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La sfida introversa alla globalizzazione

di Eduardo Zarelli - 28/07/2007

Piccoli mondi significativi

 

Tra gli aspetti più contraddittori del movimento “antiglobalizzazione”, vi è la spiccata ideologizzazione cosmopolita che pretende di ottenere i “frutti civili” della uniformizzazione planetaria, modificando il sistema economico che li genera. In realtà, l’allargamento dei diritti e la diffusione universale e sociale della giustizia e della conoscenza sono obiettivi condivisi, se pur con modalità “impolitiche”, dall’ideologia liberista, che conduce le “danze” dello sviluppo del mercato unico globale. Risulta quindi palese l’inconsistenza della dialettica destra/sinistra, che anima la meccanica progressista della società industriale. Se alle popolazioni vengono richiesti dei sacrifici, saranno le “sinistre”, con spirito redistributivo a gestire le istituzioni politiche, dato il potere di controllo storicamente acquisito sulle fasce di popolazione più deboli, tramite l’associazionismo e i sindacati. Appena il sistema produttivo sarà pronto per una nuova fase espansiva, torneranno al governo le “destre”, con le aspettative individualistiche.

In tal senso credo si possano generalmente condividere le principali caratteristiche della modernità. Per sommi capi, sul piano politico si è caratterizzata con l’affermazione dello Stato nazione centralistico, in piena rottura con il pluralismo del mondo feudale e, in alcuni ambiti territoriali europei anche comunale, di quei “corpi intermedi” che ne rappresentavano l’eredità sociale. La conseguenza si connota con l’individualismo e la società di massa, con i suoi conflitti ideologici interpretati dai partiti, liberali, democratici o totalitari.

Sul piano economico la centralità industriale si sostanzia con il compimento nazionale dei mercati, colonialistici, competitivi e quindi, in alcuni casi, imperialistici. Successivamente, il fordismo rende possibile per il capitale, nel secondo dopoguerra, l’integrazione progressiva del proletariato in un indefinito ceto medio consumistico, sotto la tutela dello stato provvidenziale, che in nome della cooperazione individualistica distrugge le solidarietà organiche comunitarie e gli usi vernacolari. (1) Ovviamente tutto questo ha un costo ecologico devastante. La libertà umana diminuisce in maniera direttamente proporzionale allo sviluppo tecno-scientifico, che imprime un sigillo di necessità a uno sviluppo antibiologico. Cultura e natura si divaricano come mai nell’evolversi della civilizzazione. L’esaurimento delle “risorse” naturali, le modificazioni climatiche, la subsidenza dei suoli, la riduzione dell’ozonosfera, della biodiversità, l’urbanizzazione, creano una condizione unica ed epocale per il pianeta intero. Ideologicamente, la modernità è sinonimo di disincanto e secolarizzazione. Gli individui compongono masse anonime, mobilitate da grandi narrazioni storicistiche: l’uguaglianza consegue alla libertà, già affermatasi in forme egemonicamente utilitaristiche.

I termini della discussione intorno alla globalizzazione agiscono sul perno del superamento della stessa modernità. La mondializzazione, fenomeno eminentemente tecnologico e finanziario, rende insufficienti gli Stati, troppo piccoli per il respiro internazionale dei tempi, troppo grandi per i problemi reali della gente.  Non a caso, si assiste ad un potente movimento di “ritorno al locale”. Se le ideologie della modernità avevano spiegato e piegato universalisticamente il locale, all’oggi, in controtendenza, si torna a guardare l’universale da prospettive locali, minimalistiche, ma a misura d’uomo e quindi di natura. D’altronde l’insicurezza cresce con l’incertezza del progresso, la sua protervia ripropone il “limite” come argine alla “volontà di potenza” industriale, che con la cibernetica e le biotecnologie arriva a manipolare le stesse interazioni, che sono all’origine della coerenza elettrodinamica quantistica finalistica del vivente.

