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Botswana, l'odissea dei boscimani Sfrattati per far posto ai diamanti

di Stefano Liberti - 31/05/2007

 

Deportati per permettere le prospezioni della De Beers, i bushmen del Kalahari hanno fatto causa al governo. Hanno vinto, ma non riescono a tornare a casa


Li hanno sfrattati dalla loro terra. Li hanno umiliati, picchiati, disprezzati. Li hanno chiusi in «campi di reinserimento». Ma loro non si sono dati per vinti: hanno continuato a combattere per riavere le proprie case, per riconquistare il diritto ad abitare nei territori su cui hanno vissuto di caccia e raccolta per almeno 200 secoli.
La guerra del deserto Kalahari è andata avanti silenziosamente per circa dieci anni. Da una parte i boscimani, i bushmen, poco più di 1500 persone la cui unica colpa era abitare in una zona ricca di diamanti. Dall'altra il governo del Botswana, che li ha fatti sloggiare per permettere alle grandi compagnie internazionali - in primis la sudafricana De Beers - di fare le proprie prospezioni in vista di uno sfruttamento delle gemme preziose.

I trasferimenti forzati hanno inizio nel 1997, con il pretesto di garantire agli abitanti della regione un migliore accesso ai servizi primari. Secondo il presidente Festus Mogae, la Central Kalahari Game Reserve non è luogo in cui dovrebbero vivere esseri umani; le condizioni ambientali sono adatte solo agli animali. All'inizio, il governo cerca di persuadere i boscimani ad andarsene spontaneamente. Poi passa alle maniere forti: revoca le licenze di caccia, svuota le riserve d'acqua, smantella e cementa i pozzi, arresta e tortura. Nel 2002, la totalità dei bushmen viene spostata in massa in vari «campi di reinserimento», dove trascorre le proprie giornate nell'inedia, piombando nell'apatia e nell'alcolismo. Intanto, per una curiosa coincidenza, le concessioni per l'esplorazione diamantifera aumentano a dismisura.

Il governo nega che dietro la sua «missione civilizzatrice» si nasconda il desidero di consentire l'estrazione di diamanti - e di evitare che in futuro i bushmen avanzino rivendicazioni sulle ricchezze nascoste nel loro territorio ancestrale. Questi ultimi, da parte loro, cominciano a organizzarsi. Grazie al sostegno dell'associazione Survival International, lanciano una campagna internazionale. Esercitano pressioni sull'Unione europea e sulle Nazioni unite. Non accettano di piegarsi al loro destino di sfrattati e fanno causa al governo. Nel dicembre scorso, dopo un processo lungo due anni e mezzo al termine dell'azione legale più costosa di tutta la storia del Botswana, la Corte emette il verdetto: gli sfratti operati dal governo sono definiti «illegali e incostituzionali» e i boscimani hanno il diritto a vivere nelle loro terre ancestrali. È un trionfo di portata storica. I bushmen esultano. Ma la guerra è lungi dall'essere vinta. Il governo di Mogae finge di accettare la sentenza, ma continua a fare di tutto per impedire il loro ritorno a casa: i pozzi rimangono cementati, la caccia proibita. Gli spostamenti sono impediti. Il portavoce del presidente arriva a dire che la sentenza è valida solo per le 243 persone che hanno presentato il ricorso (28 della quali nel frattempo sono morte).
«La cosa che ci rattrista di più è che il nostro governo non voglia rispettare la legge e garantire i servizi di cui abbiamo diritto in quanto cittadini del Botswana», esclama Roy Sesana, leader dei bushmen e vincitore nel 2005 del Right Livelihood Award, il celebre premio Nobel alternativo. Di passaggio a Roma, Sesana ha partecipato a una conferenza stampa al Senato in cui ha raccontato l'odissea del suo popolo e ha apportato una testimonianza a sostegno della ratifica della Convenzione 169 dell'Organizzazione internazionale del Lavoro (Oil) da parte dell'Italia. Una convenzione che - firmata per ora solo da quattro governi europei (Norvegia, Paesi bassi, Danimarca e Spagna) - riconosce i diritti di proprietà della terra dei popoli tribali e stabilisce che essi debbano essere consultati ogni volta che vengono varati progetti di sviluppo che possano incidere sulle loro vite. Uno strumento essenziale, come ha sottolineato il presidente di Survival International Stephen Corry, «per impedire che si ripetano soprusi come quello perpetrato ai danni dei boscimani».

Intanto, la lotta di Sesana e compagni rischia di estendersi come una macchia d'olio al di là dei confini del Botswana: i boscimani della Namibia, sfrattati dalla loro terra per analoghe ragioni, chiedono a loro volta di essere reinsediati.