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L’albergo dei sogni perduti

di Stenio Solinas - 02/06/2007

 

Clicca per ingrandire Il Beat Hotel naturalmente non si chiamava così. A dire la verità, non si chiamava per niente, non aveva né nome né insegna. Stava al numero 9 di rue Gît-le-Coeur, nella parte più medievale del Quartiere latino, lì dove rue Saint-André des Arts sbuca quasi sulla Senna, non lontano dalla chiesa gotica di Saint Severin. Era di XIII categoria, la più bassa, quella per la quale in teoria si dovevano garantire le sole norme di igiene e di sicurezza, ma si poteva soprassedere sui servizi... In realtà era molto sporco, i topi correvano lungo le scale, le camere non avevano il bagno, ai piani i gabinetti erano alla turca, c’era un odore stagnante di cibo e di escrementi: nelle stanze si poteva cucinare, nei cessi spesso mancava l’acqua...
Gerente dell’albergo era Madame Rachou, che veniva da Giverny, aveva fatto in tempo a servire a tavola Monet e Pissarro, e prima in coppia con il marito, poi, rimasta vedova, da sola, lo mandava avanti dagli anni Trenta: a fianco dell’entrata, a sinistra, un’altra porta a vetri con dipinto il suo nome introduceva al bar-bistró che completava il tutto. C’erano 42 camere, molte prendevano la luce soltanto dalla tromba delle scale, l’acqua calda era disponibile nei fine settimana, la biancheria veniva cambiata una volta al mese.
Beat Hotel più che un’insegna fu un soprannome, o forse sarebbe meglio dire che lo stabile lo assunse per proprietà transitiva: nell’autunno del 1957 vi si insediarono Allen Ginsberg, Gregory Corso e Peter Orlovsky, tre dei membri più importanti di quello che più tardi sarebbe stato definito il Rinascimento poetico di San Francisco, ma che allora era semplicemente la Beat Generation, una sorta di figli putativi e ribelli della Lost Generation, la «generazione perduta» degli anni fra le due guerre. Dal 1957 al 1963, con interruzioni più o meno lunghe, il Beat Hotel divenne la loro dimora parigina e quando lì si stabilirono anche William Burroughs e Brion Gysin la formazione fu pressoché al completo. L’unico che non vi mise mai piede fu Jack Kerouac, l’autore di Sulla strada.

Degli scrittori beat era il più aristocratico, ma anche il più alcolizzato, quello che per primo arrivò al successo, ma anche l’unico a morire relativamente giovane, intorno ai cinquant’anni... Particolare curioso, nonostante le ascendenze franco-canadesi, e quindi un certo penchant per il Vecchio continente, e nonostante fosse lui il cantore del movimento, dell’«andare», del gruppo sarà proprio Kerouac quello che più malvolentieri lascerà gli Stati Uniti e che sempre più rifuggirà da una vita di promiscuità, vagabondaggi, ristrettezze...
In quegli anni, e sempre al Beat Hotel, Ginsberg scrisse le sue poesie più famose, escluso L’Urlo, Corso compose Bomb e The Happy Birthday of Death, Burroughs Il pasto nudo, Gysin inventò la teoria del cut-up, ovvero la letteratura come riciclo della letteratura, lì furono ideati e organizzati i primi spettacoli di luci e proiezioni corporee multimediali, gli antesignani degli spettacoli rock con luci psichedeliche, lì fu costruita la Dreamachine, la macchina dei sogni che creava allucinazioni visive, lì venne girato il film sperimentale inglese The Cut-Ups e quindi per molti versi si può dire che gran parte della controcultura americana che avrebbe dato vita agli hippies e poi ai figli dei fiori, venne tenuta a battesimo sulle rive della Senna.
Che cosa gli scrittori americani cercassero nel cuore della vecchia Europa è presto detto: una fuga dal conformismo e dal puritanesimo, la possibilità di vivere in maniera libera. Curiosamente, ciò che non li attirava era proprio ciò che allora faceva di Parigi il centro intellettuale del continente: esistenzialismo e Nouvelle Vague, Sartre e Godard, la Gréco e la Bardot, Françoise Sagan ma anche Ionesco e Beckett... Erano anche gli anni della guerra d’Algeria, del ritorno sulla scena politica di de Gaulle, della fine della Terza Repubblica, ma agli scrittori beat la politica non interessava, e l’ideologia ancor meno. «Sono soltanto un ex marinaio, non faccio politica, non voto nemmeno» dirà Ginsberg: erano per un totale non coinvolgimento, «la mitezza dell’agnello dell’illusione», un pacifismo non attivo, piuttosto una specie di «non contate su di noi».