Sul piano ideologico, le “grandi narrazioni” cedono il passo a “piccole narrazioni” differenziali e relativistiche. Le teorie astratte sono sostituite da preoccupazioni modeste, ma concrete. Le istituzioni, sempre più lontane e burocraticamente impermeabili, si svuotano di senso e ampliano una mancanza di significato che favorisce la ricerca di identità, oltre una uguaglianza reificata dalla massificazione e il consumismo.

I governi non hanno più potere perché è la governabilità stessa che viene meno a ogni livello. Se la razionalità scientifica fornisce gli strumenti concettuali e materiali per la dissociazione del reale, l’irrazionalità economica priva la politica di credibilità e quindi di un reale consenso sociale. L’imprevedibilità scientifica ed economica genera indeterminatezza politica, determina un processo sfrenato di produttivismo consumistico, ingovernabile da destra e da sinistra, che imprime una crescita esponenziale al degradare della biosfera, dell’uomo e della cultura. Un processo che, facendo leva sul soddisfacimento di bisogni materiali e istintuali, effettivi o artificialmente indotti, genera l’illusione di massa d’una libertà di scelte finalizzate al consumo. Ma la logica contro natura della mercificazione del mondo stringe alla libertà un cappio fatale. Possiamo affermare con certezza, che la vera contraddizione che permane nella modernizzazione e sostanzia l’unica vera opposizione al processo di civilizzazione è la rottura del rapporto tra cultura e natura.

Dal punto di vista umano, l’intelligenza ha a che fare con la dimensione collettiva dell’aggregarsi, in cui ognuno si riconosce come parte di qualcosa di più vasto e partecipa alla trama della vita nella sua interezza fatta di modelli, archetipi e simboli, da un lato; di cicli, suono, ritmi, dall’altro.

La razionalità è, invece, la capacità di elaborazione logico-matematica e di previsione a partire dai dati acquisiti con l’esperienza. È espressione parziale dell’individuo ed è determinata da una serie di condizionamenti, fra cui spicca quello sociale in una prospettiva metafisica antropocentrica. Averla elevata al rango di unica guida dell’attività umana, ha comportato una serie di conseguenze:

- la rottura dell’intima relazione fra uomo e natura;

- la perdita individuale del senso immediato di appartenenza ad un contesto comunitario;

- l’instaurazione di una misura del “valore” individualistica, basata sul concetto di utilità nei confronti di una società umana “razionalizzata” e, giocoforza, contrattualistica. 

Lo squilibrio dovuto alla razionalizzazione si cristallizza nel potere della sopraffazione: l’artificiale sul naturale, il materiale sullo spirituale, i “progrediti” sugli “arretrati”.

Questo significa che, qualunque sia il punto di vista da cui si critica la società contemporanea, per andare alla radice dei suoi mali e delle sue contraddizioni, bisogna affermare come centrale la questione ecologica, non già nei suoi effetti ultimi, “ambientali”, ma nel suo significato profondo, ontologico, causale, di distacco fra cultura umana e natura.

In una cultura ad alta entropia (generazione di un ordine sempre più accentuato in un determinato ambito, inducendo il disordine e la morte nell’ambiente che lo sostiene), lo scopo prevalente della vita diviene quello di usare un elevato flusso energetico per creare un’abbondanza materiale e soddisfare ogni concepibile desiderio umano. La liberazione umana viene quindi a coincidere con l’accumulo di una quantità sempre maggiore di ricchezza. Avendo bandito il sacro dalla società, il sistema di valori materialista e ad alta entropia cerca di creare il paradiso in Terra, definendo lo scopo ultimo della nostra esistenza nella soddisfazione di ogni possibile bisogno voluttuario. La “realtà” è ridotta a ciò che si può misurare, quantificare, verificare, negando i valori qualitativi, spirituali e metafisici. Il dualismo pervade le nostre menti separate dai nostri corpi e i nostri corpi disgiunti dal “mondo circostante”. Soggiaciamo al progresso materiale, all’efficienza dell’automatismo, alla specializzazione sopra qualsiasi altro valore. Così facendo distruggiamo la famiglia, la comunità e le tradizioni. La fede faustiana nella capacità tecno-scientifica di superare tutti i limiti relativizza i valori sostanziali, ontologici.

