’attuale politica autoreferenziale: riunioni introdotte da una relazione politica generale, a cui gli interventi sovrappongono, spesso senza connessione, considerazioni particolaristiche; mancanza di sedi e di momenti in cui collegare, ma collegare sul serio, vere analisi teoriche ad effettive scelte politiche; posizioni direttive man mano occupate da chi ha l’intero proprio tempo da spendere nelle riunioni; riproduzione, su scala ridotta, del  modo di far politica oggi imperante. Occorre impedire che la nuova Fondazione venga colonizzata da un ceto politico di serie B, magari guidato da buone intenzioni, che non sa fare politica se non nel modo in cui la si fa nella serie A del potere. Per questo, non è necessario imporre a nessuno “esami del DNA” o valutazioni autocritiche del proprio precedente percorso politico, basta mettere avanti fin dall’inizio un semplice punto dirimente: il nuovo soggetto politico è volto ad organizzare un’opposizione dura ed intransigente al governo Prodi ed una rottura radicale con le forze che in parlamento danno fiducia a tale governo. Il nuovo soggetto politico, di fronte alla sinistra-centro del partito democratico, e alla “sinistra della sinistra” mussiano-verde-comunista, non intende essere la sinistra della sinistra della sinistra, perché rifiuta questa non innocente topografia, ma intende essere la “maniglia” di coloro che vogliono resistere all’attuale rovina sociale, morale ed ambientale, e che non possono farlo senza combattere frontalmente il ceto politico che oggi occupa le istituzioni, e che è tutto quanto funzionale a tale rovina. Una tale nuova forza dovrà presentarsi alle elezioni mettendo in primo piano la contrapposizione a tutte le destre e tutte le sinistre, in un isolamento dal teatro della politica ufficiale: all’inizio questo porterà ovviamente a sconfitte, ma si tratta di un passaggio assolutamente necessario per dare visibilità alla “maniglia” e non farla identificare con le solite minestre riscaldate delle “novità politiche”. In un momento in cui perfino il ceto politico ufficiale si rende conto del sordo disprezzo che nei suoi confronti emana dalla società, è vitale non confondersi con esso.

Non possiamo qui esibire le ragioni profonde che rendono oggi necessaria una radicale rottura di contiguità con tutti i politici compromessi con Prodi, compreso Turigliatto, almeno fino a quando non passerà dall’opposizione a certi interventi militari del governo ad una opposizione totale ed intransigente al governo medesimo. Ma ci sono solide ragioni, che esigerebbero ragionamenti non brevi e non semplici. Ci sarà nella nuova Fondazione una sede per parlarne e un motivo per parlarne?

 

Ma come ci regoliamo col popolo di sinistra che rimane in qualche modo legato al ceto politico di sinistra? Il popolo di sinistra non è la base adatta per la politica della quale abbiamo sopra delineato i tratti. Il popolo di sinistra in tutti questi anni ha accettato la separazione fra parole e fatti, dimostrando così che dei fatti, cioè della realtà, gli importa poco. E che cosa vuole allora? Lo dice la celebre battuta di “Aprile”, il film di Nanni Moretti: “dì qualcosa di sinistra”. Non è davvero un caso che questa battuta sia diventata caratteristica, diffusa, quasi un “tormentone”. Essa esprime alla perfezione la verità del popolo di sinistra. Il popolo di sinistra vuole sentirsi dire cose di sinistra, mentre non gli importa nulla che vengano fatte cose di sinistra. Del resto, ed è qui il punto cruciale, le “cose di sinistra” non possono più essere fatte. La sinistra, infatti, è sempre stata a favore dello sviluppo produttivo, e ha agito in favore dell’emancipazione dei ceti subalterni nell’orizzonte dello sviluppo e sulla base della credenza che lo sviluppo promuovesse l’emancipazione stessa. Ma oggi sostenere lo sviluppo produttivo significa ridurre i diritti dei ceti subalterni, distruggere l’ambiente, accodarsi alle guerre imperiali. La fuoriuscita da tutto questo può venire solo da una prospettiva di decrescita della produzione di merci, che è un’esigenza storicamente nuova, estranea alla cultura storica della sinistra così come della destra.