L’unico che andrà in seguito controcorrente sarà Kerouac, con le sue simpatie per la destra di McCarthy e il suo anticomunismo, ma Corso scriveva di amare la bomba atomica, perché odiarla voleva dire restarne vittima, Burroughs era perso nei mondi che popolavano i paradisi artificiali e insomma l’idea che dietro la Beat generation ci fosse un nocciolo duro ideologico è soprattutto frutto di letture interessate. Non sorprende che i loro gusti intellettuali andassero verso scrittori come Céline, verso movimenti come il dadaismo e in genere verso tutto ciò che metteva l’arte al primo posto e la società all’ultimo.
Il disinteresse verso ciò che accadeva all’esterno, si spiega anche con l’interesse verso ciò che si muoveva all’interno del piccolo gruppo. Un capitolo a parte meriterebbe il rapporto con la droga. Oggi che il fenomeno è da sballo, da tedio, da pura evasione o da puro piacere, e in fondo di massa, riesce difficile riferirsi a un’epoca in cui «avvicinamenti, droghe, ebbrezze», per dirla con Ernst Jünger, erano intesi nel senso di una percezione più profonda, di un’esplorazione totale, di un viaggio mentale... C’erano poi gli aggrovigliati rapporti sentimentali, con un tasso molto alto di omosessualità, ma anche con l’idea che la donna di uno fosse, lei consenziente, la donna di molti se non di tutti, e una forte solidarietà artistico-comunitaria, il che voleva dire interessarsi anche praticamente (battere a macchina testi altrui, trovare gli editori, prestare soldi) del lavoro degli altri. Nel tentativo di far pubblicare Il pasto nudo dalle edizioni Olympia di Maurice Girodias, allora specializzate in pornografia d’autore, Ginsberg, Corso e l’intellettuale francese Jean-Jacques Label gli occuparono la casa editrice. «Gregory aveva portato del vino e noi ci sedemmo per terra. Gli dicemmo: “Non ci muoviamo da qui fino a quando non avrai firmato il contratto...”».
Altre volte, l’assoluta bizzarria degli atteggiamenti produceva situazioni tra il farsesco e il grottesco. A una festa in onore di Duchamp, Corso, ubriaco, vomitò giù sulle scale, Ginsberg si mise a baciare le ginocchia del pittore, convinto di fare un gesto surrealista, ancora Corso gli tagliò la cravatta con un paio di forbici... Il modo di fare era questo e in fondo pervadeva un po’ tutti gli abitanti del Beat Hotel, artisti o meno. Sinclair Bailes, un amico di Burroughs fin dai tempi di Tangeri, si era trasferito lì con la sua ragazza tedesca, e siccome lui era un ebreo sudafricano, la inseguiva sul tetto con una spada per vendicare le persecuzioni subite dalla sua razza.

Il Beat Hotel ai beat non sopravvisse. Madame Rachou cedette la gerenza nel 1963 e al suo posto, da allora, c’è il Relais du Vieux Paris, sempre al passo con i tempi e quindi oggi dotato, oltre che di minibar, telefono e bagni di marmo bianco in camera, di televisione satellitare e internet... Intorno non è cambiato nulla, rue Gît-le-Coeur è rimasta una stradina stretta, il panorama d’intorno non è mutato, c’è più turismo, ma convive con quegli elementi popolari e di quartiere che sono un po’ una caratteristica parigina. Chi è appassionato al passato può andare alla ricerca delle fotografie d’epoca che sono il pezzo forte del volume di Harold Chapman The Beat Hotel, pubblicato negli anni Ottanta dall’editore francese Gris Banal. Chi vuole ripercorrere la storia degli stravaganti e geniali inquilini che in quel quinquennio lo popolarono, ha invece ora a disposizione il saggio di Barry Miles Il Beat Hotel (Guanda, pagg. 323, euro 18), una guida perfetta a una bohème irripetibile di sperimentazioni creative, droghe e libero amore.