Oggi l’individualismo e l’egoismo sono il motore stesso della società. Nel momento in cui la dimensione comunitaria è stata distrutta dall’incedere della modernità, è venuta meno la possibilità che l’individuo pensasse e vivesse compiutamente in termini di intelligenza piuttosto che di razionalità, perdendo così il senso di appartenenza con la più ampia comunità naturale.

In natura, ogni cosa è in relazione e la rottura della sintonia profonda che lega tutte le specie nella trama della vita inibisce la sensibilità dell’uomo a sentirsi parte dell’universo in un rapporto di corrispondenza elettiva tra micro e macrocosmo.

Vivere e pensare in termini razionali è riduttivo. Razionalizzare vuol dire semplificare, ridurre l’infinita complessità della vita ad una serie di dati manipolabili. L’individuo che perde il senso della comunità, perde la possibilità stessa di realizzarsi.

Una somma di individui origina una società di massa, in cui i rapporti interpersonali sono basati sul fuggevole vantaggio immediato. È la società dello scambio, dell’interesse, del comportamento strumentale.

In una comunità, al contrario, il principio di riferimento è la reciprocità. Si agisce in vista del bene comune, riconoscendo nell’esistenza della comunità il fondamento stesso della propria realizzazione personale e la continuità che si perpetua nella cultura oltre la caducità del tempo e la condizione limitata della vita terrena.

Il principio della reciprocità esalta la persona, che è tanto più importante quanto più dona, quanto più è capace di creare e contribuire alla vita comunitaria. La comunità riconosce il contributo ricevuto e restituisce ciò che riceve in termini di prestigio e redistribuzione materiale ma, soprattutto, costituisce una circolarità spirituale.

Con la transizione tra modernità e postmodernità, il paradigma materialistico e riduzionistico perde di credibilità. Questo paradigma consiste in una quantità di idee e valori radicati nella mentalità comune, fra cui la visione dell’universo come sistema meccanico composto da mattoni elementari, la visione del corpo umano come macchina, la visione della vita sociale come competizione individuale per l’esistenza, la fiducia in un progresso materiale illimitato da raggiungere attraverso la crescita economica e tecnologica. Fatalmente, tutti questi assunti sono messi in discussione dalla perdita delle certezze del progresso e, di fatto, rendono plausibile la necessità di una loro revisione radicale. Possiamo definire il nuovo paradigma come olistico. Scrive Edgar Morin a tal proposito che: «non soltanto il tutto è più della somma delle parti, ma è la parte che, grazie al tutto, diviene più della parte». (2) Proprio quando la frantumazione specialistica delle attività umane sembra aver distrutto irrimediabilmente l’unità del sapere, i nuovi statuti epistemologici di fisica e biologia si riportano sulle tracce della metafisica sapienziale, (3) e convergono nel disegnare una visione del mondo né deterministica, né indeterministica: aperta alla libertà creativa ma solo nel rispetto di vincoli dati nelle interazioni vitali. Possiamo anche chiamarlo una visione ecologica, se conferiamo all’aggettivo “ecologico” un significato più ampio e profondo di quello usuale. Una consapevolezza ecologica profonda riconosce la fondamentale interdipendenza di tutti i fenomeni e il fatto che, come esseri umani e sociali dipendiamo e, contemporaneamente, incidiamo sui processi ciclici della natura. La cultura dominante sostiene che le leggi di natura sono pure astrazioni, che, non a caso, sussume nelle leggi economiche. In realtà, vivere secondo le leggi di natura significa porsi il problema di come non ferire la sensibile trama della vita che ci circonda, di come ridurre nel migliore dei modi l’impatto dovuto ai nostri consumi, ai nostri bisogni. Cadendo il velario delle pseudoconcretezze utilitaristiche e sensistiche, indispensabili allo sviluppo materiale, si rende possibile un’etica comunitaria cosmogonica, laica e religiosa ad un tempo, che ri-anima il mondo. (4)