 

Il capitalismo attuale ha ormai invaso l’intero “mondo della vita”, l’intera realtà sociale, assorbendo ogni alterità, ogni istanza sociale che in fasi precedenti aveva potuto contrapporsi ad esso. L’intera realtà sociale è plasmata e riplasmata dall’incessante movimento dell’economia del plusvalore, ed è amministrata, in funzione dell’economia, dalla politica.

La realtà su cui agire, la voragine che si potrebbe aprire, è allora quella delle molte persone che si sentono deluse dalla  politica, che si allontanano da essa con disgusto. Certo, si tratta di un mondo dove sono presenti le cose più diverse, e che si potrà ricondurre solo con molta fatica e solo in parte alla politica cui noi pensiamo. Ma è una realtà potenzialmente molto ampia, contro la quale è sbagliato lanciare accuse di qualunquismo. Quello che conta è la verità delle cose, non le parole. Se al tempo dell’”Uomo qualunque” era sbagliato dire che “tutti i partiti sono uguali”, oggi è invece vero, e questo significa che oggi il qualunquista capisce la realtà meglio del militante di sinistra.

Ma se il capitalismo è oggi così pervasivo, se ha davvero dissolto ogni alterità sociale, non si dovrebbe concludere che è impossibile opporsi ad esso? Questa è la conclusione necessaria per chi pensa che, per combattere il capitalismo, si debba individuare il “soggetto sociale rivoluzionario”, le cui lotte rappresentano la base su cui costruire l’alternativa. Se si esce da questa forma mentis del marxismo tradizionale, si può capire che la nostra posizione esprime pessimismo ma non disperazione. Infatti la plasmabilità totale della realtà sociale da parte del capitale, se impedisce la sedimentazione del “soggetto sociale rivoluzionario”, implica d’altra parte il sottoporre la realtà sociale ad un incessante, invasivo sommovimento, che non può non generare forme di opposizione. L’esempio più importante oggi in Italia è quello delle lotte in difesa del territorio. Ci riferiamo ai quei movimenti (NO TAV, NO ponte sullo stretto, NO rigassificatori, NO discariche ecc.) che nascono come difesa di un territorio da progetti economici invasivi e devastanti per gli equilibri del territorio stesso. Questa invasività e queste devastazioni sono inevitabili, all’interno del meccanismo di sviluppo dell’economia capitalistica, nella fase attuale. Infatti, tale sviluppo non può fare a meno dell’accumulazione di realtà fisiche sul territorio (strutture produttive, infrastrutture edilizie come autostrade e aeroporti, strutture commerciali, mezzi di trasporto, rifiuti che occorre smaltire in qualche modo). Ma il territorio italiano è saturo (altrove la situazione può essere diversa): l’Italia è un paese piccolo e sovrappopolato, il cui territorio è stato da tempo invaso dalle realtà fisiche prodotte dallo sviluppo. Non essendoci più spazio libero, le nuove strutture fisiche necessarie per lo sviluppo possono inserirsi solo in una realtà fisica e sociale già organizzata, mettendone in crisi gli equilibri. In parole povere, le nuove strutture devono invadere la vita quotidiana degli abitanti del territorio, sconvolgendola. L’opposizione da parte degli abitanti del territorio attaccato è dunque naturale e istintiva, non necessariamente derivante da opzioni politiche e ideologiche generali.

E’ a questo tipo di opposizioni e di lotte che una nuova forza politica dovrebbe fare riferimento. La prospettiva che proponiamo non ha quindi come obiettivo quello di “recuperare” il popolo di sinistra, di “esprimere la sinistra”, naturalmente salvaguardandone l’unità: noi vorremmo al contrario spezzare l’unità del popolo di sinistra. Nel popolo di sinistra convivono fianco a fianco persone per le quali gli ideali storici della sinistra rappresentano ancora un impegno vero, e persone per le quali rappresentano solo strumenti di manipolazione elettorale o di gratificazione  personale. Questo contiguità va spezzata per liberare le (poche) forze di opposizione anticapitalistica presenti all’interno della sinistra.