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Cresce la voglia di controllo della stampa finanziaria

di Alessandro Volpi - 31/05/2007

 
Wall Street Journal e dintorni: cresce la voglia di controllo della stampa finanziaria

Sembra che tra le considerazioni che hanno spinto Rupert Murdoch ad avanzare un'offerta di acquisto della società Dow Jones, proprietaria del «Wall Street Journal», vi sia stata l'allettante idea di poter riportare una sintesi delle notizie contenute in tale testata sulle pagine dei suoi 175 giornali, così da sfamare il bisogno di finanza di milioni di lettori, abituati a nutrirsi solo di tabloid. Questa voce, forse tutt'altro che marginale, può servire a spiegare perché negli ultimi mesi sia in atto una vera e propria febbre di acquisizioni e fusioni nel settore dei media, a cui il magnate australiano ha contribuito mettendo sul tavolo oltre 5 miliardi di dollari per comprare una delle società di maggior prestigio come appunto Dow Jones.

Quasi contemporaneamente la canadese Thompson e la britannica Reuters si sono unite per dar vita ad un nuovo megagruppo con 35 miliardi di dollari di capitalizzazione, specializzato nell'informazione finanziaria. Più in generale, tra gennaio e maggio 2007 il settore dei media è stato interessato da fusioni per un valore complessivo di 132 miliardi di dollari.

Al di là delle esigenze di riorganizzazione, imposte dal peso assunto da internet, appare evidente il legame tra simili aggregazioni e la crescente finanziarizzazione dell'economia internazionale; la vorticosa crescita del numero di abitanti di vaste aree di questo pianeta che a vario titolo è coinvolto nei processi finanziari sia per «gestire» il proprio indebitamento quotidiano sia per seguire gli andamenti delle proprie polizze previdenziali e, spesso anche sanitarie, determina un significativa estensione dei lettori di finanza. Si tratta di lettori che hanno bisogno non tanto di strumenti tecnici, per loro difficilmente comprensibili, quanto di informazioni semplificate, tradotte in linguaggio «popolare»; ciò che Murdoch e le grandi agenzie di stampa hanno dimostrato di saper certamente fare. Si sviluppa così il business della notizia di Borsa, alla quale associare magari una serie di reti televisive tematiche e siti internet.

Certo ciò che colpisce è il fulmineo costituirsi di giganteschi monopoli che opacizzano un simile mercato proprio nel momento in cui, per le dimensioni raggiunte, sarebbe necessaria una sua maggiore trasparenza. Se i soggetti finanziari sono rappresentati da miriadi di piccoli investitori alle prese con le difficoltà dell'esistenza giornaliera, che trovano nella lettura della stampa finanziaria una delle fonti principali delle loro valutazioni, il fatto che tali informazioni provengano da un paio di grandi gruppi, a pieno titolo coinvolti nelle ondate borsistiche che dovrebbero commentare, non è sicuramente una garanzia.

Decisivo, in questo senso, è l'intreccio di relazioni che lega i nuovi colossi dell'informazione, impegnati in più ambiti e nelle condizioni quindi di svolgere un paradossale «insider trading» giornalistico, pilotando milioni di investitori e facendo «opinione finanziaria» globale. Il passaggio dalla tradizionale proprietà familiare di alcune delle testate finanziarie più note, come nel caso dei Bancroft con il «Wall Street Journal», o dalla rigorosa governance della Reuters a veri e propri trust porta con sé una probabile riduzione dei margini di indipendenza delle valutazioni formulate sul mercato dei titoli; un rischio tanto maggiore quanto più numerosi sono i lettori-investitori raggiunti e quanto più le rendite finanziarie sono per tali lettori-investitori fonte primaria di reddito.

Se poi, accanto ai gruppi già in qualche misura presenti nel settore dei media, si aggiunge l'intervento dei grandi fondi di investimento, attentissimi ai rendimenti a breve e inclini a spingere per valutazioni positive dei titoli in loro possesso, allora l'impressione che la democrazia dei mercati sia non troppo stabile risulta assai rafforzata.