Se c’è qualcosa che la natura indica perentoriamente, è il senso del limite. Mentre la globalizzazione (il mondo visto come un tutt’uno suddiviso in parti atomicistiche manipolabili) è un prodotto della modernità e degli strumenti scientifici, il localismo è il normale modo di vedere dell’uomo: vista limitata, sensi limitati, possibilità di spostamento limitata, possibilità di conoscenza limitata. Si può dire che il localismo è il modo di pensare ecologico per eccellenza, dato che lega l’uomo alla natura, al territorio e non ad una sua visione “costruita”, pensata, , ideologica, virtuale, artificiale. Il legame con un territorio dato, rende uomini e popoli consapevoli del concetto di “limite”.

L’essenza di una prospettiva olistica sta nella volontà di riconnettersi col proprio luogo, sottraendolo - usando le parole di Serge Latouche - al controllo della megamacchina, (5) per ristabilire il corretto rapporto con il mondo naturale. È possibile ritrovare la connessione intima con l’intera “trama della vita” e rinunciare a porsi in posizioni di dominio - peraltro apparente e temporaneo - ricreando reciprocità ed armonia tra l’uomo e la natura. È possibile, però, solo se si torna ad essere abitanti del luogo, se cioè si recuperano solide radici tramite le quali acquisire una nuova consapevolezza del Pianeta come essere vivente. Si tratta di sviluppare una sensibilità ecocentrica con cui costruire, nel ventre stesso della società dello scambio, una rete di ambiti di reciprocità in cui possano svilupparsi comunità locali rigenerate - in grado di autogovernarsi e di rielaborare o ritrovare la propria cultura indipendente dalla omogeneizzazione globale - legate strettamente alla compatibilità ambientale. (6)

La megamacchina opera per affermare la propria cultura unica, il suo stile di vita universale. Il suo obiettivo è quello di ridurre tutti i popoli ad una unica grande massa omogenea e quindi malleabile a piacimento. Cerca di raggiungere questo obiettivo con la sterilizzazione culturale, sociale e politica. Se la dimensione mondiale dei processi in atto non può essere realisticamente rimossa, si avrà sviluppo locale dove la società locale saprà resistere attivamente alla globalizzazione costruendo reti solidali. La globalizzazione esclude l’autosostenibilità del locale imponendo la competitività contro la cooperazione, lo sfruttamento delle risorse contro la valorizzazione del patrimonio identitario, la polarizzazione economica contro la socializzazione dell’economico. La soppressione delle differenze, comunque perseguita, oltre ad essere omicida - perché alla biodiversità deve necessariamente corrispondere la diversità culturale - genera mostri con l’esaltazione della diversità fine a se stessa, autoreferenziale, che si percepisce superiore, misantropica, e quindi aggressiva. L’integralismo, il neo-tribalismo e lo sciovinismo vanno di pari passo e, più probabilmente al traino, della schiacciante arroganza egemone dell’occidentalizzazione del mondo. Il locale, come comunità delle comunità, è l’unica credibile eterogenesi dei fini della globalizzazione, del suo centralismo tecnocratico, della sua mercificazione economica e omogeneizzazione culturale. I principali punti cardinali di tale prospettiva ci sembra possano essere i seguenti:

- sistemi produttivi locali autosostenibili, che si relazionano nello scambio come agenti attivi di produzione qualitativa della ricchezza e come agenti di modelli originali di produzione e consumo;

-relazioni commerciali che sviluppino reti locali di mercato contro la liberalizzazione di quest’ultimo; legami finanziari fondati su principi di sussidiarietà e complementarietà;

- rafforzare la ri-costruzione del legame sociale (in grado di autoalimentarsi) e la sua capacità di esprimere peculiarità nello stile di sviluppo autosostenibile; ciò richiede lo stimolo di una cultura basata su di un  principio di simbioticità con i riferimenti di “ciclicità” e “limite” insiti nella omeostasi della natura. (7)

Una comunità locale, nel suo rapporto con il territorio, rimanda alla sua identità e quindi alla capacità di saper riconoscere le proprie frontiere. La frontiera dell’identità locale è un limite naturale, esattamente come la pelle per il corpo umano o come le membrane che assicurano ad ogni singola cellula la propria autonomia, ma anche la relazione con il resto dell’organismo. La pratica bioregionalista, in tal senso, si pone come vera avanguardia delle tendenze più interessanti espresse dal movimento della “ecologia del profondo”. (8)

Cosa differenzia quindi un sentimento comunitario aperto, cosmogonico, da una comunità chiusa, tribale? Nella sua estroversione la considerazione per cui le altre comunità non negano la propria ma, anzi, la confermano nella necessità – questa sì universale – di radicamento. Nella sua introversione mostrandosi aperta e “libertaria”, verso chi si sottragga ai valori e ai modelli espressi nella consuetudine, limitandosi ad affermare il bene comune in positivo, quale scelta individuale, di coscienza, non coercitiva.

Il legame con un territorio, con un Luogo, è il primo passo per concretizzare il concetto di limite. Solo in tale prospettiva ci si sottrae alla logica del pensiero unico e ci si rende consapevoli dell’importanza di tornare ad essere abitanti della nostra terra, anziché cittadini virtuali e mercificati del mondo, titolari di astratti quanto impositivi diritti occidentali. L’Occidente diviene Occidentalizzazione quando finisce di essere una terra per divenire un tempo senza limiti spaziali, immolato alle sue categorie vettoriali di progresso, usura e obsolescenza. Diviene barbaro chi non è riconosciuto nella contemporaneità e va quindi convertito, conquistato o semplicemente rimosso dalla realtà razionale. Tutte le culture cosmogoniche, cicliche, si sono altresì caratterizzate sacralmente come divoratrici di tempo e abitanti lo spazio, un universo limitato e quindi reale. Invece di “opporsi” alla globalizzazione, la strategia adatta è quella di prenderne atto e di muoversi sul piano culturale, economico e sociale, per creare un bene comune condivisibile, reale, locale. Ricreare un senso comunitario che metabolizzi l’individualismo sensistico dominante e le sue categorie onnivore e suicide nella sobrietà di uno stile di vita consapevole.

 

Note

1. Relativamente al significato di vernacolare vedi di  I. Illich, Il genere e il sesso, Mondatori, Milano 1986; e Nello specchio del passato, Red, Como 1999

2. E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, Milano, 1993

3. Vedi di F. capra, Il Tao della Fisica, Adelphi, Milano, 1984 e La rete della vita, Rizzolo, Milano, 1998; A. Sacchetti, Scienza e coscienza. L’armonia del vivente, Arianna editrice, Casalecchio, 2001

4. Vedi a tal proposito l’interpretazione ciclica del sociologo russo P. Sorokin, La crisi del nostro tempo, Arianna, Casalecchio, 2000

5. Serge Latouche, La megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso, Bollati Boringhieri, Torino, 1995

6. Vedi a tal proposito di A. Magnaghi, Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino, 2000

7. Relativamente al termine omeostasi vedi di E. Goldsmith, Il Tao dell’ecologia, Muzzio, Padova, 1997

8. Sulle implicazioni della ecologia del profondo vedi A. Naess, Ecosofia, Como, 1994; Devall e Session, Ecologia profonda, EGA, Torino, 1989. Per la riduzione di scala ecologica e il bioregionalismo vedi di E.F. Schumacher, Piccolo è bello, Mondatori, Milano, 1996; K. Sale, Le regioni della natura, Elèuthera, Milano, 1993; AA.VV, Il territorio dell’abitare, Angeli, Milano, 1996.